Le testimonianze

Com’era la mia città… L’Aquila

Il racconto del terremoto del 2009 nelle parole di Fulgo Graziosi. Il resoconto puntuale, la rievocazione storia e l'auspicio per le generazioni future.

Una mattina di primavera, alle ore 3.32 era ancora buio, la terra ha tremato agitandosi tutta.

La mia casa ha sussultato come se il calore sottostante provocasse bruciori alle fondazioni.

Poi, è stata sballottata da est ad ovest come una piuma al vento e, infine, un ritmo avvolgente l’ha totalmente avvolta in una danza frenetica. Questo fenomeno è durato più di ventuno secondi.

Un lasso di tempo lunghissimo. Non finiva mai.

Mi consentiva solamente di guardare le pareti ed il solaio che si muovevano in solido con il letto e gli altri mobili.

Sono restato quasi sbalordito quando la terra ha messo da parte la sua furia ed ha deciso di prendersi una pausa. L’energia elettrica si è interrotta. La casa è rimasta al buio.

Non potevo muovermi per nessun motivo, anche perché non sapevo con certezza che cosa realmente fosse accaduto oltre la porta della camera da letto.

Ho acceso una lampada portatile che tenevo nel cassetto del comodino a portata di mano. Non ho notato nulla di diverso rispetto alle altre volte, ma si respirava un’aria pesante, piena di mistero, tetra, fredda e paurosa. Finalmente, torna la luce elettrica e, solo allora, decido con mia moglie di alzarci e vestirci in tutta fretta con la speranza di conquistare la salvezza e l’incolumità. La casa, fortunatamente era intatta. Non presentava lesioni di alcun genere e non era caduta neppure una tegola.

Da casa mia, ubicata nella zona alta di Preturo, la notte ho sempre ammirato il profilo dei palazzi, delle torri, dei campanili, delle cupole, disegnato dalle luci sottostanti che illuminavano la città.

Con lo sguardo la percorrevo tutta, ogni volta che mi soffermavo a guardarla, da nord a sud e, quasi inconsciamente, verificavo se qualcosa avesse fantasiosamente cambiato posizione. Iniziavo sempre dal campanile di San Silvestro, posto alla sinistra dell’osservatore.

Lambivo i tetti di palazzo Branconio e, saltellando su quelli di Via Garibaldi, arrivavo fino al campanile ed alla cupola di San Bernardino.

La parte centrale di questo meraviglioso quadro era dominata dalle due cupolette e dalla possente sagoma della cattedrale di San Massimo.

Sulla destra si intravedevano, molto ravvicinate, la cupola della Chiesa delle Anime Sante, le due torrette di San Marco, la cupola di Sant’Agostino. La scena si chiudeva con il profilo più basso della Chiesa di Cristo Re, collocata ai margini della virtuale cornice. La notte del 6 aprile, questo spettacolo non fu possibile ammirarlo, neppure di sfuggita. La città era precipitata nel buio più profondo. La mente e, soprattutto, il cuore subirono una stretta  mortale. Per un attimo pensai che tutto fosse stato distrutto, la nostra storia, le nostre meravigliose emergenze artistiche, la nostra cultura. Fino alle prime luci dell’alba ho vissuto con questa angoscia nella mente. Le prime luci dell’aurora hanno colorato la città in maniera irreale. Dal mio punto di osservazione vedevo la stessa cornice, lo stesso paesaggio, ma i profili dei fabbricati, delle torri e delle cupole, avevano subito una traumatica decapitazione, come se qualche dissennato, avesse voluto, di proposito, imbrattare o strappare quella meravigliosa tela. La luce del giorno, ad un certo punto, si è fatta più intensa e lo scenario della disfatta è apparso in tutta la sua interezza.

Sono rimasto paralizzato, non riuscivo neppure a balbettare la pur minima considerazione. Man mano che i miei occhi guardavano, scrutavano alla ricerca di qualche elemento rimasto intatto, la mia mente, con assurda pacatezza, ha cominciato a viaggiare a ritroso fino all’idea determinante che mise in moto il progetto della realizzazione di questa meravigliosa città che, per secoli, è stata depositaria della cultura, della storia, dei commerci della lana e derivati, di dominio egemonico su tutto il territorio della Conca Aquilana.

Simbolo di fierezza, di valori sociali, di tesori letterari, di un patrimonio archeologico di tutto rilievo.

