Il post elezioni e lo spasso dell'Italia delle emergenze tarocche

Al direttore - Vabbè che la Raggi è più ubbidiente ma ora le Olimpiadi invernali a Roma no eh?

Giuseppe De Filippi

 


 

Al direttore - Per cinquant’anni ci hanno spiegato che il Pci non poteva governare in Italia per motivi di alleanze e di equilibri internazionali. Aldo Moro, quarant’anni or sono, pagò con la vita il tentativo di avviare il superamento di questo divieto. Quanto al Pci, dopo la caduta del Muro di Berlino, dovette persino cambiare nome. Il 4 marzo hanno vinto le elezioni forze politiche ostili alla Nato e favorevoli alla Russia di Putin. Si tratta di problemi che hanno implicazioni un po’ più gravi del pur deplorevole proposito di azzerare la riforma Fornero. Ma nessuno si è preso la briga di sottolineare tali aspetti. Al posto del presidente Mattarella andrei a cercare negli archivi del Quirinale se è rimasta una copia del Piano Solo.

Giuliano Cazzola

 


 

Al direttore - Non riesco a capire perché non si sia ancora formato un governo M5s e Lega. Cosa c’è di sbagliato se si attua la volontà del popolo sovrano? Tutte le divergenze le vorremmo vedere su proposte, su questioni e programmi, dove (per fortuna) ognuno può votare o non votare, non certo sull’incapacità di organizzare le poltrone. Ogni cittadino quotidianamente vive, anzi, convive, talvolta anche sotto lo stesso tetto, con altre persone che hanno idee e orientamento politico diversi, la capacità di governare sta, appunto, nel trovare il giusto equilibrio su comuni interessi, come può essere il bene della casa. Insomma, due forze politiche possono coincidere o non coincidere convergendo per il bene del paese.

Giovanni Negri

 


 

Al direttore - Leggo con piacere sul Corriere della Sera di lunedì che Milena Gabanelli, e immagino anche il giornale per il quale scrive, improvvisamente hanno scoperto che no, non è vero. L'Italia non è un paese insicuro e non è un paese a rischio sicurezza: “Rispetto al 2016, gli omicidi sono diminuiti dell’11,2 per cento, le rapine dell’8,7 per cento, i furti del 7 per cento”. Gabanelli dice che questi numeri sono offerti “in anteprima” dal Corriere. Ma in realtà sono i numeri disponibili da mesi sul sito del ministero dell’Interno. Sono aperti al pubblico. A tutti. Ma il fatto che la “verità” sull’Italia venga raccontata non prima ma dopo la campagna elettorale ci dice molto su un fatto credo non contestabile: quando lo scontro elettorale è forte, l’unica Italia che può essere raccontata senza il rischio di ricevere un vaffa è quella percepita, non quella reale.

Marco Martini

 

E’ così. Ma c’è di più. Sono già sette giorni che in Italia nella rappresentazione mediatica ci sono alcune non emergenze che non esistono più. L’emergenza migranti. L’emergenza corruzione. L’emergenza voto di scambio. L’emergenza della politica collusa con la mafia. L’emergenza della politica collusa con la camorra. L’emergenza inciucio. L’emergenza sicurezza. Tutto sparito, nella Repubblica dei Pif.

 


 

