Cadono oggi, 2 aprile 2019, i 30 anni dalla proclamazione di Yasser Arafat come presidente della Palestina. Difficile trovare un leader che sappia simboleggiare, meglio di lui, almeno 50 anni di lotte democratiche e di liberazione in uno dei quadranti più drammatici e importanti del mondo contemporaneo, quello mediorientale.

Stratega militare e sostenitore coerente e inflessibile della necessità della lotta armata per liberare il suo popolo, Arafat seppe – al momento opportuno – imbracciare il ramoscello d’ulivo al posto del kalashnikov per tentare la strada della pace con Israele, nel reciproco rispetto e per la pacifica convivenza. Trovò, in questo sforzo, un partner di importanza fondamentale nel presidente israeliano Yitzhak Rabin. Furono firmati degli Accordi di pace che, con tutti i loro limiti, potevano segnare l’avvio di un processo positivo di lungo periodo. La comunità internazionale riconobbe il valore dell’impegno di entrambi attribuendo loro, congiuntamente, il premio Nobel per la pace nel 1994, insieme anche al ministro degli Esteri israeliano Shimon Peres. Fu il momento più alto della speranza di una pace giusta in Medio Oriente, ma purtroppo durò poco.

Estremisti di destra israeliani uccidevano, quello stesso anno, il presidente Rabin. Fu con questo omicidio politico, un atto di terrorismo calcolato, che Israele cominciò la sua fuga verso la destra, le cui tappe successive furono la famigerata “passeggiata” del provocatore Ariel Sharon sulla piana delle Moschee che dette l’avvio alla seconda Intifada, e via via i governi, sempre più a destra, di Netanyahu e le varie aggressioni belliche nei confronti della Cisgiordania e di Gaza, fino ai massacri della scorsa primavera e a quelli attuali. Crimini di guerra e contro l’umanità, accusa l’Onu, su cui presto sarà chiamata a pronunciarsi la Corte penale internazionale.

Quando lo conobbi alla Muqqata di Ramallah, nel maggio 2002, Arafat era già sulla strada della sua fine. Assediato e protetto da poche decine di fedeli, abbandonato dall’Occidente che aveva avallato la strategia israeliana di non adempimento degli accordi raggiunti otto anni prima, Arafat appariva stanco e deluso. Ancora sorridente e dimostrando un’enorme forza di volontà, tuttavia, parlò con me e con il magistrato Domenico Gallo dell’antichissima città di Gerico, una delle più antiche del mondo, il cui valore di patrimonio storico, culturale e architettonico dell’umanità veniva messo a repentaglio dall’occupazione militare israeliana.

Due anni dopo Arafat moriva a Parigi, per ragioni ancora non chiare. Si è parlato di morte naturale ma in molti hanno sostenuto altre tesi, tra cui quella dell’avvelenamento. Certamente il governo israeliano e i suoi potenti e professionali servizi militari (almeno quella parte di essi che ha sposato la linea dell’annientamento dei Palestinesi come popolo e Stato indipendente) avevano tutto l’interesse a toglierlo di mezzo. E i dieci anni che sono seguiti alla morte di Arafat hanno confermato che tale interesse era fondato. E’ infatti venuta meno la figura più emblematica della lotta per la liberazione del popolo palestinese, senza lasciare successori all’altezza della situazione, tranne forse Marwan Barghouti, condannato all’ergastolo e sepolto a vita nelle carceri israeliane.

Non si è fermata tuttavia la mobilitazione in Palestina e nel mondo intero per garantire l’affermazione e la soddisfazione dei diritti di un popolo che si vuole privare completamente dell’identità e del futuro. Il punto da risolvere è quello di dare vita a un’entità sovrana, la cui organizzazione potrà variamente atteggiarsi, ma in cui siano comunque garantiti i diritti di tutti gli abitanti, siano essi arabiebrei, palestinesi o israeliani. Altrimenti continuerà ad essere, come oggi, apartheid, occupazione militare, negazione di diritti fondamentali, continua commissione di crimini.

E non sarà certo l’aiuto del traballante clown Donald Trump – il quale, evidentemente privo di una propria autonoma strategia razionale, ha deciso di assumere in tutto e per tutto (pare su istigazione del genero) le rivendicazioni più estreme della destra israeliana, da Gerusalemme capitale all’annessione del Golan – a risolvere i problemi di Israele. L’esigenza di un incontro e di un negoziato in buona fede resta viva, nel ricordo commosso di coloro che all’epoca ne avevano suscitato la speranza e per questo furono chiamati a pagare un prezzo altissimo nel corso di pochi anni.

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