È vero! Dobbiamo, purtroppo prendere atto, che la terra, questa grande donna, la nostra madre, ha voluto punirci, lacerare le nostre membra, ferirci fisicamente e moralmente. In un attimo di rabbia, in una reazione incontrollata e incontrollabile, ha voluto colpire quanto di più sacro abbiamo gelosamente custodito nei secoli passati: la nostra cultura. Malgrado tutto, però, non è riuscita a piegarci, a sopraffare il nostro orgoglio, la nostra dignità di aquilani, di abruzzesi, di italiani.

Un gruppo di giovani, dopo aver curato le mortali ferite, dopo aver rimesso in sesto il piumaggio delle ali, ha voluto dare un segno di rinascita, di ripresa ed ha fatto spiccare il volo alla regina dei cieli, affinché, con calma e razionalità, potesse riprendere possesso degli spazi, dei territori e della cultura, perché una città come la nostra, senza cultura, è una città morta. Ed allora, appare quanto mai opportuno e necessario che gli uomini, in particolare i giovani, sappiano dove affondano le radici della nostra civiltà, se vogliono costruire un futuro migliore. Non vi è futuro se esso non viene fondato sulla perfetta conoscenza del passato. Perciò, vorrei far conoscere, con molta umiltà, chi siamo, da dove veniamo, cosa abbiamo fatto negli anni e perché è stata fondata questa meravigliosa città, incastonata al centro di una amena conca ed alle falde del massiccio del Gran Sasso d’Italia, anziché mostrare in parallelo i monumenti distrutti dal sisma che, ormai, hanno già fatto il giro del mondo.

Il Vaticano aveva inflitto, per ben due volte, delle solenni scomuniche al Re Federico II, quando questi aveva fatto rinascere la civiltà italiana.

Decisamente contrario alle politiche Vaticane, occupò diversi domini della Chiesa ed istigò i Frangipane a mettere a sacco la città di Roma.

Non contento di tutto ciò, volle che una nuova e potente città sorgesse ai confini con gli Abruzzi, tra i resti di Amiterno e Forcona che, a loro volta erano state la gloria della nostra terra. Lo Svevo sapeva benissimo che razza di gente fosse questa, ritenuta già dai romani fortissima e bellicosa. Venuto meno il potere esercitato da queste due antiche città, erano sorti nel territorio centinaia di castelli, una vera disavventura, in quanto si erano impadroniti di questi insediamenti dei piccoli ma veri tiranni. Ci fu una vera e propria rivoluzione nel corso della quale i despoti ed i vigliacchi che governavano i vari castelli furono severamente puniti o allontanati dal circondario.

Si viveva un periodo in cui gli  animi degli italiani, sempre attenti tra tutti, scuotendosi dalla lunga ignoranza che aveva invaso tutta l’Europa, avevano riposto nell’antico splendore le lettere e le scienze e, non dimentichi delle glorie trascorse, aspiravano ad una nuova e insperata rigenerazione. La vita era tutto fermento, movimento, aspirazione alla realizzazione di belle opere. Non c’è da meravigliarsi se, sotto la guida di Federico II, questi popoli si dedicassero alla fondazione di una città, che li preservasse dalla rinascente ira feudale e che secondo il Privilegium constructionis Aquile tempore Federici Imperatoris 1250 – ipsius loci vocabulo, et a victricium signorum nostrorum ausoiciis Aquile nomine decrevimus titulandam -“ Non appena gli aquilani dettero inizio alle opere di costruzione della città, Federico morì.

Corrado che gli successe volle confermare il privilegio di suo padre ed i lavori ripresero a pieno ritmo, tanto che intorno al 1254, sul finire del pontificato di Innocenzo IV, la nostra città fu grandiosamente realizzata seguendo un progetto che la rendeva una delle più belle città del Regno.

Manfredi, poi, influenzato dai baroni scampati alla decimazione, o convinto che la nuova città potesse parteggiare per il Papa, mise a ferro e a fuoco tutto ciò che era stato edificato cinque anni prima. Manfredi fu poi eliminato da Carlo I d’Angiò, al quale gli aquilani si sottomisero, ottenendo, però, l’autorizzazione a riedificare la città, mediante il coordinamento di Giacomo Sinizzo, segretario del Papa e, successivamente, Vescovo aquilano. I lavori vennero portati a termine nel 1265, dopo che la città era stata per sei anni deserta e oppressa dalle rovine.