Al direttore - L’Italia che redime ha battuto l’Italia riformista. Era nell’aria. Il populismo è un fenomeno che ha il vento in poppa un po’ dovunque e non è certo da oggi che in Italia “los redentores” si contendono i fedeli. I grillini, si sa, sono una pagina dell’album di famiglia della sinistra italiana, ma anche la destra non si è mai fatta mancare nulla: oggi Berlusconi è certo molto meno antisistemico e ben più costituzionalizzato di un tempo, ma ne è passata di acqua sotto i ponti; e perfino gli schiamazzi populisti della Lega sono sussurri rispetto a quando si parlava del Veneto come se fosse l’Ulster. Insomma, dal tramonto della Prima Repubblica sul nostro paese si sono abbattute violente ondate populiste. Al punto che la lotta politica tra soggetti che si riconoscono legittimità ha ceduto il passo alla guerra di religione tra tra popoli omogenei (dal Popolo viola all’Esercito di Silvio) trasformando il bipolarismo degli ultimi vent’anni in una guerra di trincea tra nemici convinti di possedere il monopolio della virtù. A soffrirne è stato il tessuto istituzionale del paese, esposto ai feroci colpi degli uni e degli altri. Michael Mandelbaum narra che la nonna (che emigrò negli Stati Uniti dall’Europa dell’est nella prima parte del secolo scorso) una volta gli raccontò del dibattito a tre tra i candidati a sindaco nella città di New York. Dopo che il repubblicano e il democratico ebbero parlato, il candidato socialista cominciò ̀il suo discorso con queste parole: “Potete credere a quel che dicono i miei avversari. Sono sinceri. Quando il democratico vi dice che il repubblicano è inadeguato, gli potete credere. E quando il repubblicano vi dice che il democratico non vale niente, potete credere anche a lui”. Insomma, gli italiani (non diversamente dagli americani) hanno finito per credere a quel che berlusconiani e antiberlusconiani, comunisti e anticomunisti, hanno detto gli uni degli altri, col risultato che la considerazione per la politica è caduta ai minimi storici. E’ finita che, come sostiene Steve Bannon, lo stratega che ha portato Donald Trump alla Casa Bianca, le elezioni del 4 marzo hanno trasformato l’Italia nel “centro del mondo in rivolta” e che di partiti espressione della “rivolta dei disagiati” in Italia ce ne sono addirittura due. La Lega ammira la Russia autocratica di Putin e il governo nazionalista ungherese; il M5s coltiva gli istinti antiliberali che abbondano nella pancia del paese e somiglia sempre più ai populismi sudamericani, con l’identica pretesa di incarnare il Bene e di possedere il monopolio della virtù. E tuttavia la convergenza tra i due vincitori (“espressioni diverse dello stesso fenomeno” dice Bannon) è nei fatti. Ci sono due vincitori perché ci sono due Italie ma, come ha scritto Giovanni Innamorati, “tale contrapposizione è un motivo in più per dare vita a un governo di tutte le forze che hanno vinto il referendum del 4 dicembre. Avrebbero l’opportunità storica di unificare queste due Italie”. Che poi questa alleanza “naturale” sia in grado di produrre qualcosa di buono per il paese, ovviamente, resta da vedere. Va detto però che Matteo Renzi era riuscito a sottrarre fedeli ed ossigeno al populismo per traghettarli verso quella “big tent” che poteva stabilizzare il sistema. Ma per vincere doveva tenersi stretto il patto del Nazareno. La rottura con Forza Italia ha reso impossibile l’approvazione della riforma costituzionale e, sciupata l’ultima opportunità di riformare il sistema esistente per renderlo di nuovo credibile, tanto il Pd che Fi sono andati a sbattere contro il muro. Contro Renzi, si sa, si è scatenata una guerra senza quartiere (e ancora una volta ha vinto la “levelling coalition”), ma di errori Renzi ne ha fatti parecchi. Secondo Silvio Berlusconi “a Renzi va riconosciuto il merito di aver chiuso con la tradizione comunista del suo partito, ma ha trasformato il Pd in una scatola vuota che si riempie solo con aspirazioni di potere”. E c’è del vero. Ora la polarizzazione tra populismo illiberale e liberalismo obbligherà il Pd a fare i conti con la realtà (e probabilmente a superarsi) e a prendere atto che la stagione renziana non è stata una parentesi da archiviare in fretta. Si tratta, piuttosto, di riempire di contenuti quella scatola, di provare, cioè, a ricostruire un partito seriamente riformista (meno di metà del 4 per cento degli italiani che hanno votato Sì al referendum hanno votato Pd il 4 marzo), in grado di combattere un sistema di valori antitetico alla modernità; quel male che, secondo il premio Nobel Edmund Phelps, affligge le società occidentali: non l’assenza di opportunità di fare profitto, o qualche omissione del settore pubblico (come ponti o strade che non sono state costruite), “ma il declino dei valori moderni che avevano diffuso il desiderio di innovare”. Di Maio e “los redentores” con la sinistra moderna non hanno mai avuto niente a che fare.

Alessandro Maran

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