Dopo il famoso gol di mano, Necco chiese a Maradona: “La mano de Dios o la cabeza de Maradona?”. Il campione rispose: “Las dos” (Olycom) 

Ritratto di Luigi Necco, che cantò Maradona

Francesco Palmieri

La “mano de Dios” l’ha battezzata il mitico cronista e non solo: svelò il segreto del Tesoro di Priamo e si oppose alla Camorra

Che cosa ci siamo persi? Il terzo scudetto del Napoli raccontato da Luigi Necco, il volto più amato di 90° Minuto, la trasmissione di noi boomer quando il campionato si giocava tutto di domenica alla stessa ora e una vittoria valeva due punti. Non lo racconterà, lo scudetto già prenotato, il giornalista che con garbata ironia lasciava digerire a chiunque la sua sfacciata propensione per la squadra azzurra. Meglio non rivangarla adesso, dopo le recenti batoste con il Milan, ma la manina che chiudeva il collegamento con un “3” quando il Napoli di Maradona tanti ne rifilò ai rossoneri è tuttora filmato di culto su YouTube. Lui l’avrebbe definita anni dopo, con citazione ecclesiale, “il gesto del Cristo Pantocratore”. Perché questo fu Necco e questo non sembrò a chi ancora lo rammenta per la sua sola attività di giornalista sportivo: un uomo di profonda cultura con una passione per l’archeologia più forte di quella per il calcio.

 

Non lo racconterà, lo scudetto già prenotato, il giornalista che con garbata ironia lasciava digerire a chiunque la sua sfacciata propensione per il Napoli

 
Qualcuno ricorderà che nella Seconda guerra mondiale si smarrirono le tracce del “Tesoro di Priamo”, scoperto dal celeberrimo Heinrich Schliemann sull’altura turca di Hissarlik dove sorgeva l’antica Troia ed esposto al Pergamon Museum di Berlino. E qualcuno dirà: ma che ci azzecca Necco? Ci azzecca eccome: fu lui, con una inchiesta conclusa nel settembre ‘92 e trasfusa nel volume Il giallo di Troia, pubblicato da Tullio Pironti nel maggio ‘93, a rivelare per primo che il tesoro, trafugato dall’Armata Rossa, era ancora depositato in gran segreto nei sotterranei del Museo Puskin di Mosca. La prima mezza ammissione ufficiale del presidente russo Boris Eltsin, seguita di un mese all’uscita del libro, avrebbe subito confermato lo scoop. Se lo avesse scritto un americano gli avrebbero assegnato un premione, invece il libro di Necco passò quasi inosservato anche se precedette di due anni Stolen Treasure di Konstantin Akinsha e Grigory Kozlov, pubblicato in Gran Bretagna, e Das Gold des Priamos di Klaus Goldmann e Wolfgang Schneider uscito in Germania, mentre è solo del ‘96 Storia di un inganno di Louis Godard e Gianni Cervetti, edito in Italia da Einaudi (il 21 marzo di quell’anno Panorama dedicò sei pagine al “caso Priamo”, ça va sans dire dimenticando Necco).


Forse scontava la popolarità acquisita come giornalista di calcio, che non sarebbe stata assolta neanche dopo, quando dalla sede Rai di Napoli condusse L’occhio del faraone, con cui si dedicava finalmente al sogno di divulgare l’archeologia in tv prima di Alberto Angela ma meno didascalico, mettendo a frutto i suoi studi e il rapporto di discepolato che da giovane lo aveva legato a un eccelso scienziato il cui nome, come accadde per un sommo anglista, è rimasto penalizzato da una fama collaterale (lo consegniamo alla parentesi: Amedeo Maiuri).

  

Nasce nel 1934 nel Rione Sanità, a due passi dal palazzo in cui vide la luce Totò, un’appartenenza di cui restò orgoglioso tutta la vita

  
Chi pensa a questo punto che Necco frequentò da ragazzo le aule di archeologia si sbaglierebbe, perché le singolarità non sono terminate. L’uomo del gesto “pantocratore” al Milan, mentre cominciava la carriera giornalistica al Corriere di Napoli, si laureava in Istituzioni dell’Europa orientale e in lingua russa, che avrebbe continuato a leggere ma poco praticandola non avrebbe parlato a differenza di francese, inglese e tedesco nei quali era fluente. Eppure la sua formazione non aveva attraversato le vie pianeggianti di Chiaia né discendeva dalla morbida collina borghese del Vomero: primo di otto figli, Luigi nasce nel 1934 nel Rione Sanità, a due passi dal palazzo in cui vide la luce Totò, un’appartenenza di cui restò orgoglioso tutta la vita, un po’ come i romani di una volta precisavano di essere trasteverini o testaccini. Si ricordava del guappo Luigi Campolongo naso ‘e cane, da cui Eduardo trasse Il sindaco del Rione Sanità; si ricordava soprattutto di suo padre, maestro di un settore artigianale oggi quasi scomparso ma che rese famoso quel quartiere nel mondo: Enrico Necco fu esimio guantaio e il piccolo Luigi, primo di otto figli (gli sopravvive oggi solo una sorella), ebbe modo di scrutare le “forme” delle mani nel laboratorio, da cui forse gli scaturì quel patrimonio gestuale sfottente e pantocratore.


