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Derby di Milano, ritorno al futuro

Umberto Zapelloni

Dopo anni di stracittadine tristi e con obiettivi minimi, finalmente Inter-Milan torna a essere una sfida europea. C’entrano le nuove proprietà, gli allenatori e una città che non guarda al passato

Dal derby dell’Expo al derby dell’Olimpiade il passo è più breve di quanto si possa pensare. Milano, in fin dei conti, è l’unica città italiana che sa stare al mondo con la sua moda, la sua musica, il suo design, i suoi grattacieli, la sua cucina. Dici Milano e pensi ad Armani, ai cuochi che la riempiono di stelle, alla Scala, al Salone del Mobile, alla torre UniCredit o a quella Allianz che ha la Madonnina sul tetto. Ma Milano, una volta, esportava soprattutto il suo calcio. Ha cominciato negli anni Sessanta, quelli del boom, della Fiera Campionaria, delle partite in bianco e nero che bucavano la nebbia con i gol di Milan e Inter, le prime e le ultime a portare in Italia la Coppa dei Campioni quando ancora non si era evoluta in Champions League. Era una Milano che aveva le fabbriche in centro, i taxi verdi e neri, i tram singoli e non lunghi come treni. San Siro non era ancora stato dedicato a Giuseppe Meazza e aveva solo due anelli, ma vedeva rincorrersi sul suo prato Rivera e Mazzola, Rocco ed Herrera, Maldini e Trapattoni, Facchetti e Picchi, Suárez e Domenghini, Prati e Altafini, Sarti e Cudicini e in tribuna Rizzoli e Moratti. La Milano che lavorava era anche una Milano che vinceva. Quattro Coppe dei Campioni tra il 1963 e il 1969. Gli anni d’oro. Non era ancora la Milano da bere, ma era una Milano che brindava con il suo calcio da esportazione, come il risotto giallo, il panettone o la cotoletta pronunciata con la “e” molto larga, alla milanese appunto. Il derby era il centro del mondo ancora prima che arrivassero Silvio Berlusconi e Massimo Moratti, Sacchi e Capello, Mourinho e il triplete. Sette Champions da una parte e tre dall’altra: dieci in tutto.

  

Per migliorare quel primato cittadino c’è voluto un Real da record, tale da far schizzare Madrid in testa alla graduatoria delle città europee più vincenti nel pallone. E, guarda caso, il sorpasso è andato in onda proprio nella finale giocata a Milano due anni fa, nella casa del Milan e dell’Inter. Londra ha una decina di squadre, Madrid ha il Real e l’Atletico, Manchester non ha né i Beatles né i Rolling Stones e può accontentarsi di City e United, di Guardiola e Mourinho, ma la Champions senza le milanesi è come la musica senza la Scala, Romeo senza Giulietta, il Rinascimento senza Leonardo per parafrasare il discorso che Aleksander Ceferin, presidente dell’Uefa, ha tenuto a inizio settimana davanti a Mattarella nel giorno dei festeggiamenti per i 120 anni di una Federcalcio ancora senza presidente per qualche giorno. Esageriamo. Ma in fin dei conti ai milanesi è sempre piaciuto esagerare un po’. Fare i ganassa, come diciamo da queste parti. Sentirsi capitale economica e morale. Farsi bella con la pubblicità e gli archistar. Riscoprire i Navigli per non perdere il confronto con il Tevere o l’Arno. Candidarsi a ospitare le Olimpiadi invernali grazie alle montagne prese in prestito dalla Valtellina e dalle Dolomiti. Milan l’è un gran Milan anche adesso che i cinesi si sono comprati l’Inter, gli americani il Milan e i fondi del Qatar i grattacieli. Ha le idee, ha la voglia di lavorare, oltre a quella di mettersi in mostra.

