La crisi in Venezuela e il suo significato strategico

L’economia venezuelana, in un Paese che ha migliori riserve di petrolio di quelle saudite e iraniane, oggi, inizia con la crisi dei prezzi OPEC, quando era ancora in vita Chavez, fino alla caduta pesante del prezzo del petrolio del 2013.
La spesa sociale del “bolivarismo” venezuelano era alta, altissima, e un paese che vive di petrolio ha bisogno di mercati stabilmente alti e in crescita, cosa che, con l’attuale dislocazione dei ruoli strategici nell’OPEC, e nel contesto della lotta tra sunniti e sciiti iraniani, non è pensabile.
I sauditi diminuiranno la produzione appena si abbasseranno i prezzi, e questa sarà la regola per tutti.
Con Maduro, la scelta primaria per il petrolio, ovvero la vera politica economica di Caracas, rimane nel solco del bolivarismo; ma le risorse petrolifere sono cadute a meno della metà di quelle del boom chavista e l’inflazione è subito cresciuta, tanto da essere, presto, la più grande al mondo. Roba da Repubblica di Weimar. E per gli stessi motivi. Lo Stato di Caracas stampa moneta con lo stesso criterio con cui i quotidiani in crisi stampano più copie.
All’inizio dell’era chavista, l’inflazione era già al 29,5%. Nel 2005 quando il mercato del petrolio era ancora bullish, il tasso di inflazione si abbassò, invece, fino al 14,4%.
Otto anni dopo che l’ex-autista di autobus urbani a Caracas, ovvero Chavez, è stato assunto al potere, i prezzi del cibo erano, nella capitale, nove volte più alti che all’inizio del nuovo regime bolivarista di Chavez, mentre gli stipendi erano, però, diminuiti del 40%.
La completa nazionalizzazione dell’azienda del petrolio, la PVDSA, è stato il primo scalino che Chavez ha sceso per arrivare verso il totale disastro economico.
Oggi, le imprese del petrolio che lavorano nel bacino dell’Orinoco, tra i più vasti al mondo, non hanno più fatto gli investimenti necessari per rendere possibile l’estrazione, e oggi, ancora, l’estrazione giornaliera si è stabilizzata sul dato, minimo per Caracas, di solamente un milione di barili/giorno.
Certo, ci sono le sanzioni di Washington sull’esportazione, ma l’estrazione potrebbe lo stesso dimezzarsi, fino al mezzo milione, entro la fine del 2019.
Hanno già abbandonato il Venezuela compagnie come la Petronas malaysiana, nel 2014, perfino la russa Lukoil sempre nel 2014, poi PetroVietnam alla fine del 2015, anche Petropars, azienda iraniana, ma all’inizio del 2015, infine Exxon e Conoco sono dovute andar via rapidamente sotto la minaccia, da parte di Caracas, di procedere ad una nazionalizzazione punitiva, con il successivo e immediato avvio, da parte delle due società, degli atti formali presso le corti internazionali.
Non c’è un quadro giuridico, nemmeno venezuelano, che delimiti poi le operazioni possibili, nel caso delle continue confische dei beni dei “capitalisti” stranieri, né delle nazionalizzazioni, quindi chi rimane, pagando mazzette a destra e a manca, non estrae, ovviamente, quanto potrebbe. E questo vale anche per il settore venezuelano dell’economia non-oil.
Anche la PDVSA, la cassa sempre aperta del bolivarismo, ha ridotto la sua produzione dai 5 milioni di barili/giorno all’attuale, come dicevamo, milione di bpd. E, in seguito, con l’embargo predisposto dagli Usa, ancora e molto di meno.
La compagnia petrolifera nazionale è poi, da tempo, fortemente indebitata con Cina e Russia, oltre ad altri Paesi, come l’Iran.
Pechino ha già richiesto il pagamento rapido e integrale dei suoi crediti. Non è abituata, la Cina, alla inefficienza strutturale dei Paesi latino-americani.
E’ un processo che è iniziato, dalla Cina, anche verso il Brasile.
Mosca ha, peraltro, già concesso una ristrutturazione del debito venezuelano nei suoi confronti, che è già di tre miliardi e settecento milioni di usd.
