La degradazione di Alfred Dreyfus

Il cosmopolitismo è un segno dei tempi

Massimo Bordin

Tornano parole antiche, ripescate dai periodi più bui del secolo breve

Tornano parole antiche, ripescate dai periodi più bui del secolo breve. A suo tempo qui si mostrò preoccupazione per l’uso di un termine, disfattista, che veniva usato indifferentemente da destra e da sinistra nel momento in cui chi si trovava al governo doveva rispondere alle critiche degli oppositori. A un certo punto si pensò bene di ricorrere a una accusa innegabilmente evocativa di tribunali speciali o popolari, se non addirittura di esecuzioni sommarie e decimazioni. In questi giorni, seguendo il dibattito nella sinistra che ancora si definisce comunista, o giù di lì, riaffiora una parola più lieve, cosmopolitismo, che però si conquistò un’aura politicamente negativa nella Francia di fine Ottocento, quella di Dreyfus, ebreo e mezzo tedesco, juif allemande.

  

Cosmopolita divenne un insulto contrapposto a nazionalista e nacque dunque a destra, anche se a prendersela con Dreyfus c’era pure qualche vecchio comunardo. Poi la parola ritornò in auge negli anni trenta, col nazismo certo, ma anche nei processi di Mosca quando fu sterminato il gruppo dirigente bolscevico, fatto di gente che sapeva parlare molte lingue e da giovane aveva girato un po’ di mondo. Per di più molti di loro erano ebrei. Stalin sapeva solo il russo e aveva studiato in seminario. In alcune sezioni Pci degli anni 60 aveva ancora corso l’accusa di cedimento al cosmopolitismo borghese, sia pure senza gravi conseguenze. Poi naturalmente il linguaggio si è evoluto. Ora il cosmopolitismo ritorna non solo nei discorsi televisivi del filosofo-macchietta Fusaro ma anche di pensosi professori che scrivono sulle riviste della sinistra. E’ un segno dei tempi e non è buono.

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