 

Sedici finali di Champions, nove nei 22 anni di ricchezza esagerata. Una storia antica, un arcobaleno di ricordi, ma anche un senso di grandezza che pochi in Europa possono vantare. Le sue squadre oggi non giocano ancora per lo scudetto, giardino privato in cui difficilmente la Juventus, che è di Agnelli più che di Ronaldo, farà entrare qualche ospite indesiderato. Ma Milano dopo tanti anni è lì a bussare con tutte e due le sue squadre alla Grande Europa. L’Inter l’ha già ritrovata e la sta pure incantando, il Milan è sulla strada per non non smarrirsi più tra le scatole cinesi e certi “fassonismi” fantasiosi. Il derby di quest’anno, il più ricco di sempre per il prezzo dei biglietti che definire esagerato non è poi così sbagliato, è il derby della rinascita, del ritorno sul palcoscenico della Scala del Calcio, quello stadio che il Times una volta descriveva come “un’astronave illuminata”. È un derby che guarda al futuro perché c’è la sensazione che quando un giorno, più lontano che vicino, la Juve scivolerà e interromperà la sua serie vincente, ad approfittarne sarà una delle milanesi e non le altre pretendenti che l’hanno sfidata senza successo negli ultimi anni. È un derby da vivere guidando una De Lorean, la macchina di Ritorno al futuro, magari pensando a un passato che Milano vorrebbe riproporre nel suo domani.

 

Per gli statistici sarà il numero 222, il 169esimo di campionato, per gli allenatori una partita in cui non sarà necessario mettere un carico extra nella testa dei giocatori, per i tifosi l’occasione per esporre delle coreografie che solo a Genova ogni tanto riescono a dipingere ancora più belle. Gli esperti non hanno individuato una vera favorita, anche se l’Inter sembra più strutturata, costruita per raccogliere già in questa stagione. “Il Milan gioca meglio”. “L’Inter ha più carattere”. Se la sbrigano così. Il Milan è bello come qualche Roma di Spalletti. L’Inter è ringhiosa come la vita in campo di Gattuso. Scherzi del destino. Sotto quel Ringhio c’è di più, ormai è una certezza. Ma anche dietro al carattere di Spalletti c’è la ricerca di molto altro. Lo racconta la sua storia. È un tango derby perché Higuain e Icardi ci arrivano con una doppietta a testa prima della sosta che ci ha fatto riscoprire una Nazionale divertente. Nessuno ha segnato quanto loro negli ultimi 5 anni della Serie A: Higuain è già a quota 115, Icardi a 113. Sono loro gli uomini copertina del Boca-River alla milanese. Sfidanti a San Siro e a Buenos Aires visto che la maglia numero 9 dell’Albiceleste è una sola. Hanno fame anche con la pancia piena di gol. Sono così diversi (il Pipita fa giocare meglio la squadra, Maurito è letale in area) che alla fine sono uguali perché tutti e due aggiungono valore, aumentano le ambizioni. Fanno l’effetto della ginger beer nella vodka. Il derby non sarà soltanto cosa loro, ma anche una sfida tra Suso e Perisic, gli uomini della fascia, tra Biglia e Brozovic, i creativi di centrocampo, tra Nainggolan e Kessié, le bevande energetiche, tra Romagnoli e Skriniar, i muri della difesa come Donnarumma e Handanovic, tra Cutrone e Lautaro, i baby face. Gli interisti dicono che non c’è un milanista che vorrebbero nella loro squadra. I milanisti sorridono e pensano che forse un Suso o un Higuain farebbero comodo anche a quelli là. L’attesa è stata lunga causa pausa da Nazionale, molto vissuta sui social e nelle interviste a distanza. Gli sfottò viaggiano veloci come il terzo grattacielo che sta crescendo a City Life. Milano siamo noi, oggi la si canta a reti unificate, da domenica sera diventerà canzone per una fazione sola. Una rosa nerazzurra da 643,5 milioni di euro contro una rosa rossonera da 534 come hanno calcolato gli esperti di calcio mercato della Gazzetta dello Sport: un derby che vale più di un milione. Ma parlare di danè è così volgare… Sì, dappertutto, ma non a Milano che non ha il Vaticano, ma la Borsa. Quello che conta passa da lì, da quel listino che prende forma e valore davanti al dito medio di Cattelan. Quello sì davvero volgare, ma ormai entrato a far parte del paesaggio e dei selfie di giapponesi e cinesi che hanno appena finito la loro coda da Starbucks.

