Foto di Vadim Timoshkin via Flickr

I vani “selfie dell'io inquieto” degli scrittori che cercano la complicità dei lettori

Marco Archetti

Leggere i post di scrittori che raccontano le “intense” circostanze in seno alle quali sono nate le loro opere. Perché blandire le emozioni fa male alla vera letteratura

Più leggo post di scrittori che raccontano le “intense” circostanze in seno alle quali sarebbero nate le loro opere, e più provo raccapriccio verso questi osceni vaniloqui da adescamento, queste mastoplastiche da imperante pornografia del “sentimento creativo”. E’ tutta una sagra dell’io inquieto, tutto un selfie con pensiero profondo, tutto un “ho sofferto di notte ascoltando musica e strappandomi parole da dentro”, un osceno vedo-stravedo, un ti-dico-tutto-quel-che-vuoi-sentire per ingigantirmi nelle tue orecchie illudendole circa il loro fino sentire… Ormai lo fanno in molti, soprattutto quelli che non ti aspetteresti: pubblicano un libro e zac! sganciano il post che ne sviscera i retroscena pseudo-poetici, perché ah, oh, uh, mio lettore, sapessi l’aere brumoso e malinconico in cui languidamente m’abbandono a concepire… E giù con retrospettive d’intimità e frasette di circostanza ispirazionale corredate dalle annotazioni multisensoriali in fascinosa balìa delle quali l’opera sarebbe stata scritta: memorie olfattive definite “struggenti”, vapori musicali notturni, tattili impermanenze di un passato che tortura lo scrittore sensibilissimo attraverso ombre, parvenze, immagini, un fumo di donne ricordate, avute e svanite, con sottofondo di jazz da ascensore e frivolezze da maledettismo vocazionale.

 

Ciò detto, non è tanto il portamento da pensoso essenziale ad avvilire il senso profondo di ciò che è la Scrittura (reato di per sé gravissimo, perpetrato da chi semmai dovrebbe servirla), ma sono le scellerate conseguenze derivanti da questi vaniloqui a mettere ancor più a repentaglio un rapporto già a repentaglio: quello dei lettori con la Letteratura. Non ci sarebbe alcun vero problema se una caricatura di scrittore col suo libercolo in uscita scrivesse un post ingolosendo i clienti con una grottesca bigiotteria autonarrativa, bamboleggiando viscidamente; dopotutto ognuno è responsabile di quel che fa e dei lettori che si cerca. Il problema è che il danno maggiore, il danno supremo, il danno per cui mi sgolerò fino all’ultimo, è collaterale. E risiede nel giustificare e monumentalizzare il “rapporto sentimentale” del lettore con l’opera, nell’elevare l’emotività a codice principale del rapporto con la pagina, nell’eleggere “l’atmosfera sognante” come habitat in cui vive la relazione tra lettore e pagina. E giusto per esser chiari fino in fondo: se si tratta di librini di noi terrestri, pace, ma se si tratta di Balzac, per me è guerra.

 

A recente conferma della tragedia, un conoscente a cui l’avevo consigliato mi ha detto: “A me Le relazioni pericolose non è piaciuto… mi sono annoiato, non mi ha preso, non mi è arrivato”. Non celebrerò qui il mio autocontrollo perché il fiato mi serve per calarmi in apnea nella seconda parte di questa drammatica frase, là dove sfolgorano quel “non mi ha preso” e quel “non mi è arrivato” in nome dei quali il libro – conclude tra sé il lettore – “è per forza brutto”. Facile, no? Facile e giusto: uno vale uno, sono le gioie della disintermediazione. Ma un libro aperto è un potere da cui fuggire?

 

Io credo l’esatto contrario. Io credo che si debba abolire questa devastante presunzione di orizzontalità. Io (cioè Marco Archetti) non valgo nemmeno un decimo di Balzac come scrittore, lo so e su questo non ci piove, ma proprio perché lo so, ho fatto di tutto per meritarmelo almeno come lettore, cioè ho preso atto di un’inadeguatezza che mi riguarda e l’ho trasformata in una disciplina che mi riguarda anche di più. Abbiamo ancora la capacità di sederci a un banco da studente? Siamo in grado di riconoscere la superiorità altrui o siamo irreversibilmente implosi in noi stessi? Dobbiamo imparare a cedere e a dar ragione ai libri che non ci piacciono, se a non piacerci sono Boccaccio, Sterne, Gombrowicz. Perché abbiamo torto noi. Perché le grandi opere mettono alla prova l’io di chi legge facendolo sparire, non diventandone specchio compiacente. Perché il rapporto con un grande romanzo non si consuma nel falò delle vacuità personali e men che meno nell’ossessiva ricerca di conferma alle proprie menate, ma nella disciplina di una ragione che si distende, si allarga, aderisce a un linguaggio e ne riceve, in cambio, l’Universo.

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