Black Vagina power! La minoranza femminista esclusa dalle femministe

Simonetta Sciandivasci

Perché il video di Pynk, il nuovo singolo di Janelle Monàe, è illuminante

Dimenticate, se potete, quelle noiose, sciatte, frigide papaline rosa a forma di vagina – pussyhat – con cui si incappucciarono le donne in marcia contro Trump, nel gennaio del 2017. Date il benvenuto invece ai pussypant, quelli che Janelle Monàe indossa nel video del suo ultimo singolo, Pynk. Meritano di finire nella top five dell’iconografia della vagina, tra l’Origine del mondo e quella scena di Parla con lei di Almodovar, quando un tizio si rimpicciolisce e se ne va ad abitare per sempre tra le gambe della sua fidanzata. Nel video di Monàe, però, non solo non ci sono maschi, ma neanche c’è il pensiero dei maschi e infatti l’atmosfera è parecchio rilassata, soft e sexy, ma è un sexy più politico che sensuale. “A tutte le ragazze che necessitano di un monologo che non ha Vagine” ha scritto su Twitter, lanciando il video, Tessa Thompson, l’attrice che in Pynk prima sbuca tra le gambe di Janelle mentre canta “rosa come la lingua che va giù, come la verità che non puoi nascondere” e poi dà un colpetto su una schiera di culetti che sculettano dentro mutandine ordinari.

 

 

Diversamente da quello che sembra, l’autoerotismo e il sesso lesbico non sono il punto, e nemmeno l’assenza maschile lo è: questi sono dettagli, piacevoli contorni. Il piatto principale è la Black Vagina, la vagina delle nere e delle donne delle minoranze, quelle che il femminismo bianco statunitense non smette di estromettere – tranne che in qualche forzata inclusione teorica che soddisfi le prescrizioni del femminismo intersezionale, il quale richiede di intervenire non solo sulle discriminazioni prodotte dal genere, ma pure su quelle derivanti da razza, classe sociale, etnia, religione, età, disabilità. E’ per questo che si sono incazzate in molte, quando tra le vittime di Weinstein non comparivano nere, o asiatiche, o indiane native americane. E’ per questo che Eve Ensler, l’autrice de “I Monologhi della Vagina”, da drammaturga del “più grande pezzo di teatro politico del decennio” (così scrisse il New York Times nel 2006) che portava in scena il racconto del menarca, dello stupro, dell’orgasmo, della masturbazione, del parto, è poi diventata il simbolo della discriminazione del femminismo borghese delle donne bianche statunitensi. Tant’è che qualche anno fa, per dimostrare di aver imparato la lezione, ha detto a Vice di aver provveduto, poiché non tutte le donne hanno la vagina, a rinnovare il suo testo con monologhi di transgender e, in generale, che “non c’è più spazio per un femminismo che non sia intersezionale”. A giudicare dalle reazioni a Pynk, invece, quello spazio c’è eccome, e sta dentro una fortezza così inespugnabile che il solo modo per chi sta fuori è costruirsene un’altra tutta per sé. Pynk è il Monologo della Black Vagina, e la sua provocazione e la sua sfida è una questione tra donne. Il sesso non c’entra (il sesso non c’entra più, facciamocene una ragione: né quando non lo vediamo né quando ce lo spiaccicano in faccia). Il Guardian ha appena pubblicato uno studio sulle copertine delle riviste di moda inglesi: è venuto fuori che, nell’ultimo anno, delle 214 copertine di 19 riviste, una donna di colore è apparsa solo 20 volte. E anche se sulla prima copertina di Vogue, con la nuova direzione, c’è finita Adwoa Aboah, la “modella femminista più influente del mondo”, anche se le redazioni si sforzano di mondare il razzismo percepito obbedendo alle quote, le pubblicazioni di riviste dedicate alle nere si moltiplicano. E questa è una scissione che richiede, per la simbologia del suo empowerment e del suo orgoglio, un’immagine imbattibile: una vagina nera. Incazzata, carnosa, orgogliosa, primordiale e fichissima.

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