“Vogliamo la resa piena e incondizionata” del partito Repubblicano al governo. Non usa mezzi termini il leader delle proteste Nikol Pashinyan durante il discorso alla folla riunita in piazza della Repubblica a Yerevan, la capitale dell’Armenia. Dopo dieci giorni di manifestazioni pacifiche e dopo le dimissioni del premier Serzh Sargsyan, accusato di aver trasformato il Paese in uno stato autoritario, gli oppositori chiedono le dimissioni in blocco del governo. E la nomina di un “candidato del popolo“. Respinta invece l’offerta di andare subito al voto: “Vogliono le elezioni anticipate mentre un rappresentante del partito Repubblicano resta in carica come primo ministro ad interim“, ha denunciato Pashinyan su Facebook. “Ma sappiamo quale sarà il risultato di una tale elezione”. Il leader della fazione di opposizione Elk ha incontrato gli ambasciatori dei paesi membri dell’Ue e ha annunciato che presto vedrà i rappresentanti di Russia e Stati Uniti.

Chi è Serzh Sargsyan – La scintilla che ha acceso il movimento rivoluzionario in Armenia è stata la nomina a premier, il 17 aprile, di Serzh Sargsyan, considerato vicino a Vladimir Putin. Una mossa giudicata autoritaria dall’opposizione, perché l’uomo ha già ricoperto per due volte la carica di presidente (la prima nel 2008 e la seconda nel 2013). Per aggirare il limite costituzionale dei due mandati, Sargsyan ha promosso nel 2015 un referendum per trasformare il paese in una repubblica parlamentare dando maggiori poteri alla figura del primo ministro. Poi è arrivata la nomina proprio per quel ruolo che aveva contribuito a rafforzare. Tutto ciò nonostante avesse assicurato di voler rendere più democratico il sistema politico dell’Armenia e l’annuncio che non si sarebbe più ricandidato.

La “rivoluzione di velluto” – Dieci giorni fa Pashinyan aveva promesso che presto il “regime” di Sargsyan sarebbe crollato. Ma senza spargimenti di sangue. A quel punto è iniziata la “rivoluzione di velluto“, con una serie di manifestazioni non violente in tutto il Paese. Giorno e notte le strade di Yerevan sono state bloccate dagli oppositori. La polizia ha fermato centinaia di persone che hanno aderito alle proteste. Persino diversi agenti delle forze dell’ordine e dell’esercito sono scesi in piazza per far sentire la propria voce, come ha rivendicato lo stesso Pashinyan. Ma domenica 22 aprile la situazione sembrava sul punto di esplodere: dopo un acceso botta e risposta televisivo fra i due antagonisti, il premier ha chiesto e ottenuto il fermo per Pashinyan e per altri due leader dell’opposizione, Ararat Mirzoyan e Sasun Mikaelyan.

Le dimissioni del premier – La svolta è arrivata con la visita in carcere del numero due del partito Repubblicano, Karen Karapetyan, che ha parlato direttamente con Pashinyan. Subito dopo, gli eventi hanno subito un’accelerazione. I fermi non sono stati convalidati, Sargsyan ha dato le dimissioni e Karapetyan è stato nominato primo ministro ad interim. “Eseguo il vostro volere, auguro la pace al nostro Paese”, ha detto Sargsyan rivolgendosi ai manifestanti di Yerevan, dando l’annuncio del suo ritiro. Una decisione inaspettata, ma necessaria per evitare una escalation delle violenze.

Le reazioni internazionali – Dopo le dimissioni di Sargsyan, dalla Russia sono arrivate parole di elogio per la “grandezza dimostrata dal popolo armeno”, come ha dichiarato Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri. Il Paese mediorientale è un’ex repubblica sovietica ed è decisivo per l’equilibrio della Regione. Il Cremlino finora ha cercato di non intervenire negli scontri nel Paese, definendoli un “affare interno”. Ma non è sfuggito l’avvertimento del capo della commissione Esteri della Duma, Leonid Slutsky: “L’Armenia resterà comunque un alleato strategico della Russia”. Sulla vicenda sono intervenuti anche gli ambasciatori dei paesi Ue, che hanno incontrato Pashinyan per ascoltare le sue posizioni, e il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, il quale ha incoraggiato “tutti gli attori a continuare ad esercitare moderazione e dare priorità al dialogo”.

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