Il Giambellino fra ballate di Gaber e futuro

Un tempo quartiere di lotta e di ribelli, oggi a caccia di nuove identità

Uno scorcio del Giambellino

Uno scorcio del Giambellino

Milano, 27 novembre 2018 - E ora che sono spariti da un bel po’ i Cerutti Gino della ballata di Gaber, che gli amici al bar del Giambellino chiamavan drago (uno che “fiutava intorno che aria tira/ e non sgobbava mai”), soppiantati da altri tipi, con facce e storie multietniche diverse dal Gino di mezzo secolo fa, questo quartiere a mezz’ora dalla Madunina, nato operaio e comunista, ha perso la sua bussola.

E giace addormentato, quasi morto. Incapace di riconquistare una vera e propria identità. Eppure era un quartiere di lotta, «ribelle», nel bene e nel male. Qui il gruppo Luglio 60 si rese per primo protagonista di una scissione maoista all’interno del Pci, venendo per questo espulso; le prime riunioni delle Brigate Rosse fra la famiglia Morlacchi, Renato Curcio e Mara Cagol avvenivano alla trattoria Bersagliera in piazza Tirana); qui nasceva l’esperienza del Centro culturale Crud in via Tolstoy, il centro rionale di unità democratica inaugurato alla presenza di Grassi e Strehler.

E si potrebbe continuare con aneddoti e storie. Il Giambellino si è arreso, all’incuria, al degrado, con Aler che ne ha cerficato il disastro consentendo le occupazioni abusive e non intervenendo per anni - quasi trenta! - nella manutenzione di un intero stabile (non l’unico, certo) in via Vespri Siciliani 71 che fa parte del cosidetto «Quadrilatero» con via Bruzzesi, angolo Giambellino. Balconi che cadono a pezzi, intonaco scrostato. E va ancor peggio in via Bellini, davanti alla fermata della linea 98, ad un passo da una piazza Frattini sventrata dai lavori di M4 e spenta dalla chiusura dei negozi. Degrado, dicevamo. Per non parlare dei marciapiedi, inesistenti, in via Tolstoj, un tempo via commerciale di tutto rispetto. Ed è da qui che parte la riscossa, con i commercianti in prima linea, guidati da Pamela Coco, esperta in marketing e comunicazione, titolare di un negozio di abbigliamento, insieme ad alcuni residenti che credono valga la pena spendere energie in un progetto di questo tipo.

Una rete che parte dal basso, apolitica: fa capo all’associazione “La Fenice” (che vuol dire rinascita) che «si propone come promotore di un progetto pilota di innovazione sociale» in grado di migliorare il senso di appartenenza della comunità del Giambellino-Lorenteggio attraverso strutture e spazi di vita collettiva. Come? Attraverso progetti culturali e il recupero della memoria storica del rione. E una mappatura dei bisogni. Un quartiere multietnico, dove è venuto meno quel collante che un tempo era «assicurato dalle scuole e della fabbriche che non ci sono più», ricorda Dario Anzani, operatore della comunità Cooperativa sociale del Giambellino. Molte fabbriche si affacciavano su via Savona, come la Osram o la Siry Shamon che faceva lampade per l’Orient Express. Ieri (con il boom economico nel quartiere arrivano immigrati dal Veneto e dal Meridione) come oggi, il tema dell’immigrazione è centrale. Nel senso che una (ri)costruzione dell’identità passa necessariamente attraverso un legame forte con il tema delle migrazioni, «una continuità culturale nell’accoglienza agli immigrati», dice Jacopo Lareno, volontario del Laboratorio di quartiere Giambellino-Lorenteggio, urbanista. «La sfida è partire dalle scuole del territorio, Narcisi e Anemoni, per evitare che diventino veri e propri ghetti. E costruire reti in dialogo fra loro. Per evitare che il quartiere proceda a doppia velocità, come oggi». Due chilometri e mezzo separano piazza Napoli e piazza Tirana, gli estremi di via Giambellino e Lorenteggio. Ma dentro ci sono infiniti mondi, incomunicabili. Per ora.

 

 

 

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