Era corruzione sì, ma era anche mafia. Mafia capitale. I giudici di appello “smentiscono” quelli di primo grado sul “mondo di mezzo” che voleva prendersi Roma con la forza e con le tangenti. All’ombra del Colosseo, quindi, c’era un’organizzazione criminale che si muoveva come un clan affiliato alla ‘ndrangheta e una famiglia di Cosa nostra. Lo sostengono i magistrati della III corte d’Assise d’appello di Roma che hanno riconosciuto l’aggravante mafiosa per 17 imputati di quell’inchiesta che squassò la capitale il 2 dicembre del 2014: 37 le persone arrestate da parte degli uomini del Ros. Un gruppo di personaggi con un passato in Romanzo criminale e un presente nei palazzi che contano, capace di infiltrarsi e fare business nella gestione dei centri accoglienza per immigrati e dei campi nomadi, di finanziare cene e campagne elettorali con una filosofia ben precisa. “È la teoria del mondo di mezzo compà. Ci stanno, come si dice, i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo. E allora vuol dire che ci sta un mondo… un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano… come è possibile… che ne so… che un domani io posso stare a cena con Berlusconi”, teorizzava Massimo Carminati.

Ex terrorista di estrema destra con i Nar, noto per i suoi rapporti con la Banda della Magliana, il Cecato era tornato sulle prime magine di tutti i giornali alla fine del 2014, quando era finito in cima alla lista delle persone arrestate su richiesta della  procura di Roma guidata dal Giuseppe Pignatone, già al vertice degli uffici inquirenti a Palermo e Reggio Calabria. Oggi Carminati incassa una condanna per mafia ma anche uno sconto di pena: per lui la condanna è scesa da 20 anni a 14 anni e sei mesi. Per Salvatore Buzzi, l’ex ras delle cooperative rosse, la condanna passa da 19 anni a 18 e 4 mesi. Gli imputati hanno assistito alla lettura della sentenza in video conferenza dalle carceri di Opera, a Milano, e Tolmezzo, in provincia di Udine, dove sono detenuti. Dalla lettura del dispositivo si comprende che la riduzione della pena è arrivata dall’esclusione del riconoscimento della continuazione interna per gli episodi di corruzione. 

Per i giudici di primo si trattava di “due diversi gruppi criminali”
In primo grado era andata molto diversamente. “Due diversi gruppi criminali“, uno che faceva capo a Buzzi e un altro a Carminati, ma nessuna mafia, avevano sostenuto le toghe dell’Assise. Una forma di criminalità organizzata né “autonoma” né “derivata” perché di fatto, secondo i giudici, era assente quella violenza, quella intimidazione che caratterizza le organizzazioni criminali punite con l’articolo 416 bis. E né la corruzione, per quanto pervasiva, sistematica e capace di arrivare fino al cuore della politica, poteva essere considerata alla stregua della forza intimidatrice tipica delle mafie. La prima e legittima conseguenza era stata nella modifica dello status di detenuto di Carminati: all’ex Nar, infatti era stato revocato il 41 bis. Ora bisognerà capire se il carcere duro per il Cecato sarà ripristinato visto che è stato riconosciuti colpevole di associazione a delinquere di stampo mafioso, insieme a Buzzi e altri 16 imputati tra cui l’ex consigliere di Forza Italia, Luca Gramazio (8 anni e 8 mesi), Franco Panzironi (8 anni e 7 mesi), ex numero uno di Ama, Carlo Pucci (7 anni e 8 mesi), ex manager di Ente Eur, Franco Fabrizio Testa (9 anni e 4 mesi) collaboratore di Buzzi.

La procura di Roma: “Era una questione di diritto”
La sentenza dei giudici di primo grado era stata appellata dalla procura di Roma , che aveva seguito il solco tracciato da alcune sentenze della Cassazione emesse per altri processi. La Suprema corte, per esempio il 10 novembre 2017, aveva annullato con rinvio un’assoluzione dal reato di 416 bis e citato nelle motivazioni proprio il processo Mafia capitale. Gli ermellini avevano proseguito la strada di annullamento di condanne che escludono l’accusa di mafia per le nuove forme di criminalità ritenute “a bassa potenzialità intimidatrice”. Il 26 ottobre 2017, invece, la VI sezione aveva riaperto il processo per mafia al clan Fasciani di Ostia. Del resto sempre la Suprema corte aveva confermato in sede di indagini preliminari le ordinanze di custodia cautelare per alcuni indagati proprio con l’aggravante mafiosa. “Abbiamo sempre detto che le sentenze vanno rispettate. Lo abbiamo fatto in primo grado e lo faremo anche adesso. La Corte d’appello ha deciso che l’associazione criminale che avevamo portato in giudizio era di stampo mafioso e utilizzava il metodo mafioso. Era una questione di diritto che   evidentemente i giudici hanno ritenuto fondata”, commenta il procuratore aggiunto Giuseppe Cascini. In aula erano presenti anche il pm Luca Tescaroli e i procuratori generali Antonio Sensale e Pietro Catalani. 

