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Esteri

Dottrina Bolton-Pompeo sull'Iran: dopo le sanzioni, le manovre militari

Dottrina Bolton-Pompeo sull'Iran: dopo le sanzioni, le manovre militari

Dalle sanzioni alle pressioni militari. I Patriot di Trump contro l’Iran degli ayatollah. Una prova di forza destinata a non rimanere isolata, perché a prevalere alla Casa Bianca, quanto alla linea dura da praticare verso il regime militare-teocratico iraniano, sono i falchi che hanno nel segretario di Stato Mike Pompeo e nel consigliere del presidente per la Sicurezza nazionale, John Bolton gli esponenti di punta.

Sono loro ad aver spinto per una dimostrazione muscolare che ha come obiettivo finale la caduta del regime. “Data la lunga esperienza di Bolton nell’esagerare e manipolare le informazioni per giustificare l’uso della forza – scrive Foreign Policy - si potrebbe essere tentati di liquidare il tutto come fake news. Ma la prospettiva che l’Iran possa dar vita a una provocazione che vada a scatenare un confronto militare più ampio è molto reale, anche se va detto che è proprio la politica dell’amministrazione Trump volta a mettere sotto pressione Teheran che ha enormemente amplificato il pericolo“. 

Lo scorso febbraio lo stesso Bolton ha chiesto al Pentagono opzioni militari contro l’Iran. Non è affatto un caso se, dall’inizio dell’anno, l’ex ambasciatore Usa all’Onu, abbia rafforzato il suo staff con due falchi anti-Iran come Charles Kupperman e Richard Goldberg. Quest’ultimo, come riporta The National Interest,considera il regime di Teheran simile all’Unione Sovietica, un centro di una controcultura globale anti-americana” che occorre far cadere attraverso un cambio di regime. Un obiettivo pienamente condiviso dal segretario di Stato Usa, Mike Pompeo. 

In questa ottica, l’annuncio da parte del Pentagono che gli Stati Uniti stanno schierando una batteria anti-missile Patriot in Medio Oriente non ha nulla di difensivo, nonostante nella nota del Pentagono si motivi questa decisione per “scoraggiare” ulteriormente le minacce dall’Iran. “Il segretario alla Difesa Patrick Shanahan ha approvato lo spostamento dell’USS Arlington (LPD-24) e di una batteria patriot al Comando centrale degli Stati Uniti (Centcom)”, ha detto un portavoce in un comunicato stampa. La decisione arriva dopo l’annuncio della Casa Bianca di inviare in zona il gruppo della portaerei Abraham Lincoln e i bombardieri nella regione, “in risposta alle indicazioni che mostrano una maggiore disponibilità iraniana a condurre operazioni offensive contro le forze statunitensi e i nostri interessi”.

Accuse respinte dal ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif. “Se gli Usa e i clienti non si sentono al sicuro, è perché sono disprezzati dai popoli della regione - accusare l’Iran non cambierà le cose”, ha twittato. Anche i bombardieri statunitensi del B-52 sono arrivati in una base in Qatar, ha detto il Pentagono. Queste mosse, è la spiegazione ufficiosa, sono una risposta alle minacce di possibili operazioni contro le forze statunitensi nella regione da parte dell’Iran.

Gli Stati Uniti hanno fornito poche informazioni sull’esatta natura della minaccia segnalata, che l’Iran ha liquidato come un’assurdità. Teheran ha descritto le spiegazioni come “guerra psicologica” per intimidire il Paese. Una fonte della Difesa Usa ha riferito che la decisione è stata presa sulla base di un rapporto dell’intelligence secondo il quale l’Iran avrebbe caricato missili ed altro equipaggiamento militare su delle piccole barche. Intanto l’agenzia semi-ufficiale iraniana Isna ha citato un religioso di alto rango, Yousef Tabatabai-Nejad, che ha affermato che la flotta militare Usa può essere “distrutta con un solo missile”.

Ieri il Pentagono ha detto di non volere la guerra con l’Iran, ma Washington è “pronta a difendere le forze e gli interessi Usa nella regione”. Interessi che coincidono totalmente con quelli del più stretto alleato di The Donald nella regione: il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. “La pressione sale sull’Iran, ma i tamburi di guerra non sono ancora suonati”, annota su Haaretz Amos Harel, tra i più autorevoli analisti militari israeliani. Di certo, i falchi di Gerusalemme hanno sposato in pieno pratiche e obiettivi dei loro omologhi a Washington. Il contenimento delle mire espansionistiche di Teheran in Medio Oriente non è più l’obiettivo prioritario. Occorre mirare più in alto: abbattere il regime degli ayatollah.

Da tempo e in ogni consesso internazionale abbiamo denunciato la pericolosità del regime iraniano e la sua determinazione ad assumere una posizione di comando in Medio Oriente. Non si tratta solo del dossier nucleare. Non c’è Paese del Medio Oriente in cui Teheran non ha allungato i suoi tentacoli, direttamente, come in Siria, Iraq e Yemen, o indirettamente, come in Libano attraverso Hezbollah o a Gaza con la Jihad islamica”, ha dichiarato nei giorni scorsi ad HuffPost Yuval Steinitz, uno dei ministri israeliani più vicini a Netanyahu. “La minaccia iraniana non è solo una minaccia per lo Stato di Israele, ma per molti degli attori della regione – gli fa eco Oliver Sachs, l’Ambasciatore d’Israele in Italia-  È una minaccia per i russi nella questione Siria, perché non consente la possibilità di riportare la stabilità nel paese. È una minaccia per l’Egitto, perché il sostegno al terrorismo a Gaza crea instabilità nella Penisola del Sinai. È una minaccia per la Turchia a causa del cambiamento dell’equilibrio demografico in Siria tra sciiti e sunniti e soprattutto ciò rappresenta una minaccia per gli Stati sunniti del Golfo”.

La convinzione che domina a Gerusalemme come a Washington, e a Riyadh, è che nello scontro in atto a Teheran tra le due “anime” del regime a prevalere è quella più conservatrice e aggressiva: quella dei Pasdaran. Secondo uno studio recente, i Pasdaran controllerebbero addirittura il 40% dell’economia iraniana: dal petrolio al gas e alle costruzioni, dalle banche alle telecomunicazioni. Un’ascesa che si è verificata soprattutto sotto la presidenza di Ahmadinejad, ma che è proseguita sotto quella di Rohani. I Pasdaran fanno direttamente capo alla Guida Suprema della Repubblica islamica dell’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei. E sempre la Guida Suprema controlla direttamente la Setad, una fondazione con 95 miliardi di dollari di asset presente in tutti i comparti dell’economia. 

Per sostenere direttamente il regime di Assad in Siria, l’Iran, come Stato, attraverso le proprie banche, ha investito oltre 4,6 miliardi di dollari, che non includono gli armamenti scaricati quotidianamente da aerei cargo iraniani all’aeroporto di Damasco, destinanti principalmente ai Guardiani della Rivoluzione impegnati, assieme agli hezbollah, a fianco dell’esercito lealista. Non basta. Almeno 50mila pasdaran hanno combattuto in questi anni in Siria, ricevendo un salario mensile di 300 dollari. Lo Stato iraniano ha pagato loro anche armi, viaggi e sussistenza. E così è avvenuto anche per i miliziani del Partito di Dio. I Patriot americani sono solo l’avvisaglia di una resa dei conti finale.

 

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