Fu un’istruzione impervia la sua e ne fu il padre l’incolpevole ragione: comunista convinto, a ogni arrivo di un gerarca a Napoli la polizia se lo prendeva per ospitarlo a dormire in guardina fino a visita terminata. Per evitare che il bambino fosse bollato a scuola, o magari glielo indottrinassero contro, don Enrico decise di farlo studiare da privatista, sicché Luigi dovette affrontare l’ulteriore fastidio di restare sempre in una casa troppo affollata e la sera, stagione permettendo, usciva con libri e quaderni per sbrigare i compiti sotto la tranquilla luce di un lampione.


Forse fu allora che sviluppò una memoria di ferro, come spiega la compagna Germana Borgstrom (napoletana di avi svedesi, quando i flussi migratori seguivano pure la rotta contraria): “Lo chiamavamo Neccopedia perché qualunque cosa gli chiedessi, su qualsiasi argomento, poteva offrirti subito un riferimento. Una volta si chiacchierava sulla spiaggia e nessuno ricordava come finisse La pelle di Malaparte. Telefonai a Luigi, che lo aveva letto a diciotto anni, e me lo raccontò come se avesse chiuso il libro il giorno prima. Era un affabulatore che colorava la vita. Quando mi portò a Troia mi tenne dalle nove di mattina alle sei di pomeriggio inchiodata ai suoi racconti e neanche mi resi conto che non avevamo mangiato né bevuto un sorso d’acqua. Parlava del duello fra Achille e Ettore e li vedevo, sentivo lo stridore delle armi e non la fame o la sete”.

  

El Pibe non dimenticò Necco e alla morte lo salutò con un post: “Ti mando un gran saluto, Luigi, così, come salutavi tu, con la mano”

   
Detestando lo sfoggio narcisista, Necco usava le battute per mandare la cultura in calcio d’angolo: confessò, in una intervista per i suoi ottant’anni, di non sopportare i telecronisti di nuova generazione che snocciolano erudizione calcistica sospendendo il racconto di quanto sta accadendo in campo. Molte cose testimoniò e qualcuna s’è fatta storia fra centinaia di partite. La più nota si riferisce ancora a una mano, come per destino di guantaio mancato: Mondiali del Messico, Stadio Azteca 22 giugno 1986, Argentina-Inghilterra. Necco al séguito della Rai assiste ai due indimenticabili numeri di Maradona, il gol realizzato con la “mano de Dios” e il gol “del secolo”. Al termine della partita è il primo ad avvicinarsi al campione con cui a Napoli aveva instaurato un rapporto di reciproca simpatia: “Fue la mano de Dios o fue la cabeza de Maradona?” gli viene da chiedere. “Las dos” risponde Diego tra i cronisti sudamericani che allungano i microfoni registrando una definizione che passerà dal calcio alla cultura pop. El Pibe non dimenticò Necco e alla morte lo salutò da Dubai, con un post su Facebook e un’immagine che li ritraeva assieme: “Ti mando un gran saluto, Luigi, così, come salutavi tu, con la mano” (ovviamente). Il 14 marzo 2018 ai suoi funerali c’erano il sindaco, il governatore regionale, ex calciatori, il presidente del Napoli maradoniano Corrado Ferlaino e tanti colleghi, tifosi, esponenti politici di varia colorazione perché lui fu anche consigliere comunale, eletto nel ‘97 con un mucchio clamoroso di preferenze più necchiane che diessine.