E’ ovvio che, sul piano strategico, Mosca è interessata a mantenere una sua area di influenza in un continente latino-americano che è ormai, dopo la vittoria di Bolsonaro in Brasile, in piena svolta trumpiana.
E quindi oggetto di pressioni specifiche, laddove è possibile, da parte di Mosca.
In area OPEC, come è facile immaginare, il peso del Venezuela è ormai men che minimo. Il che crea ulteriori difficoltà.
Ma tutta l’organizzazione dei produttori, i cui rapporti con l’America trumpiana della sua area sunnita sono oggi fortissimi, ha ormai una regola fissa, che abbiamo già chiarito: tagliare la produzione quando i prezzi del barile si abbassano, esattamente il contrario di quel che vorrebbe il Venezuela attuale.
Caracas, peraltro, continua a esportare ben poco, 800.000 barili di petrolio/giorno, negli Usa.
E qui c’entra anche la geopolitica, oltre che la prima commodity globale, il petrolio.
Comprare petrolio dal Venezuela, per Washington, è cercare di contrastare il peso di Mosca. Ma con sempre maggiori difficoltà.
Gli Usa vedono benissimo come Russia e Cina sostengano ancora, anche per riprendere i loro colossali crediti, lo chavismo venezuelano; e quindi si innesta, nella maggiore riserva mondiale di idrocarburi, uno scontro geopolitico, più che economico, tra blocchi contrapposti.
Fra l’altro, con lo shale oil and gas gli Stati Uniti stanno divenendo esportatori netti di petroli, e quindi sempre meno interessati alle sorti di quei Paesi che prima erano potenti fornitori, ma oggi sono solo stanchi concorrenti.
E perfino la crisi verticale del madurismo potrebbe favorire il mercato export degli Usa nel mercato dei petroli e del gas naturale, quindi non c’è molta voglia, a Washington, di risolvere la crisi venezuelana, ma solo di evitare che Caracas scelga Mosca, o Teheran, o Pechino. O perfino la folle e stupida Unione Europea.
E gli Usa, peraltro, hanno estrema necessità di prezzi alti del barile, per rientrare nelle spese di estrazione, ancora maggiori di quelle “classiche”.
Quindi, paradossalmente, una crisi produttiva regionale, e vicina al territorio statunitense, potrebbe perfino andar bene, nel medio periodo, agli Usa.
E quindi, a parte la consueta creazione di petrodollari, gli Stati Uniti sono del tutto favorevoli ad un aumento del prezzo del barile. E quindi, indirettamente, alla tensione a Caracas.
E non hanno più nemmeno bisogno, a Washington, come prima accadeva, del petrolio venezuelano.
Non c’è più spazio, per Caracas, nemmeno per esportare verso i Caraibi il suo petrolio ai consueti prezzi ribassati, segno evidente di antica e ormai impossibile egemonia locale.
E allora arrivano, come di questi tempi, gli Hezb’ollah, oggi a guardia anche della persona di Maduro, mentre i servizi segreti cubani hanno definito un programma preciso di contrasto alla possibile “controrivoluzione” di Guaido, e anche i contractor russi della Wagner sono presenti, in forze, sul territorio venezuelano, a difesa dei pozzi e delle altre aree nevralgiche del regime chavista e, oggi, di Maduro, di cui, a Mosca, non hanno alcuna stima.
Il rapporto tra Hezb’ollah e Chavez e ancora Maduro, oggi, è molto complesso.
All’inizio della campagna di Guaidò contro Maduro, sono proprio i membri della milizia libanese, che era “l’occhio” dell’Imam Qomeini, ad issare un cartello con i volti di Chavez e di Maduro accanto a quello di Hassan Nasrallah, il capo della milizia sciita libanese.
Inoltre, sono proprio gli Hezb’ollah a propagandare e rendere nota, per primi, la presenza occulta degli Usa in Venezuela, a favore di Guaidò.
La ragione di questo particolare rapporto tra gli sciiti libanesi pro-Iran e il regime “bolivaristi” è semplice e concreta: sono proprio Chavez e Maduro a dare, fin dall’inizio, carta bianca al riciclaggio in Venezuela dei fondi segreti di Hezb’ollah, soprattutto tramite le attività di spaccio di droga.
