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Esteri

Libia: Conte si appella a Putin, ma la "pax russa" non contempla Sarraj. E intanto scatta l'allarme terrorismo

Mikhail Klimentyev via Getty Images
Mikhail Klimentyev via Getty Images 

Non ci resta che lo "zar". Dopo il cambio di "cavallo" da parte di Trump, all'Italia non resta che affidarsi a Vladimir Putin per provare a non essere tagliata fuori dalla partita libica, avendo puntato sul cavallo perdente: il primo ministro del Governo di accordo nazionale (Gna) Fayez al-Sarraj. Roma chiede a Mosca L'Italia di "lavorare insieme ad una soluzione" della crisi libica. Una crisi che si è ormai trasformata in una guerra per procura. E' quanto emerso da un incontro a Pechino tra il premier italiano ed il presidente russo. Secondo quanto riferiscono fonti italiane, Conte "ha espresso a Putin la sua valutazione dell'attuale situazione in Libia e gli ha chiesto di condividere le preoccupazioni al fine di lavorare insieme a una soluzione".

Già ieri Conte si era espresso sulla Libia, chiarendo che l'Italia "non è a favore di Sarraj né di Haftar, ma è a favore del popolo libico". "In realtà – aveva esordito il presidente del Consiglio nel corso di una conferenza stampa a Pechino - non sostengo un singolo attore sullo scenario libico: l'Italia, il governo, mira a ottenere la stabilizzazione del Paese e riteniamo che per raggiungere questo risultato l'opzione militare non sia assolutamente affidabile". Secondo Conte, "l'intenzione di Haftar, appoggiata da alcuni Paesi, di unificare il territorio libico, di unificare l'esercito, le forze di sicurezza, può anche avere una logica ispiratrice, una sua plausibilità, ma di fatto la nostra posizione si sta rivelando lungimirante alla luce della concreta evoluzione dello scenario libico: non è con l'opzione militare che si può stabilizzare la Libia". A causa della tensione in Libia, c'è "il rischio di trasmigrazione di radicali islamici" in Tunisia e in Italia. A ribadire l'allarme sul possibile arrivo di terroristi è nuovamente il premier. Il quale, parallelamente, assicura che i soldati italiani stanziati a Misurata "non offrono alcun supporto ad attività militari, paramilitari o altro".

E' la risposta di Conte alle forze in Cirenaica che stanno con l'uomo forte di Bengasi e che chiedono all'Italia di essere ascoltate, accusandola persino di sostenere il terrorismo assieme a Turchia e Qatar. Lo hanno fatto con un appello dai toni forti di denuncia contro le "mosse pro Tripoli" italiane e, come scrivono, contro la "presenza di soldati italiani con compiti poco chiari e sicuramente non di carattere umanitari" Il documento è firmato da 45 tra leader della società civile, dirigenti di associazioni umanitarie e personalità tra Tobruk e Bengasi. Lavorare insieme a una soluzione, si appella Conte. Il problema è che ognuno degli attori esterni che si muovono sullo scenario libico, hanno una loro idea di "soluzione". E questa soluzione non contempla la permanenza di Sarraj alla guida di un governo che la comunità internazionale riconosce a parole ma che nei fatti viene da più parti messo alle corde, a favore dell'uomo forte della Cirenaica, il maresciallo Khalifa Haftar. A sostenere l'ex ufficiale di Gheddafi, e questo la nostra diplomazia lo sa bene, vi sono potenze globali e regionali che vedono in Haftar il "Gendarme" più affidabile, perché più forte sul campo, a cui affidare il controllo delle frontiere esterne a Sud e con il quale rinegoziare lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi. Dietro ad Haftar c'è l'Egitto di al-Sisi, ci sono le petromonarchie del Golfo (Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti), ed ora c'è anche la Casa Bianca. Il sostegno di Trump a Haftar è avvenuto dopo che il presidente-generale egiziano aveva incontrato il presidente americano il 9 aprile scorso alla Casa Bianca, sollecitandolo a sostenere il generale libico.