 

Guardi la classifica per città e, prima della nona giornata, leggi: Torino 36, Roma 29, Milano 28, Genova 26 (Milan e Genoa hanno ancora un recupero…). Allora ti chiedi perché stiamo scrivendo tutto questo? Perché non dobbiamo fermarci ai numeri. Mai, a meno che non siano quelli di un bilancio. Il milanese non è più imbruttito, almeno non più come negli anni scorsi. L’aria che si respira in città è quella che ha respirato Messner per una vita, non quella rilevata dalle centraline antismog, sentinelle contro un inquinamento figlio di vecchi impianti di riscaldamento più che di vecchie auto. Non è ancora aria da alta classifica, per quella ha l’esclusiva la Signora in bianconero. Ma è aria che profuma di rivincite italiane e d’Europa, di Champions. Inter e Milan non la giocano più insieme dal 2012. Nel 2003 si erano scontrate in semifinale, nel 2005 nei quarti. Memorie di un passato che tarda a ritornare. C’erano Moratti e Berlusconi. Un altro calcio. Un’altra vita. Sono arrivati anni addirittura senza Europa, senza coppe, se non quelle del nonno conservate nel freezer. Milano si è purificata. L’Expo l’ha lanciata in orbita. L’ha rimessa sulle agende dei Gran Tour dei viaggiatori del mondo. È una città viva, la più verticale d’Italia tanto che in verticale ci ha messo pure il Bosco. E la scalata l’hanno ripresa anche Inter e Milan. Ci mancheranno le barzellette di Berlusconi (oggi le racconta a Monza) e le battute di Prisco; le giocate di Kaká, i gol di Shevchenko; il veleno di Lorenzi, gli spilli di Altobelli; il Ronaldo, quello vero non l’imitazione (ben riuscita) portoghese. Ritroveremo in tribuna le facce pulite di Zanetti e Maldini, simboli della grandezza che fu, lasciapassare per il futuro che verrà. Sono due squadre dal grande passato, per molti anni addirittura grandissimo, ma per la prima volta dopo tanti anni sono anche due squadre con il futuro all’altezza dei sogni. È un peccato che dietro ci siano cinesi e americani, ma in un mondo che va a mille all’ora era forse inevitabile. Parigi cerca gloria con i soldi degli sceicchi, il Chelsea con quelli russi, a Manchester la Brexit non ha certo cacciato le proprietà straniere. Solo a Madrid, Barcellona o Monaco (quella di Baviera) possono permettersi di fare da sole. Milano non può fare la stupida stasera. Non può stropicciare il suo nasino se al posto delle grandi famiglie oggi ci sono le grandi potenze. Cina contro Stati Uniti, sembra un film di James Bond ai tempi della guerra fredda. In fin dei conti l’importante è vincere e non partecipare. E pazienza se chi ha inventato le Olimpiadi la pensava in un altro modo. D’altra parte a monsieur De Coubertin non sarebbe mai venuto in mente di poter un giorno assegnare a Milano i Giochi della neve.

 


 

Umberto Zapelloni scrive di sport dai tempi del liceo, quando ha cominciato a imbrattare il giornalino della scuola. Da lì è passato a Superbasket e al Giornale di Montanelli dove per 16 anni ha scritto di calcio, basket, Olimpiadi e Formula 1, di cui era diventato inviato sulle piste di tutto il mondo. Nel gennaio 2001 è arrivato in via Solferino prima al Corriere della Sera dove è presto diventato responsabile della redazione Sport e Motori. Nel 2006 Carlo Verdelli lo ha poi portato con sé alla Gazzetta dello Sport dove è stato vicedirettore fino alla primavera scorsa. Attualmente continua a scrivere libri e collabora con Sky, Mediaset, Radio 24.

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