Oltre alla raccolta, da parte del gruppo libanese operante in Venezuela, di dati essenziali sulla criminalità internazionale, utili proprio a Hezb’ollah per inserirsi nei cicli globali di riciclaggio di denaro sporco e di acquisizione di fondi illegali.
Anche Cuba, che non ha mai smesso, malgrado la fin troppo propagandata “liberalizzazione” del regime post-castrista, di fare da passaggio aereo della droga verso gli Usa, utilizza i “bolivariani” venezuelani per il riciclaggio dei proventi. E come basi di passaggio operativo delle droghe sudamericane verso i sempre più drogati Stati Uniti.
Alcuni elementi di Hezb’ollah hanno anche incarichi importanti, nel governo di Maduro.
Si pensi a Tarek el Assaimi, 28° vice presidente del Venezuela e poi ministro della produzione petrolifera, che “copre” oggi molti dei libanesi di Hezb’ollah che acquisiscono con molta facilità un passaporto venezuelano.
El Assaimi è stato anche segnalato al Servizio antidroga USA fin dal 2017.
A che cosa serve il Venezuela per l’Iran, poi?
Serve, in primo luogo, a evitare le restrizioni ai loro commerci da parte degli Usa, e Teheran vede il sostegno Usa a Guaidò come una minaccia diretta ai suoi interessi in America Latina. Che sono molti, e molto diffusi.
L’oro venezuelano, che si diceva finora esportato, per sicurezza, in Turchia, oggi si dirige, guarda caso, verso Teheran.
Il sistema della droga cubano, essenziale poi per il mantenimento del regime castrista, fin dai tempi di Ochoa, che aveva sostenuto il cartello di Medellìn nei trasbordi della cocaina verso gli Usa, ma all’epoca i proventi erano nelle banche di Noriega, il presidente di Panama, che passava e riciclava l’80% della liquidità illegale cubana.
Ora il sistema opera a favore di Caracas, che non ha più i controlli finanziari che prima erano inevitabili, in un Paese del tutto filoamericano come Panama.
Certo, per Cuba il passaggio di droga del cartello di Medellìn verso gli Usa era anche una operazione squisitamente politica: impestare la società americana e renderla impotente e improduttiva.
Il che, in buona parte, è già riuscito.
Questa è una rete che si è poi, in gran parte, trasferita in Venezuela, dopo la caduta di Noriega.
E che oggi lavora a pieno regime.
Intanto, i servizi segreti cubani si collegavano direttamente con le FARC colombiane e poi con le forze di sicurezza venezuelane, già leader regionali, allora, del traffico di droga.
Fin da questo momento i servizi cubani addestrano, come accade anche oggi, l’intelligence bolivariana, infatti sono stati proprio i servizi cubani ad eliminare, in quel momento, gran parte dell’opposizione venezuelana a Chavez.
Sono stati infatti i servizi di Chavez, dopo l’addestramento cubano, a formare il Cartel de los Soles, il “cartello dei Soli” e sono infatti i “Soli” a formare il simbolo delle stellette dei generali venezuelani.
Oggi, è proprio la curruzione e il traffico illegale di droghe condotto dai generali di Maduro a sostenere direttamente il regime; e a rafforzare e finanziare la lotta contro le forze di Guaidò.
Se perdono il potere, i narcomilitari venezuelani sono già, in un minuto, davanti, e lo sanno benissimo, a qualche tribunale Usa o internazionale.
L’asportazione dalle casse dello Stato venezuelano, da parte di questa cleptocrazia, raggiunge dei livelli, ufficialmente dichiarati, che valgono intorno ai 70 miliardi di usd, ma alcuni servizi di sicurezza latino-americani parlano di circa 300 miliardi di usd asportati per le mazzette interne al regime cleptocratico di Caracas.
Una inflazione innescata e mantenuta, quindi, dalla sola cleptocrazia criminale di coloro che, peraltro, organizzano un altamente lucrativo traffico di droga, anche interno al regime e a tutto il Paese.
Sono stati poi proprio i controlli sulla moneta e sui prezzi, introdotti da Chavez nel febbraio 2003, a trasformare rapidamente il Venezuela in un mafia-state.
