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Salvini preferisce Mattarella a Di Maio

Claudio Cerasa

Le sportellate tra i vicepremier e il wrestling che ora diventa pugilato. Ci vuole uno psichiatra del popolo per capire l’amore in crisi tra il leader del M5s e della Lega. Perché le elezioni anticipate convengono sia alla Lega sia al Quirinale

Amarsi un po’ aiuta. Fino a qualche giorno fa, le botte erano solo parte di una recita, di una sceneggiata, di una consapevole divisione dei ruoli tra chi, come Luigi Di Maio, aveva la necessità di dimostrare di essere l’unico argine allo strapotere della Lega e chi, come Matteo Salvini, aveva invece la necessità di dimostrare di essere l’unico argine all’immobilismo grillino. Fino a qualche giorno fa, insomma, le botte rientravano all’interno di una commedia, di una finzione simile al wrestling, dove i due vicepremier, prima ancora dei loro partiti, giocavano la parte dei leader unici della nazione, entrambi un po’ di lotta e un po’ di governo, uniti in modo indissolubile da una visione del mondo simmetrica, da un comune interesse a rimescolare le alleanze in Europa, a considerare l’isolamento una giusta appendice delle politiche antisistema, a spacciare per austerità i pilastri della credibilità e a portare avanti una politica di rimozione del passato perfettamente sintetizzata nel contratto eseguito dall’avvocato-notaio del popolo Giuseppe Conte.

 

Oggi però per la prima volta dall’inizio della legislatura la finzione è diventata realtà, la post verità è diventata verità, i litigi tra Di Maio e Salvini (ieri il primo ha dato dell’irresponsabile al secondo, “trovo grave che si prenda sempre la palla al balzo per minacciare di buttare via tutto: dov’è il senso di responsabilità?”, il secondo ha dato dell’incapace al primo, “la crisi esiste solo nella testa di Di Maio, farebbe bene a controllare che il reddito di cittadinanza non finisca a furbetti, delinquenti ed ex terroristi”) sono diventati qualcosa di diverso da una recita. E per quanto non basti un litigio per far finire un amore non si può più negare che la domanda giusta per inquadrare la legislatura oggi sia una e solo una: quando finirà? Provare a rispondere a questa domanda utilizzando le tradizionali chiavi di lettura del retroscenismo è una missione quasi impossibile, perché sia Salvini sia Di Maio usano anche nei rapporti personali la tecnica del mentire sapendo poi di poter smentire. Per questo, più che un avvocato del popolo o un notaio del popolo servirebbe forse uno psichiatra del popolo capace di rispondere a un’altra domanda semplice relativa ai tre protagonisti della politica dei prossimi mesi, ovvero Matteo Salvini, Luigi Di Maio e Sergio Mattarella: c’è ancora una qualche ragione che giustifichi la sopravvivenza del governo?

 

Il potere è un collante formidabile e nella storia d’amore tra il leader della Lega e quello del M5s la possibilità di spartirsi tutto ciò che c’è da spartirsi, almeno fino alle nomine delle partecipate del 2020, è ciò che potrebbe far rinascere, dopo le europee o persino dopo Pasqua, la scintilla tra i due vicepremier. Ma la verità è che all’interno degli equilibri del cambiamento l’unico a osservare con preoccupazione le elezioni tra Mattarella, Salvini e Di Maio oggi è il leader del Movimento 5 stelle. Il M5s perde quasi ininterrottamente dal 4 marzo del 2018 un punto al mese nei sondaggi e non ci vuole molto a capire perché non sia invitante tornare a votare con un’economia che non decolla e un trend verso il basso. Ciò che può risultare più interessante da analizzare è invece la ragione per cui il voto anticipato può rappresentare un’opzione da cavalcare tanto per il leader della Lega quanto per il presidente della Repubblica. E’ possibile che Salvini oggi sia sincero quando dice che non ha intenzione di lavorare a una crisi di governo, ma è difficile che di fronte a un risultato importante alle europee il Truce possa permettersi di accettare di avere un governo debole in concomitanza di un consenso forte.

 

Per Salvini, andare a votare presto, che è quello che gli consiglia la parte più ragionevole della Lega, cioè il partito della regione, con i Giorgetti, i Fontana, gli Zaia, significherebbe non solo capitalizzare con i voti – e non con i rimpasti – ciò che ha raccolto nelle urne, ma anche avere la forza di avvicinarsi alla prossima legge di Stabilità con le spalle coperte di chi ha la possibilità di prendere anche decisioni non di carattere elettorale: come dimostrano la storia del Pd di Renzi e quella del M5s di Luigi Di Maio, una volta fatto il pieno di voti il gioco di essere sia all’opposizione sia al governo semplicemente non funziona più. Nel triangolo degli equilibri politici, degli amori e degli odi della politica del cambiamento, resta infine il tassello del presidente della Repubblica. E la ragione per cui Mattarella considera da tempo le elezioni anticipate più un’opportunità che un rischio sono legate a un ragionamento a metà anche tra la politica e la psicologia: il voto anticipato permetterebbe di certificare l’incompatibilità tra il populismo e il governo, un qualsiasi altro governo è destinato a fare meno danni di quello attuale e un nuovo Parlamento degrillizzato potrebbe gestire con più ordine la successione al Quirinale del capo dello stato. Il problema di Salvini e Di Maio non è solo l’amore che non c’è, bensì ciò che l’amore che fu ha prodotto in termini di risultati per l’Italia. La data del 22 settembre, nel dubbio, al Quirinale, è stata già cerchiata di rosso.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.