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Non esiste un salva governo

Claudio Cerasa

Oltre le polemiche in Cdm. Gli scazzi tra Salvini e Di Maio nascono dal tentativo disperato di Lega e M5s di nascondere il fallimento del contratto di governo. L’Italia ha la febbre e il virus è il populismo. Occhio allo spread: c’è una novità

Nel pomeriggio di ieri, poco prima di un Consiglio dei ministri da pre crisi di governo, gli esponenti dell’esecutivo non impegnati a litigare su qualsiasi tema possa tenere distante dal dibattito pubblico i problemi dell’economia hanno compulsato con attenzione e preoccupazione sui propri monitor un numero capace di fotografare la salute del governo meglio di un qualsiasi intensissimo selfie di uno dei due vicepremier. Il numero in questione è “264” e coincide con il differenziale di rendimento tra il Btp decennale italiano e il titolo tedesco di pari durata. Non si tratta di un numero record per il governo, che a novembre aveva portato lo spread a un passo da quota 330, ma si tratta di un numero significativo per un’altra ragione. Per stessa ammissione di alcuni ministri, in questa legislatura non era mai successo che lo spread risalisse in modo così costante (venti punti in dieci giorni) in assenza di una ragione politica scatenante. E per provare a capire la motivazione di questo fatto nuovo non basta registrare l’attesa nervosa degli osservatori finanziari rispetto alla decisione che verrà presa venerdì sera da Standard & Poor’s sul rating del nostro paese – qualora S&P dovesse declassare ancora il rating italiano lo porterebbe a una tacca dal livello spazzatura – ma basta mettersi comodi sulla propria poltrona, aprire gli occhi e ragionare su un problema la cui gravità in fondo è direttamente proporzionale agli scazzi tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini: il fallimento acclarato del cambiamento populista.

    

Se ci si presta un minimo di attenzione si noterà facilmente che i battibecchi quotidiani tra il leader della Lega e il leader del M5s non nascono mai con la logica della sana competizione tra due partiti di governo che fanno di tutto per intestarsi i buoni risultati del proprio esecutivo. Nascono semmai proprio per la ragione opposta, ovvero per parlare di un qualsiasi tema capace di mettere in secondo piano i risultati del governo. Il problema di Di Maio e Salvini non è la loro litigiosità ma è l’acclarata incompatibilità con la guida della settima economia più importante del pianeta di due partiti populisti che in undici mesi, grazie a quello che hanno fatto e non grazie a quello che non hanno fatto, sono riusciti a spingere la traiettoria dell’Italia sul piano inclinato della progressiva sfiducia. La febbre del nostro paese non è un’influenza passeggera ma è un malessere cronico che ha una precisa causa scatenante. L’Italia è un paese forse non in recessione (l’Istat dovrebbe confermare quanto già anticipato da Bankitalia, ovvero che i dati del primo trimestre del 2019 non sono di segno negativo) ma comunque in decrescita costante. E un paese con un alto debito pubblico che non fa nulla per crescere, che non sa creare lavoro, che usa le sue poche risorse per fini elettorali, che non si preoccupa di attrarre investimenti, che piuttosto che far abbassare le tasse le fa aumentare, che piuttosto che far diminuire i tempi dei processi li fa aumentare, in mancanza di un fatto nuovo (la crescita oppure la caduta del governo) è destinato a imboccare con una certa velocità una strada che rischia di farlo precipitare in uno scenario non troppo diverso da quello vissuto nel 2011, quando di fronte a un governo di piromani basta una scintilla improvvisa per incendiare il paese (nel 2011 la Lega era sempre lì).

     

Il fallimento non riguarda solo la sua traiettoria economica ma riguarda anche un altro lato del contratto relativo alla rivoluzione politica che avrebbe dovuto incarnare il cambiamento populista. Fino a oggi, il governo che avrebbe dovuto ribaltare come un calzino l’Europa, che avrebbe dovuto ribaltare come un calzino l’Italia, che avrebbe dovuto ribaltare come un calzino il deficit, che avrebbe dovuto ribaltare come un calzino i parametri di Maastricht, che avrebbe dovuto rimettere in discussione l’architrave dell’euro, che avrebbe dovuto ribaltare come un calzino la riforma delle pensioni, che avrebbe dovuto ribaltare come un calzino i mercati, che avrebbe dovuto ribaltare come un calzino le vecchie politiche sull’immigrazione, l’unica rivoluzione attiva che è riuscito a portare a termine è l’aver strappato alla Commissione europea uno 0,2 per cento di flessibilità sulla manovra del 2019 per realizzare due misure come il reddito di cittadinanza e la quota cento, le quali avranno un effetto recessivo e nel complesso hanno contribuito a creare sfiducia rispetto alla capacità che il nostro paese nei prossimi anni sia in grado di governare il suo debito pubblico. Non sappiamo quanto il governo reggerà, ma sappiamo che i litigi nel governo difficilmente potranno nascondere ancora a lungo quello che qualsiasi osservatore con la testa sulle spalle dovrebbe avere il coraggio di riconoscere osservando i risultati del populismo al governo: il contratto ha fallito. Può esistere forse un salva Roma. Ma non può esistere un salva governo. E dopo le elezioni europee sarà difficile non prenderne atto.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.