E proprio ai tempi del fondatore del “bolivarismo” il sistema illegale, creato dagli stessi controlli sui prezzi, era ancora più vasto di quello che si verifica oggi.
Nel 2002, lo ricordiamo, è un golpe militare a mettere fuori gioco Chavez per sole 48 ore.
Per evitare di ritornare nelle mani dei militari, Chavez delega buona parte delle funzioni statali alle bande criminali. E alle Forze Armate. Peraltro inefficientissime.
Due soprattutto le bande illegali: i Colectivos e i Pranes.
I “colectivos” prendono il potere soprattutto nelle periferie di Caracas.
Attualmente, pur essendo stati sostenutie spesso creati dal governo, i colectivos non rispondono a nessuno. Men che meno, all’opposizione.
La democratizzazione della cleptocrazia.
Vivono soprattutto di estorsione e di spaccio di droga.
Sono stati comunque essenziali, oggi, per rompere la rivolta di Guaidò e riportare verso il sostegno a Maduro alcune aree di Caracas.
I Pranes sono, invece, delle bande criminali che operano nell’ambito del sistema carcerario venezuelano.
Si sono però espansi anche fuori dalle carceri, in collaborazione con le megabandas.
Le “zone di pace”, raggiunte dopo una lunga trattativa tra le bande criminali e ciò che rimane della polizia, sono, in tutto il Venezuela, appena otto.
Gli affari illegali più diffusi tra le bande criminali sono, oggi, quelli legati al contrabbando di carburante sussidiato, verso il Brasile e la Colombia.
Che ha sempre meno mercato nei paesi di arrivo e sempre più acquirenti nel Venezuela che sperimenta il paradosso di essere un colossale produttore di petrolio, ma con le pompe vuote per i suoi cittadini.
Altri settori chiave, lasciati nelle mani delle bandas, sono il contrabbando di cibo e di prodotti farmaceutici. Ecco il motivo per cui gli aiuti della Croce Rossa non potevano funzionare, all’inizio della crisi.
A Caracas si muore molto facilmente: 89 omicidi ogni 100.000 persone. Al giorno.
E, nel 2017, ci sono statiben 26.616 omicidi, oltre 5.535 dei quali compiuti dalle forze di sicurezza, mentre gli altri sono stati compiuti dalle bande degli Operativos para la Liberacion del Pueblo.
Una rete creata proprio da Maduro.
Oggi, poi, il Venezuela è la base preferita, lo abbiamo visto, per il narco-crimine colombiano, mentre la fame del proletariato venezuelano è spinta proprio fuori dalle città del bolivarismo verso la Colombia, dove i poveri venezuelani diventano o membri del “cartelli” o vittime, definitive, degli stessi.
In un solo anno, l’ultimo di cui abbiamo statistiche complete, il 2017-2018, sono scappati almeno un milione di venezuelani solo verso la Colombia, con un tasso di almeno 37.000 cittadini dello stato bolivariano che passano il confine con il territorio di Bogotà ogni giorno.
Panama, che ormai non ha alcun interesse nella sopravvivenza del regime “socialista” di Maduro, ha poi incluso 37 alti “papaveri” del regime attuale di Caracas in una “lista ad alto rischio” per il lavaggio di denaro sporco, tra i quali c’è, come si poteva ben immaginare, lo stesso Maduro.
Poi c’è anche Disdoro Cabello, il n.2 del regime e del partito di Caracas, e altri personaggi, ben noti al pubblico venezuelano, soprattutto come Gustavo Gonzales Peres, il capo dei Servizi interni.
Panama fa anche parte del “gruppo di Lima”, una organizzazione di Paesi latino-americani composta da 14 nazioni dell’area, che è soprattutto contro il mantenimento del sistema-Maduro in America Latina.
Anche l’Unione Europea, con la sua ben nota rapidità in politica estera, ha imposto delle sanzioni personali a figure come il ministro degli Interni Nestor Revarol, poi il presidente della Corte Suprema Maikel Moreno, e pure al capo dell’intelligence esterna Gustavo Gonzales Lopez e, infine, al già citato n.2 del Partito del regime, Diosdato Cabello.
Non possono più viggiare nei Paesi dell’Eu e avranno i fondi bancari colà depositati bloccati.