Le altre condanne e le assoluzioni
Per Luca Odevaine, ex vicecapo di gabinetto di Valter Veltroni che ha patteggiato la pena, la pena è stata rideterminata in 5 anni e 2 mesi e l’interdizione non sarà più perpetua, ma per cinque anni. A Claudio Turellafunzionario del servizio giardini del Comune, la pena è stata fissata a sei anni. I magistrati hanno inflitto 3 anni e 8 mesi a Emanuela Bugitti, 9 anni e 4 mesi a Claudio Caldarelli, 10 anni e 4 mesi a Matteo Calvio, 3 anni a Mario Cola, 4 anni e 6 mesi a Sandro Coltellacci, 4 anni e 6 mesi a Mirko Coratti (l’ex presidente Pd dell’Assemblea capitolina), 2 anni a Giovanni De Carlo, 6 anni e 3 mesi a Paolo Di Ninno, 2 anni e 1 mese ad Antonio Esposito, 4 anni a Franco Figurelli, 4 anni e 10 mesi ad Agostino Gaglianone, 6 anni e 6 mesi ad Alessanra Garrone, 4 anni e 10 mesi a Carlo Maria Guarany, 4 anni e 8 mesi a Cristiano Guarnera, 5 anni e 4 mesi a Giovanni Lacopo, 8 anni a Roberto Lacopo, 3 anni e Guido Magrini, 3 anni e 11 mesi a Michele Nacamulli, 3 anni e 2 mesi Pierpaolo Pedetti, 4 anni a Mario Schina, 2 anni e 3 mesi ad Angelo Scozzafava, 2 anni e 6 mesi per Giordano Tredicine, 9 mesi, per Tiziano Zuccolo, recovate le statuizioni civili per Regione e Libera per Andrea Tassone. Assolti Stefano Bravo, Pierina Chiarvalle, Giuseppe Ietto, Sergio Menichelli e Pulcini Daniele per non aver commesso il fatto, Nadia Cerrito invece perché il fatto non sussiste. Quest’ultima era la segretaria di Buzzi e aveva ricostruito con gli inquirenti la distribuzione delle tangenti in quanto custode del libro mastro delle bustarelle. 

I difensori all’attacco: “Atto grave, da oggi molto pericoloso vivere in Italia”
La difesa, che aveva quasi esultato per il verdetto di primo grado, oggi non incassa. Anzi rilascia commenti affilati. “Quanto accaduto è grave, è un atto assolutamente stigmatizzabile l’aver riconosciuto in questa roba la mafia. Credo che per molti cittadini da oggi sia molto pericoloso vivere in Italia: è una bruttissima pagina per la giustizia del nostro Paese“, dice Alessandro Diddi, legale di  Buzzi. “Questa sentenza rappresenta per me una sorpresa, perché già non condividevo la sentenza di primo grado che aveva riconosciuto due associazioni distinte. L’insussistenza dell’accusa mafiosa mi sembrava inattaccabile: mi sbagliavo. Questo collegio ha invece riconosciuto l’esistenza della mafia. E se persino questo collegio, che è uno dei migliori della corte d’appello, ha riconosciuto l’aggravante mafiosa di questa, o io non capisco più nulla di diritto, ci può stare, oppure è successo qualcosa di stravagante che ha influito sulla sentenza. In questo Paese la magistratura mette bocca su tutto e si arroga il compito di moralizzare la società”, dice invece Giosuè Naso, avvocato di Carminati. 

Requisitoria del Pg: “Aggravante mafiosa c’è”
La Procura generale di Roma con il sostituto procuratore generale Antonio Sensale aveva chiesto non solo il riconoscimento del 416 bis, ma pene molto più alte: rispettivamente 26 anni e mezzo e 25 anni e nove mesi di carcere per Carminati e Buzzi, perché ritenuti i governanti di quel meccanismio che ha tenuto sotto scacco per anni ampi segmenti dell’imprenditoria e dell’amministrazione pubblica romana e politici di tutti gli schieramenti. Partendo da lontano, dal basso, dalla strada fino al mondo di sopra. Il gruppo criminale sarebbe cresciuto ampliando il proprio raggio d’azione dalle semplici estorsioni al controllo di attività economiche, infiltrandosi in appalti e commesse pubbliche. Dopo il 2011 e l’incontro con Salvatore Buzzi, l’associazione sarebbe ulteriormente cresciuta, arrivando a condizionare la politica e la pubblica amministrazione, senza però mai abbandonare le attività originarie della violenza, dell’estorsione e dell’usura. Proprio da quelle, sostiene l’accusa, avrebbe tratto forza la nuova mafia, proprio come quelle tradizionali. Una ricostruzione che non era stata riconosciuta dai giudici di primo grado, secondo i quali senza violenza e intimidazione non c’è mafia. E invece da oggi non è così.

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