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Propaganda, dazi e grandeur: perché la classe media cinese è arrabbiata

Alessandro Bazzoli

Il giorno del ritorno a scuola degli studenti sono nate polemiche: miliardi di aiuti all’Africa, mentre l’istruzione cinese latita

Pechino. Una serie di polemiche esplose sugli iper-censurati social media cinesi nei giorni del rientro degli alunni nelle scuole rivela la crescente insofferenza della classe media per il Partito comunista al potere dal 1949. Come ogni anno, il Partito ha ordinato che tutti i bambini delle scuole elementari guardassero lo show “Prima Lezione” assieme ai genitori. E’ un programma di circa un’ora prodotto dalla televisione di stato dove si inculcano i valori socialisti e si fa mostra dei risultati che il Partito comunista ha portato al paese. Fino all’anno scorso, i ragazzi iniziavano la scuola con una verifica in cui dovevano dimostrate di aver guardato e capito lo show. Tuttavia, succedeva che la rete si riempiva di riassuntini del programma e pochi lo seguivano veramente. Così, da quest’anno, il partito ha deciso di combattere questi “furbetti del riassuntino” costringendo le famiglie a inviare sul gruppo di classe dei selfie che le ritraggano intente a guardare lo show.

 

 

Grazie a questo sistema, più di 500 milioni di persone, una volta e mezza la popolazione dell’intera Europa, era di fronte alla tv due domeniche fa. Ma i genitori cinesi non sono stati per niente contenti di questo obbligo di visione. Anziché iniziare alle 8 come previsto, lo show ha tardato di dodici minuti, tutti di pubblicità di prodotti per la scuola, giochi per bambini e qualsiasi altra cosa possa interessare a dei ragazzini delle scuole elementari. Un esempio perfetto del socialismo con caratteristiche cinesi: il partito è ben contento di vendere a peso d’oro gli spazi pubblicitari di uno show forzosamente seguito da mezzo miliardo di spettatori. La polemica si è poi spostata sui bambini-attori del programma ritenuti troppo diseducativi perché truccati e quindi femminei. Xinhua, uno dei giornali di partito, con una serie di editoriali si è schierato con i genitori criticando la tv pubblica. Poi la situazione è sfuggita di mano.

 

Negli stessi giorni tutti i media cinesi riportavano la notizia di un piano per l’Africa da 60 miliardi di dollari in aiuti e investimenti lanciato dal presidente Xi Jinping. Un monumentale “aiutiamoli-a-casa-loro”. Contemporaneamente su Weibo, l’analogo cinese di Facebook, circolava un documento che dimostra che la spesa per le borse di studio agli stranieri, in gran parte riservate ai paesi africani, sia maggiore di quanto il ministero dell’Istruzione spenda per scuole elementari, medie e superiori messe insieme. La prima pagina di un giornale locale che, furbescamente, sovrappone l’annuncio degli aiuti all’Africa con la foto di una scuola dove manca l’elettricità, è stata condivisa più di 400 mila volte, per poi essere rimossa.

 

Molti tra studenti e genitori hanno fatto notare che, prima di “aiutarli-a-casa-loro”, il governo dovrebbe migliorare le scuole spesso sovraffollate (in media ci sono 60 alunni per classe) e fatiscenti, soprattutto nelle province interne storicamente meno sviluppate. Il tutto è poi degenerato nei soliti stereotipi razziali a cui pure siamo avvezzi: gli africani hanno l’HIV, rubano le donne, non hanno la cultura del lavoro, ecc.

 

Queste lamentele, eliminate dai censori del governo, riflettono la stanchezza di una classe media finora quiescente. D’altronde la guerra commerciale lanciata dal presidente americano Donald Trump aveva già creato fratture nella classe dirigente che fino a pochi mesi fa sosteneva silente e compatta il suo leader Xi Jinping. In giugno, un noto accademico della Tsinghua, una tra le più prestigiose università cinesi, aveva definito Xi un “restauratore” e aveva criticato la sua incapacità di raggiungere un compromesso con Washington.

In luglio il Renmin Ribao, il Quotidiano del popolo, ha pubblicato un editoriale anonimo in cui criticava Hua Guofeng, successore designato di Mao, poiché tentò di creare un culto della personalità. La critica è un ovvio riferimento a tutte le analoghe iniziative promosse da Xi per presentarsi come padre della patria. Un accademico della Peking University, la più antica università in Cina, ha fatto notare che il Partito comunista cinese è stato un attento studioso dei fenomeni che hanno portato alla caduta dell’Unione sovietica, onde evitare di fare la stessa fine. Tuttavia, la guerra dei dazi iniziata da Trump sembra spingere Pechino a commettere due errori che pure sono stati fatali per l’Urss. Anzitutto, la Cina sta spendendo in armamenti ben più di quello che la sua economia permetterebbe. In secondo luogo, come fece l’Urss, la Cina sta elargendo prebende, sotto forma di aiuti, a governi che non le danno alcun ritorno economico o geostrategico (leggasi anzitutto Venezuela e piano per l’Africa) con lo scopo di aumentare il suo prestigio e atteggiarsi a superpotenza. In entrambi i casi vengono sottratte risorse preziose a welfare, istruzione e sanità che rimangono per lo più inesistenti.

 

La crescita del pil degli ultimi decenni ha fatto del Partito comunista e delle sue manie di grandezza il prezzo necessario per avere stabilità e prosperità. Tuttavia con un’economia in continua contrazione e con la guerra commerciale che alza il costo della vita, la classe media si riscopre riluttante a pagare per la sete di grandeur dei suoi leader. Uno slogan apparso sui muri di Pechino il giorno in cui l’Amministrazione americana ha imposto i dazi su acciaio e alluminio recita: “Il popolo cinese è disposto a sopportare sofferenze e deprivazioni, sempre si stringerà intorno al suo governo in tempi difficili”. A quarant’anni esatti dalle riforme che hanno fatto ricca e grande la Cina, il Partito comunista si dice disposto a sacrificare la classe media per fronteggiare gli Stati Uniti. La reazione all’ennesimo show di propaganda propinato per l’inizio delle scuole impone così una domanda: sarà disposta la classe media a lasciarsi sacrificare?

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