Per quel che riguarda l’appello ad una insurrezione generale, che presidente ad interim Juan Guaidò aveva annunciato la mattina del 30 aprile, insieme al recentemente liberato Leopoldo Lopez, militare, e a un gruppo di militari della base aerea di La Carlota, sembra essere fallito. Il modello stile “primavere arabe”, in un Paese come il Venezuela, non funziona affatto.
Occorrerebbe una maggiore fantasia intellettuale, da parte dei Servizi Usa.
Lopez, intanto, si è recentemente rifugiato nella sede dell’ambasciata spagnola a Caracas, mentre il governo di Madrid ha dichiarato che non rilascerà mai Lopez al governo di Maduro.
25 altri militari ribelli hanno poi chiesto asilo all’ambasciata del Brasile, ma è da notare che prima Lopez si era recato alla sede diplomatica del Cile, anche se ha dichiarato, dopo essere stato accettato dalla diplomazia spagnola a Caracas, di non aver mai chiesto asilo politico.
Ma molti venezuelani hanno, comunque, accettato di scendere in piazza, dove sono morti recentemente altri due giovani, il che va ad aumentare fino a 55 il numero delle vittime della repressione di Maduro dall’inizio di quest’anno.
L’opposizione, intanto, ha denunciato altri 74 feriti gravi, poi 168 arresti, tra i quali almeno una decina di giornalisti.
Intanto, Guaidò passa da un nascondiglio all’altro, facendosi però vedere dalla folla il 1° maggio, per dichiarare uno sciopero, a breve termine, di tutti i lavoratori venezuelani.
Maduro ha risposto solo il giorno dopo alla chiamata allo sciopero insurrezionale di Guaidò, ma era una trasmissione in TV mandata, evidentemente, in differita.
John Bolton, poco dopo, nel suo ruolo ufficiale di consigliere per la Sicurezza Nazionale di Trump, un vecchio erede della politica estera neocon, ha informato i media internazionali che il ministro della Difesa Valentin Padrino Lopez, il presidente del Tribunale Supremo Maikel Moreno e il direttore della Direcciòn General de la Contrainteligentia Militar, Ivan Hernandez Dala, avevano negoziato direttamente con gli Usa per rimuovere Maduro.
Instillazione di sospetti nella élite di Maduro, o anche verità? E quindi, guerra psicologica, piuttosto palese, o indecisione, da parte degli Usa, tra la scelta di operare un golpe interno al partito di Maduro, con elementi di qualche fiducia da parte degli Usa, o ancora la conferma della fiducia di Washington nei confronti di Juan Guaidò?
Mike Pompeo, Segretario di Stato di Trump ed ex-Direttore della CIA, ha poi affermato che Maduro era già su un aereo diretto a Cuba, immediatamente dopo le manifestazioni del 1° maggio, ma che i russi gli hanno, duramente, ordinato di rimanere in Venezuela.
E se il motivo del tentato golpe di Guaidò, che ormai non riscuote più molto del sostegno che si era guadagnato all’inizio della sua rivolta, fosse, per gli Usa che lo sostengono, il solito, banale, petrolio?
Con il prezzo del barile intorno ai 50-60 Usd al barile, il prezzo del petrolio venezualano è ancora accettabile, ma si tratta di idrocarburi pesanti, che hanno bisogno di successive e, ovviamente, costose raffinazioni ulteriori.
La Exxon-Mobil cerca ancora di acquisire la zona estrattiva di Essequibo, area la cui sovranità su di essa è ancora discussa tra Venezuela e Guyana.
Ci sono ancora 15 miliardi di barili/giorno di petrolio non ancora estratto, in Venezuela, oltre a ben 42 trilioni di piedi cubici di gas naturale.
Il Venezuela è ancora il secondo Paese, se non il primo, a seconda delle prospezioni, come riserve disponibili di petrolio e di gas. Un dato da non dimenticare mai.
Ma, se gli Usa stanno sfruttando soprattutto i loro bacini nazionali e stanno vendendo gas naturale e petrolio, via mare, anche ad alcuni Paesi europei.