The Donald ha avuto anche un colloquio con il principe di Abu Dhabi Mohammed bin Zayed, un altro sostenitore di Haftar, proprio il giorno prima che la Casa Bianca diffondesse il comunicato sulla telefonata con Haftar. Ma la luce verde più importante è venuta da "zar Vladimir". Altro che chiedere il permesso alla Francia per il via libera all'"Offensiva per Tripoli) scatenata venti giorni fa dal Generale di Bengasi. La luce verde che davvero conta, Haftar l'ha ricevuta da Mosca e dai suoi alleati arabi. Lavorare per una soluzione alla seconda guerra libica per Mosca significa trovare un esilio dorato per Sarraj e dar vita ad un processo di transizione guidato da personalità condivise dai due fronti, facendo di Haftar il comandante delle Forze armate dello Stato di Libia. E in questa veste, Haftar dovrebbe farsi garante del contrasto ai trafficanti di esseri umani e a contenere l'esodo, ipotizzato, di migranti. Ad al-Sisi guarda anche l'Italia. Con un interessato imbarazzo. Imbarazzo, per usare un eufemismo, per l'irrisolta vicenda legata all'assassinio di Giulio Regeni. Nel frattempo, in Libia, continua a crescere il numero delle vittime. Sono ormai "290 i morti e più di 1.650 feriti". Il bilancio, aggiornato a questa mattina alle 10, è di Foad Aodi, fondatore dell'Amsi (Associazione medici di origine straniera in Italia) e consigliere dell'Ordine dei Medici di Roma, in contatto quotidiano con i medici libici. Tra le vittime ci sono "85 bambini e 92 sono donne", dice il medico all'Adnkronos parlando di "oltre 1.650 feriti" . "Gli sfollati sono più di 40mila - dice ancora Aodi - il 50 per cento sono donne e il 25 minorenni". "Per oggi è stata organizzata una campagna di raccolta sangue", aggiunge ricordando che "nei centri di detenzione del Paese ci sono più di 6.000 migranti".

L'Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), lancia l'allarme: sono oltre 3.000 i migranti intrappolati in centri di detenzione situati in aree colpite dai combattimenti o a rischio di conflitto armato. Tra questi ci sarebbero circa 1.000 bambini. Con il deteriorarsi delle condizioni di sicurezza diventa imperativo fornire ai rifugiati una via d'uscita sicura. Martedì un gruppo armato ha sparato nel centro di detenzione per migranti di Qasr bin Ghashir vicino a Tripoli. L'Unhcr ha detto di aver evacuato 325 persone c che si trovavano nel centro di detenzione con la collaborazione dell'Iom, l'agenzia Onu che si occupa di immigrazione, delle autorità libiche, della missione dell'Onu in Libia e dell'Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari. Al momento i profughi che sono stati salvati dal centro di detenzione di Qasr bin Ghashir, sono stati spostati nel centro di Zawiya, in una zona più distante da quella dei combattimenti e quindi più sicura. Le persone più deboli, tra cui donne e bambini, sono invece state trasferite al Centro di raccolta e partenza dell'Unhcr a Tripoli, che dall'inizio dei combattimenti ha organizzato quattro trasferimenti di gruppi di migranti. La situazione rimane critica, soprattutto visto che nei centri di detenzione della Libia le violazioni dei diritti umani sono all'ordine del giorno. "Al numero dei profughi nei centri di detenzione libici di cui abbiamo notizia, si aggiungono quelli di cui non siamo a conoscenza che si trovano nei centri non ufficiali". Così a Radio Vaticana Italia, padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli: È auspicabile – prosegue Ripamonti – che si trovi una via d'uscita sicura attraverso le associazioni internazionali per i migranti, come l'Oim o l'Alto Commissariato per le Nazioni Unite. Bisognerebbe creare corridoi umanitari che permettano loro di arrivare in Europa in sicurezza". "La linea utilizzata dall'Europa finora – insiste Ripamonti – cioè quella di lasciare alla guardia costiera i migranti che si affidavano agli scafisti in Libia, non è più percorribile. Speriamo - conclude- che l'Europa non si volti dall'altra parte di fronte a questa emergenza umanitaria".

Secondo le informazioni raccolte da Human Rights Watch, inoltre, gruppi armati starebbero costringendo i profughi a lavorare per riparare veicoli militari e per trasportare o pulire le armi. Un migrante ha raccontato all'organizzazione non governativa che i miliziani hanno immagazzinato armi e munizioni in prossimità del centro di Tariq al Sikka dove si trovano detenuti i profughi. "Tutte le parti coinvolte nel conflitto libico devono proteggere i migranti e i rifugiati da ulteriori attacchi e assicurare che i feriti ricevano urgentemente cure mediche adeguate. Le autorità responsabili della loro detenzione devono consentire alle organizzazioni umanitarie l'accesso a questi centri, rilasciare i detenuti e trasferirli in luoghi sicuri", ribadisce Amnesty International. Dello stesso avviso anche Medici senza Frontiere che è tornata a chiedere l'immediata evacuazione dalla Libia dei profughi. "La comunità internazionale non può che essere incolpata per la sua totale inazione verso le persone bloccate nei centri. Oggi Msf sta di nuovo implorando che queste persone vengano immediatamente evacuate dal Paese. Fino a quel momento – avverte Karline Kleijer, responsabile di Msf per le emergenze – saranno in serio pericolo di subire un altro attacco o di finire nel fuoco incrociato".

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