Francesco Belsito? “Un disonesto. Purtroppo è ancora vivo“. I 49 milioni di euro della Lega? “Sono stati tutti spesi. E Matteo Salvini lo sapeva”. Perché il partito ha speso così tanti soldi in così poco tempo? “Dovevamo pur vivere“. Parola di Stefano Stefani, ex segretario amministrativo della Lega, chiamato dalla procura di Milano a testimoniare al processo a Matteo Brigandì, storico legale del Carroccio e di Umberto Bossi. L’avvocato é imputato per patrocinio infedele e autoriciclaggio nel dibattimento in cui la stessa Lega è parte civile, rappresentata da Domenico Aiello, noto per essere amico e legale di Roberto Maroni. Pure l’ex governatore della Lombardia doveva testimoniare davanti al giudice Chiara Valori ma non si è presentato per imprecisati “motivi familiari“: sarà ascoltato il 4 aprile prossimo.

“I 49 milioni? Sono stati spesi. Dovevamo vivere” – Il processo a Brigandì non ha niente a che vedere con la storia dei fondi della Lega. La lite tra l’avvocato e il Carroccio, però, nasce nel 2012, proprio nei giorni in cui il partito di Bossi viene travolto dalle inchieste giudiziarie. È in quel periodo che per sostituire Belsito, Maroni sceglie come nuovo tesoriere Stefani, orafo vicentino con la terza media ma leghista di lungo corso. Più volte deputato, senatore e sottosegretario, è Stefani il tesoriere di via Bellerio nel periodo in cui il famoso tesoretto della Lega comincia a evaporare a colpi di bonifici. “Sotto la mia gestione ogni centesimo speso è documentato e certificato. Quei soldi che cercano non ci sono perché sono stati spesi“, dice Stefani alla fine della sua deposizione, mentre esce dal palazzo di giustizia di via Freguglia. Fazzoletto verde al taschino della giacca, il Giornale di Vicenza sotto braccio, l’ex senatore cerca di dribblare i cronisti. “Come sono stati spesi quei soldi? Avevamo un sacco di puttane in giro...avevamo sempre l’uccello duro”, è la battuta volgare che si lascia scappare per non rispondere alle domande. Poi torna serio: “Perché si spendeva tanto? Me lo hanno già chiesto i magistrati di Genova, ho risposto che dovevamo pur vivere. Ho detto a Salvini che si stava spendendo tanto? Ovvio che l’ho fatto. Lui sapeva tutto”, ripete l’ex tesoriere, ascoltato su questi fatti dai pm di Genova, che indagano sulla presunta truffa dei fondi elettorali del Carroccio: inchiesta che ha già portato alla condanna in primo grado di Bossi e Belsito. “È un disonesto“, dice Stefani riferendosi al suo predecessore. Citato anche durante la sua deposizione in aula. “Belsito, purtroppo, è ancora vivo“, è la battuta fulminate con la quale Stefani ha corretto l’avvocato Aiello, che si riferiva a Maurizio Balocchi, tesoriere della Lega prima di Belsito, scomparso nel 2010.

La pace tra vecchia e nuova Lega – Per il resto la testimonianza di Stefani è stata densa di non ricordo. Eppure è proprio Stefani a siglare la famosa scrittura privata firmata da Salvini, da Bossi e da Brigandì. In quattro pagine firmate il 26 febbraio del 2014, si sanciva la pace tra vecchia e nuova Lega. Brigandì rinunciava a rivendicare una parcella milionaria per aver difeso il partito dal 2000 al 2013 e in cambio l’attuale segretario assicurava a Bossi una “quota” pari al 20% delle candidature in posizione di probabile elezione, più uno stipendio da presidente di partito pari a 450mila euro l’anno come “agibilità politica“. Il punto più importante è forse il numero sette: “Il procedimento penale pendente avanti il tribunale di Milano ove Bossi è difeso da Brigandì, non avrà, da questo momento, alcuna interferenza da parte della Lega che non intende proporre azione risarcitoria nei confronti di alcuno dei membri della famiglia Bossi”. Cosa effettivamente avvenuta visto che di recente il Carroccio ha depositato querela di parte solo contro Belsito nel processo di secondo grado. In quella scrittura privata Salvini sottoscriveva anche “la Lega non darà ulteriori mandati all’avvocato Aiello”, mentre al punto otto, si impegnava “ad affermare, a mera richiesta, in ogni sede la correttezza del comportamento di Brigandì dal punto di vista morale e deontologico”.

“La scrittura privata? Niente di quell’accordo si è realizzato”-  “È vero: io, Salvini, Bossi e lo stesso Brigandì ci sedemmo a un tavolo per risolvere le questioni pendenti con quest’ultimo. Ricordo che si decise che Bossi doveva indicare il 20% delle candidature. Ma nessuna di quelle cose si è mai realizzata. Perché? Non dipendeva certamente da me”, ha detto Stefani, interrogato dalla difesa dello storico avvocato di Bossi. Per Brigandì, infatti, quella scrittura privata è la carta che potrebbe salvarlo dalle accuse della procura di Milano. Secondo il pm Paolo Filippini, “quale avvocato della Lega” Brigandì si sarebbe reso “infedele ai suoi doveri professionali” e avrebbe omesso “di denunciare il proprio conflitto di interessi” in relazione a un decreto ingiuntivo da lui richiesto e incassando quasi 1,9 milioni di euro di compensi per la sua attività, come si legge nell’imputazione. L’avvocato avrebbe prima investito quei soldi “sottoscrivendo” una polizza vita e poi dopo un “disinvestimento trasferiva la somma di 1,67 milioni” su un conto di una banca in Tunisia. Da qui l’accusa di autoriciclaggio. La difesa di Brigandì, però, ha prodotto un nuovo documento firmato da Salvini e senza data, nel quale si legge che l’attuale ministro dell’Interno riconobbe a Brigandì somme a titolo di liberalità e rimborso spese per la sua attività politica da 2000 al 2013 e non per compensi professionali”. “Mai saputo di queste liberalità”, ha detto Stefani. L’ex tesoriere ha ricordato che l’avvocato lavorava per la “procura della Padania“, cioè l’organo di partito che durante l’era di Bossi si occupava di tutte le vicende legali. “All’epoca – ha raccontato l’ex tesoriere – si pensava che Brigandì fosse ricompensato con candidature in Parlamento, ma io le prove non le ho mai avute”.

Twitter: @pipitone87

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