Santa Sofia non sarà più un museo. La chiameremo moschea“. A due giorni dalle amministrative in Turchia – l’ultimo voto programmato fino al 2023 quando ci saranno le politiche nel centenario della Repubblica turca – il presidente Erdogan rilancia un’idea già segnalata da diversi osservatori. Il motivo? Cercare di attirare il consenso della parte religiosa del suo partito conservatore, l’AKP. I sondaggi sembrano infatti mettere in discussione il controllo politico di alcune città chiave come per esempio Ankara o la stessa Istanbul, il luogo in cui Erdogan ha iniziato la sua carriera politica come sindaco. Il consenso è diminuito a causa dell’elevata inflazione e della crisi economica che ha colpito la Turchia, in recessione da un anno.
Il rais ha così stuzzicato il revanscismo turco: “Chi resta in silenzio quando la moschea di al-Aqsa (a Gerusalemme) viene attaccata, calpestata, le sue finestre vengono rotte, non può dirci cosa fare con lo status di Santa Sofia“. Non sono le uniche parole dure del capo di stato turco. Lo scorso 18 marzo – in occasione della commemorazione della Battaglia di Gallipoli del 1915 in cui i turchi respinsero gli anglofrancesi nelle cui file militavano e morirono anche migliaia di soldati australiani e neozelandesi – il presidente ha pronunciato parole che sembravano una dichiarazione di guerra, riferendosi all’attentato in Nuova Zelanda: “Ci stanno mettendo alla prova da 16.500 chilometri di distanza. Siamo qui da 1000 anni e, a Dio piacendo, ci rimarremo fino all’Apocalisse. Non farete diventare Istanbul Costantinopoli. I vostri antenati sono venuti qui e sono tornati nelle bare. Non dovete avere dubbi sul fatto che vi rimanderemo indietro come loro”.

UNA PROPOSTA AD OROLOGERIA
Non è la prima volta che Erdogan mette sul tavolo la metamorfosi di Santa Sofia. Lo aveva già fatto in vista di altri appuntamenti elettorali riprendendo le campagne della destra islamista e nazionalista. Come riporta Il Corriere della Sera, quando Papa Francesco aveva riconosciuto il genocidio armeno nel 2015, parole inneggianti alla “riconversione” erano giunte dal Mufti di Ankara. Nel 2016 invece era stato nominato per la prima volta un imam della moschea e da allora il muezzin vi intona l’adhan, il canto di invito alla preghiera. L’anno scorso, infine, Erdogan aveva recitato all’interno dell’edificio il primo versetto del Corano dedicandolo a «tutte quelle persone che ci hanno lasciato in eredità quest’opera».
Insomma, le avvisaglie c’erano tutte. Ma non era ancora arrivato un annuncio formale. Che ora è stato ufficializzato ma che, come puntualizza La Stampa, va contro la legge in vigore. Già in settembre la Corte Costituzionale ha respinto l’ennesima istanza di riapertura presentata da un’organizzazione islamica sostenendo che lo status di museo non lede alcun diritto. Occorre però precisare che Erdogan, dopo il referendum del 2017, può nominare 12 giudici su 15 nella Corte. E oltre a 4 membri (i giudici Akyel, Hakyemez, Ozkaya, Kaleli) già scelti sotto la sua presidenza entro le nuove elezioni del 2023 saranno sostituiti altri 5 membri. Quindi otto membri su quindici della Corte Costituzionale – sufficienti ad avere la maggioranza – saranno presto eletti durante il suo governo. E tutto ciò non fa che rendere più probabile l’apertura della moschea.

LA STORIA DEL MONUMENTO
Santa Sofia – dedicata alla Sapienza di Dio – fu completata da Costantino nel 537. Venne successivamente trasformata in moschea dopo la conquista ottomana di Costantinopoli a seguito dell’assedio del 1453. Nel 1935 Mustafa Kemal Ataturk, il fondatore della Repubblica di Turchia, trasformò la basilica cristiana diventata moschea in un museo, sottraendola così alla contesa delle fedi in ottemperanza alla laicità dello stato da lui promossa. Se davvero il museo dovesse ridiventare un luogo di culto sarebbe inevitabile l’ira dei cristiani e soprattutto della Grecia che più volte ha espresso preoccupazione sulle iniziative volte a cambiare la condizione del monumento.

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