Quindi, il problema degli idrocarburi venezuelani non è oggi, per Washington, quello di prenderli, malgrado il costo di produzione del barile sia ancora, nel Paese latino-americano, minore dello shale oil and gas del bacino Permiano statunitense, ma soprattutto di evitare che quel petrolio e gas lo utilizzino la Cina e la Federazione Russa.
Infatti, negli anni del forte ribasso del barile, fino al 2016, Maduro scelse di conferire ben il 49,9% di una consociata della PVDSA, la CITGO, alla Rosneft russa, in cambio di un prestito, a fronte del trasferimento delle azioni della società di 1,5 miliardi di dollari, direttamente allo stato venezuelano.
Ma la Russia è, anch’essa, un esportatore netto, e Dio solo sa quanto potente, di gas e petrolio, con una direzione primaria dei suoi mercati verso la UE.
Ma, in questo caso, il petrolio venezuelano poteva essere, per Mosca, un forte modo di far pressione, proprio per il prezzo più basso del greggio di Caracas, contro gli Usa, per diminuire i danni delle sanzioni Usa (e UE) alla Russia per la questione ucraina.
Quindi, spendendo relativamente poco, 1,5 miliardi di usd, la Russia diventava il vero arbitro del petrolio venezuelano, per usarlo come arma di ricatto contro gli Stati Uniti.
Non a caso, infatti, un gruppo, di composizione poco chiara, di investitori Usa ha, nel febbraio 2018, tentato di ricomprare la quota russa della CITGO, chiedendo al governo di Caracas di accettare il pagamento, a loro, del resto del prestito russo e chiedendo, inoltre, alla Rosneft di trasferire il totale rimanente del prestito già concesso a Caracas alla nuova CITGO.
Inutile aggiungere che l’offerta è stata declinata.
Gli USA stanno poi operando, come sempre accade in questi casi, con le pressioni economiche e gli embargo.
Washington sta creando un ulteriore embargo per la Petroleos de Venezuela SA, ovvero la PDVSA intera, iniziato giuridicamente ai primi del gennaio 2019.
Il che significa che i proventi dei petroli di Caracas saranno limitatissimi, come se fosse, il Venezuela, un ostaggio economico.
Per favorire, anche tra le élites del “sistema Maduro”, il passaggio nel campo di Washington, invece che rimanere nell’ambito del controllo economico russo (e iraniano, per l’economia criminale non-oil).
Il desiderio di Trump di invadere il Venezuela è ormai ben noto al pubblico internazionale, almeno dalle dichiarazioni presidenziali del giugno 2018, quando, in una riunione nell’Ufficio Ovale, Trump espresse questo chiaro desiderio all’allora segretario di Stato Rex Tillerson, già presidente della Exxon-Mobil, e anche all’allora consigliere per la sicurezza nazionale, gen. MacMaster.
Nessuno dei due advisor era, sia chiaro, favorevole all’operazione.
Maduro, sempre più pressato dalla crisi economica internazionale e da quella, colossale, interna, forte soprattutto per i Paesi oil dependant, ha conferito, sempre ai russi, e alla fine del 2018, l’accesso delle imprese del forte settore minerario russo alle miniere di oro venezuelane, quelle che crearono il mito dell’Eldorado nella Spagna del secolo XVII.
Ci sono anche disponibilità minerarie in Venezuela per il nickel, i diamanti, il ferro, la bauxite, l’alluminio.
Ma, naturalmente, la nuova collocazione strategica e politica dell’America Latina, soprattutto dopo l’elezione di Bolsonaro in Brasile, è tutta a favore degli Usa e, specificamente, di Trump, mentre gli asset a favore della Federazione Russa diminuiscono.
E questo significa che Mosca si terrà, insieme ai suoi alleati tradizionali, come la Cina, molto stretto il Venezuela, soprattutto per fini geopolitici, e sempre di meno per obiettivi strettamente economici.
Mentre la vera variabile strategica sarà, tra poco, la Cina: accetterà di partecipare al sostegno, molto interessato, dei russi per il regime di Maduro, prendendosi quel che rimane dell’economia venezuelana, oppure accetterà la sommessa proposta di Washington, ovvero quella di prendersi buona parte del Venezuela dopo aver rotto, almeno in America Latina, i legami di Pechino con Mosca?