Franco Loi e la strage fascista del 10 agosto 1944: "Difficile staccarsi da quell’orrore"

Il ricordo dell'artista e poeta, amico del figlio di Temolo, dell'eccidio in piazzale Loreto di una quindicina di partigiani 74 anni fa

Franco Loi

Franco Loi

Milano, 10 agosto 2018 - Sul piazzale Loreto giacevano una quindicina di partigiani assassinati. Un cartello umiliante, appeso al collo di uno di loro aveva la scritta “Banditi“. Tutto era straniante. Sotto gli occhi solo un atto di brutale efferatezza. Era il 10 agosto 1944. Franco Loi, grandissimo poeta e saggista italiano, era poco più di un adolescente. Ha 88 anni e va indietro nella memoria.

Che cosa ricorda di quel giorno?

«Quel mattino del 10 agosto 1944 mi ero alzato all’ora solita, per andare a scuola. Ero stato rimandato in tutte le materie, ad ottobre. Mussolini, quell’anno, era tornato alla severità scolastica. In cucina vedo mia madre che cerca di nascondermi il giornale, io le chiedo il motivo e lei per tutta risposta mi sollecita di far presto, di andare. “Mamma mostrami il giornale“, insisto. Lei cede e leggo che erano stati fucilati a piazzale Loreto 15 banditi. All’uscita da scuola io e un mio amico monarchico, ma antifascista, siamo andati in piazzale Loreto. Era una giornata di sole straordinaria, bella. Facendoci largo fra un gruppo di una cinquantina di persone abbiamo visto questa orribile scena: un mucchio di uomini ammonticchiati l’uno sull’altro, vicino allo steccato. E c’erano tre persone, staccate dal mucchio. Solo dopo ho saputo che uno era il papà di Sergio, e l’altro un suo compagno della Pirelli».

Sergio Temolo, l’amico di una vita...

«Lui abitava in via Casoretto e io in via Teodosio. Abbiamo fatto percorsi diversi ma non ci siamo mai persi di vista. E dopo quella mattina il nostro rapporto si è fatto ancora più solido. Credo moltissimo nell’amicizia».

Che cosa provò davanti a quei corpi ammonticchiati?

«Ero frastornato. Ho provato, come dire, un senso di sgomento. Ma anche di estraneazione. Ho riconosciuto anche un ospite della mia vicina di casa che aveva la faccia insanguinata e le braccia spalancate, dritte oltre la testa, come in un atto di estrema difesa. Una donna, che era davanti a me, vestita dimessamente con un fazzoletto in testa, pronunciò, lo ricordo ancora, solo poche parole: «Pôr fjö», poveri ragazzi; un milite la guardò negli occhi e disse: “Che cosa hai detto? Se lo ripeti ti faccio fare la fine di quei banditi“, e sputò verso i cadaveri. Non potevamo staccarci da quell’orrore. Sembrava che tutto attorno fosse finto, le case, i militi neri, i morti, perfino noi che insieme alla gente sembravamo figurine di carta. Giurammo che non avremmo mai dimenticato. Quel giorno, quando a casa mi dissero che l’uomo nel mucchio era il papà di Sergio, vomitai gli spaghetti al pomodoro che la mamma mi aveva preparato. Per un mese non riuscii più a dormire da solo. Avevo incubi terribili, troppo violenti i fatti di quel terribile agosto del 1944».

Fare memoria è importante?

«Sì tantissimo anche se sono sconfortato dai tempi che viviamo. Questa è una società in decadenza, che ha perduto il senso del dovere; la classe operaia non esiste più sostituita dalla tecnologia. Decadenza politica, ideologica. Siamo difronte ad una crisi economica e sociale di grande importanza».

Teme un ritorno al fascismo, magari in altre forme?

«Sicuramente assumerà altre forme. Dico solo che non ho fiducia nella politica. E non penso ad una forza in particolare. Potenzialmente sono tutti pericolosi. La politica oggi non si fa nell’interesse di tutti ma a favore dei poteri forti».

E i Cinquestelle?

«Rappresentano una parte del Paese che soffre. Cominciano adesso a stare nei Palazzi che contano. Vedremo».

Lei iniziò a fare politica nel Pci...

«Ma non durò a lungo. C’era un fanatismo religioso che non riuscivo ad accettare. Cossutta era segretario del partito a Milano. Già allora mi sembrava un fossile. Così nel 1954 consegnai la tessera anche se mia madre, a mia insaputa, mi ha pagato la quota per altri cinque anni».

E la poesia ci salverà?

«La poesia sfiora il sacro e dice troppe verità. C’è stato un tempo, tanti anni fa, in cui i miei versi circolavano. Poi il silenzio, il buio. É un’idea che mi sono fatto io, di essere scomodo. Dico troppe verità. Soprattutto mi colpiscono i silenzi di quanti oggi potrebbero fare di più».

Rimpianti?

«Non riesco più a leggere, a scrivere. Sono quasi cieco, affetto da nove anni da una maculopatia. Prevalgono le ombre. Ho provato a buttare giù dei versi su un taccuino...ma la scrittura è sbilenca, storta: è illeggibile!».

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