Mostre, Giuseppe Leone e l’arte come visione profetica

220

di Azzurra Immediato

La mostra “Il Viaggio. Guardando ad Occidente”, a cura di Ferdinando Creta, Angela Cerritello ed Azzurra Immediato insieme con Lea Farina e Francesco Creta, la prima grande collettiva ospitata del Palazzetto delle Arti FortoreSannio di Buonalbergo (Bn) – che vedrà il prossimo autunno la sua apertura ufficiale in Palazzo Angelini, antico spazio cittadino recuperato – presenta, nel suo allestimento, il concetto di arte come visione profetica, ad opera del maestro Giuseppe Leone. Ciò avviene, in particolar modo, in una delle molte sale che i fruitori percorreranno, quella denominata Medio Oriente. Al suo interno, invero, quasi si trattasse di uno scrigno, diverse opere, in congiuntura plurima con altri artisti, designano una metaforica costruzione ontologica.
Nella poetica artistica di Giuseppe Leone, difatti, è possibile rintracciare alcune linee guida in grado di determinare, se non un profilo ben definito – il suo eclettismo non lo permetterebbe – quanto meno un modus operandi derivante da una eco di più ampia visione esistenziale capace, poi, di originare un discorso composito che si faccia tramite per l’instaurazione di un dialogo tra artista, opera ed osservante.
Se ciò appartiene all’intera carriera del maestro, esiste un fil rouge che lega, in maniera sottile ed inesorabile, la sua personale visione. Ben conosciamo il ruolo di un artista, in special modo da quando la sua attorialità sociale è mutata – nel Rinascimento – ed il suo sguardo s’è fatto visione privilegiata sul mondo e sull’altrove, tanto da esser, l’artista, il solo in grado di render tangibile la dimensione terrena con quella ultraterrena, quasi si trattasse di un potere di matrice alchemica, un rituale, una visione profetica.
“Io cerco di trasformare in materia l’insensibile. […] Nella vita tutto è mistero. I sogni non vogliono farvi dormire ma al contrario svegliare. […] Non dipingo: utilizzo oggetti che hanno l’apparenza di quadri, perché il caso ha fatto sì che questa forma espressiva convenisse meglio ai miei sensi. Ogni epoca ha una sua coscienza propria che le altre epoche non sanno assimilare. Uno studioso al microscopio vede molto più di noi. Ma c’è un momento, un punto, in cui anch’egli deve fermarsi. Ebbene, è a quel punto che per me comincia la poesia. Il linguaggio dell’autenticità dà alle parole significati che non hanno mai avuto prima. Le immagini vanno viste quali sono, amo le immagini il cui significato è sconosciuto poiché il significato della mente stessa è sconosciuto.”
Queste parole, scritte nel 1924, appartengono ad André Breton, teorico del Surrealismo francese e sono rintracciabili nel primo Manifesto del movimento. Eppure, in un certo qual modo, vi si ritrova un parallelo eziologico con la poetica di Giuseppe Leone, il quale affida parola, segno ed immagine ad una forma di pensiero trascendente.
La sala Medio Oriente del Palazzetto delle Arti FortoreSannio, si trasforma, dunque, in una più ampia installazione convergente e dialogante in maniera inclusiva, alla presenza del fruitore.
Tre sono le opere presenti che si inseriscono in quel solco di osservazione privilegiata dell’artista, e si tratta di un polittico del 2015, la “Tavola delle 9 Conoscenze”, posto sulla parete di fondo, la grande installazione che campeggia al centro dello spazio, titolata, per l’appunto, Medio Oriente, del 2017, entrambe del maestro Leone e la terza, TNT, uno ‘sgabello’ tradotto in oggetto e veicolo emblematico, di Andrea Matarazzo, artista partenopeo, già allievo di Leone presso l’Accademia di Belle Arti e proveniente da una mostra passata di grande respiro internazionale, del 2010.
Il dialogo tra le suddette opere, avviene lungo la linea del tempo, in una dimensione che pone in continuo rimando passato e presente. Se, infatti, il sottosuolo della Storia trasmigra entro una razionalizzazione che si affida alla documentazione, al racconto cronachistico, questa grande sala espositiva reca con sé una nuova definizione di Storia e Cronaca come Profezia, allorquando tali elementi derivano da un più profondo universo trascendente, come afferma lo stesso Giuseppe Leone. Ecco, dunque, che l’immanenza, tradotta in Arte, si fonde con la Cronaca per farsi nuova conoscenza, seppur ancora lontana dal già noto ma indizio di presagio e rivelazione.
L’atto di disvelamento ontologico dell’intera sala Medio Oriente vede quale punctum la diarchia tra lo l’opera di Matarazzo, che ricorda un detonatore di dinamite, e la sequenza prospettica che inquadra la grande installazione di Leone, una sorta di novella ghigliottina, che amaramente ricorda le esecuzioni per mano dei combattenti islamici, ma anche quelle delle piazze inglesi e francesi dei secoli scorsi. Dal patibolo ligneo pende, infatti, una testa di derivazione stilistica classica, a segnar la metafora dell’Occidente, nella perdita di una relazione atavica che, la nostra società, non ha saputo tener salda.
Il punto di fuga di tale prospettiva sarà da ricercare nel polittico delle “Tavola delle 9 conoscenze”. Essa, rimanda alle tavole dei comandamenti che, tuttavia, sono dieci. Il lavoro di Leone, dunque, si incanala in una pars destruens fisica che, ciononostante, opera, per ossimoro, in direzione di pars costruens speculativa, intervenendo su conoscenze pregresse ed assodate; le Tavole della conoscenza, riferibili anche ai comandamenti, sono dieci, dunque, nell’opera di Leone manca una tavola, la decima, quella che recita “Non desiderare la roba d’altri” e ciò, in maniera del tutto sorprendente, svela qualcosa di non ancora noto e che si ritrova nella Storia e nella Cronaca. Pertanto, in questo dato caso, una parte mancante è quella che traduce e sostanzia il quid capace di rivelare ciò che, invisibile allo sguardo retinico, appare lampante allo sguardo della mente.
Al contempo, osservando ancora questa opera, si noterà che la tavola numero 5, ha impressa su di sé una mano – traccia dell’artista – macchiata di sangue ed essa, nella corrispondenza semantica con le leggi cristiane, rimanda al quinto comandamento “Non uccidere”. Riportando questi dettagli entro un unico ambito, si scorgerà la valenza allegorica dell’intera epifania dell’opera, la quale, rimanda anche ad alcuni primigeni principi della Cabala – cui, spesso, invero, Leone si è affidato – entro uno spettro filosofico profondo e che trova nell’unione del pensiero mediterraneo, la radici del nostro tempo.
Il Tempo, imperciocché, è scelto dal Leone, quale latore di verità irrisolte, di verità storiche, ma anche di immaginifiche verità, formatesi in una dimensione filosofica e giunte a poter esser tangibili, attraverso il medium dell’arte.
“Quando la cronaca diventa profezia” asserisce Giuseppe Leone, Egli la trasla all’interno della propria poetica artistica, originando una plus valenza di verità che si identifica con quella visione profetica cui s’accennava poc’anzi. Non v’è alcun dubbio che, nell’atto di tale identificazione – nuova eppur intrinseca – l’arte colga ciò che in nuce appartiene all’umanità e, attraverso la parola o l’immagine, riesca a farsi alchemico memento ex post.