Da autorevoli fonti e dalla lettura di vari documenti sembra che l’Aquila avesse questa denominazione ancor prima di questa data. Infatti Gio. Battista Carafa afferma che nel 1008, al tempo del pontificato di Sergio IV e dell’impero germanico di Federico II l’Abruzzo aveva il Conte di Alba, il Conte di Celano, il Conte di Manoppello, il Conte di Loreto, del Sanguine e il Conte dell’Aquila. Biondo da Forlì, nei suoi scritti, asserisce che non si conosce la data esatta della fondazione dell’Aquila e, parlando di Niccolò II afferma che egli si incontrò nel 1060 a L’Aquila con Roberto Guiscardo di Normandia.

Il Sigonio, inoltre, narrando alcuni fatti avvenuti nel nostro Regno nell’anno 1137, dice che gli aquilani avevano promesso al Pontefice Innocenzo II e all’Imperatore Lotario, “allorché inviaronsi verso Capua … imperata facturos”.

Un Ansaldo dell’Aquila, capitano di Re Guglielmo, viene citato dal Mazzella ed il Platina nella vita di Pasquale II intorno al 1099.

Non possiamo e non dobbiamo dimenticare, ancora, che l’edificazione della città avvenne nel tempo in cui l’Oriente, già culla di ogni sapere, era stato percorso e conosciuto dai crociati europei che avevamo riportato in patria gli esempi delle bellezze delle città della Palestina, dell’Egitto e della Grecia.

I nostri avi, infatti, vollero dare alla edificanda città quella forma che avevano osservato a Gerusalemme al tempo delle crociate.

Per questo motivo scelsero un piccolo monte, lambito alla base da un fiume, dotandola di dodici porte e qualche altra rassomiglianza con quella Metropoli orientale che conserva il sepolcro di Cristo. Poiché concorsero all’edificazione della città novantanove castelli, ad ognuno di essi venne assegnato un sito per la realizzazione della propria chiesa, delle case, della piazza e della fontana.

La Regina Giovanna, dopo che gli aquilani sconfissero il tremendo Braccio da Montone, concesse ai medesimi  la facoltà di battere moneta d’argento per cinque anni, esentandoli dal pagamento dei regii tributi per quattro anni. Ferdinando I d’Aragona confermò pienamente i priuvilegi di cui godeva la città e, oltre ad innumerevoli altre concessioni, autorizzò gli aquilani ad “erigere lo studio in cui pubblicamente si fosse letta ogni scienza con quelle immunità, onori, privilegi e prerogative” di cui godevano le Università di Siena. Bologna e Perugia.

Il Segretario Fiorentino cita la città dell’Aquila tra le più illustri città d’Italia sorte dopo la decadenza dell’impero romano, cioè Venezia, Ferrara e Siena, affermando: “era la città dell’Aquila in modo sottoposta al Regno di Napoli, che quasi libera viveva. Aveva in essa assai reputazione il Conte di Montorio (ossia Pietro Lalle Camponeschi)”.

Angelo di Costanzo, nel X libro afferma: “Sola L’Aquila tra le terre d’Abruzzo manteneva pertinacemente la bandiera Angioina, perché da quella città che stava assai ricca si avrebbe potuto cavar tanto, che, etc.”. Gio. Battista Carafa, nelle Storie di Napoli, dice che le ricchezze, le forze e le facoltà di Aquila erano tante che “dove inchinava ella”, inchinavano tutti i popoli d’Abruzzo. Ancora oltre, narra che fu molto bellicosa e di grande terrore per i luoghi vicini, non meno per gli stessi Re di Napoli.

Dalle storie del Villani e del Malaspina si è appreso che l’Aquila, in base al commercio che ebbe con i fiorentini acquistò gli stessi costumi, seguì le stesse inimicizie guelfe e ghibelline esercitate qui dai  Bonagiunta, dai Todini, dai Pretatti, dai Rojani, dai Camponeschi e da altri ancora.

Era una città che intratteneva rapporti commerciali con gli stranieri, in particolare tedeschi. Per la sua opulenza e cultura gareggiava con le prime città italiane. Prova ne sia la stamperia aperta nel 1478 da Adamo di Rottweil, scolaro di Gutemberg che ne fu l’inventore.

Questa era la mia città e così vorrei che tornasse nell’immediato futuro per restituire ai nostri giovani e ai posteri stima, rispetto, ammirazione, privilegio culturale, sociale, politico e amministrativo.

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