 
Troppo schietto per durare in politica, per la stessa scomoda virtù era stato gambizzato dalla camorra domenica 29 novembre 1981, mentre consumava uno spuntino prima della partita Avellino-Cesena. L’ordine era partito da Vincenzo Casillo ’o nirone, luogotenente del superboss Raffaele Cutolo e forse a insaputa di quest’ultimo, perché dopo il ferimento asserì che non avrebbe mai punito Necco: era “simpatico” anche a lui. Non accertato ma sempre intuito il movente: l’aperto biasimo con cui il giornalista stigmatizzò, in trasmissione, il pubblico omaggio del presidente del club irpino Giuseppe Sibilia a don Rafele durante un processo alla Nuova camorra organizzata. Conviene ripescare una cronaca giudiziaria dell’epoca per dare un’impressione – che oggi sarebbe reputata inverosimile – di come si svolgevano allora le udienze, precisamente come si svolse quella che costò il ferimento a Necco e vedeva nella gabbia il più potente dei camorristi. E’ l’8 ottobre 1980 e un pubblico variegato, raccontava sul Roma Salvatore Maffei, affluiva per omaggiare Cutolo: “Impresari di festival, ricchi industriali, umili bottegai, uomini incensurati, pregiudicati, aspiranti carcerati. Tutti, sfilando davanti al gabbione metallico, inventano espressioni radiose, salutano con enfasi, sorridendo o inchinandosi”. Poi arriva l’omaggio più vistoso: il patron dell’Avellino ha voluto portare con sé l’acquisto di cui è fiero, l’attaccante brasiliano Juary costato mezzo miliardo di lire. “Sibilia si è avvicinato alla gabbia, ha steso la mano al ‘padrino’ e nello stesso istante gli ha anche baciato il viso che l’altro offriva tra le sbarre”; quindi, chiamato per la presentazione, Juary tende timidamente la mano a don Raffaele. Ma non basta. Sibilia impartisce l’ordine: “Dare bacio”. E il calciatore obbedisce. Cutolo esprime la sua gioia in poche parole: “Don Peppino, voi fate onore alla nostra terra, tutti noi vi siamo grati”. “Esaurito il cerimoniale, è cominciato tra il costruttore e il detenuto – riferisce il cronista – un dialogo più riservato. Un giovane praticante procuratore ha detto: ‘Forse gli starà consigliando la formazione per l’altra domenica’”. Con i mille difetti del calcio di adesso, (anche) questo era il calcio nel 1980 per chi se lo fosse perso.
L’attentato suscitò indignazione ma nessuno lo interpretò come il nefasto presagio di un tiro che si sarebbe alzato dalle gambe alla testa di un cronista napoletano: Giancarlo Siani fu ucciso meno di quattro anni dopo.


“Il presidente della Repubblica Sandro Pertini gli espresse solidarietà”, racconta Germana, “ma quando disse: ‘Caro Necco, viviamo in un’epoca di lupi!’ a lui venne da ridere. Non riusciva a rinunciare all’ironia e scoprimmo solo allora che aveva già ricevuto minacce, perché in famiglia non ne aveva parlato né aveva chiesto protezione. Affrontò una difficile convalescenza e proseguì nel lavoro come se nulla fosse”.

  

Era umile. Ispirò, per la folkloristica dissimulazione, quasi snobismo alla rovescia, l’imitazione di Teo Teocoli con il personaggio di Felice Caccamo

  
Col suo physique du rôle sembrava fosse tutto un gioco. “Era umile”, sottolinea Germana. Non aveva la faccia dello scopritore del tesoro di Priamo, non della vittima di camorra, non del poliglotta, tutte cose che invece semplicemente fu. Ispirò piuttosto, per il surplus di bonomia e la folkloristica dissimulazione, quasi snobismo alla rovescia, l’imitazione che Teo Teocoli ne ricavò con il personaggio di Felice Caccamo, il più riuscito della sua carriera e di durata persino postuma al modello.

 
“Dopo quarantadue anni mi chiedo ancora quante cose di Luigi non abbia saputo, quante vite non mi abbia raccontato. Scoprii per caso che da studente, quando non esistevano le fotocopiatrici, per arrotondare trascriveva a mano i copioni di De Filippo a uso della compagnia. Eduardo gli dava cento lire”, ricorda Germana. La nonchalance è nemica della credibilità: “Quando ci conoscemmo mi raccontò che a quattordici anni s’era imbarcato su una nave chiamata Subieski, ma a bordo s’ammalò e restò convalescente a casa circa un anno. Naturalmente pensai: ‘Che palle mi racconta per fare il tipo affascinante!’. Molti anni dopo, durante una traversata per la Grecia dove andavamo a passare le vacanze, un marinaio ci pregò di seguirlo dal comandante. Quando entrammo in cabina, quello abbracciò Luigi e lo baciò commosso. Poi si rivolse a me: ‘Lo sa, signora, che lo ebbi come mozzo sulla Subieski?’”.

   
Questo fu l’ineffabile Necco, che negli ultimi anni di vita non smettendo mai di lavorare scoprì – anche questo è vero come la Subieski – la storia di un eroe di guerra, l’abruzzese Siro Riccioni, sottotenente laureato in filosofia che salvò dalla fucilazione 272 alpini italiani a Creta, muovendosi tra nazisti, spie inglesi e partigiani greci. Necco, prima di scriverne un libro (Operazione Teseo), andò a trovare i famigliari di Riccioni e appurò che ignoravano completamente la vicenda. Finalmente si decisero a frugare in una cassetta rimasta chiusa per una settantina d’anni e constatarono che era tutto vero.

 
Forse Necco fu troppe cose (per un breve periodo anche amministratore dell’Azienda di soggiorno e turismo di Napoli, protagonista di un fumetto promosso dal Museo archeologico nazionale e adesso intestatario di un largo nei pressi della sua ultima abitazione). Perciò se non siamo riusciti a raccontarle tutte è soltanto colpa sua.

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