Commerciante ucciso ad Affori, per l'accusa la figlia è la mandante: "Può uccidere ancora"

Simona Pozzi avrebbe visto nel padre Maurizio un intralcio alla sua gestione folle del patrimonio della famiglia

Il negozio di Maurizio Pozzi, il commerciante ucciso (Newpress)

Il negozio di Maurizio Pozzi, il commerciante ucciso (Newpress)

Milano, 30 agosto 2018 -  «Simona Pozzi può uccidere ancora». Pericolo di reiterazione del reato, ne è convinta l’accusa che ha chiesto, a maggio, al gip Franco Cantù Rejnoldi, e richiesto nei giorni scorsi, che la 45enne venga messa in carcere per l’omicidio de padre Maurizio, 69 anni, commerciante di scarpe con un negozio ad Affori.

La colpa dell’uomo sarebbe stata quella di rappresentare un intralcio alla sua gestione folle del patrimonio della famiglia. La donna in pochi anni aveva accumulato debiti per oltre 800mila euro: non sarebbe bastata l’asta della casa di via Carli, quella in cui si è consumato l’omicidio, per coprire una parte delle spese. I debiti che la Pozzi accumulava, all’insaputa dei genitori, chiedendo prestiti a tutto il quartiere, negli ultimi tempi erano lievitati ancora e presto sarebbe stato messo all’asta anche il resto del patrimonio immobiliare della famiglia, negozio di scarpe compreso. I debiti e le liti furiose, secondo l’accusa, restano il movente principale di un delitto meditato a lungo e spietato nell’esecuzione. La Pozzi nel pomeriggio dell’omicidio si era procurata un alibi di ferro. Era rimasta in negozio tutto il giorno e aveva fatto scontrini che riportavano l’ora in cui in via Carli si stava consumando l’omicidio.

Più difficile, quindi, per gli investigatori della Omicidi diretti da Achille Perrone, coordinati dal pm Antonia Pavan e dall’aggiunto Alberto Nobili, dimostrare che la donna era stata la mente dell’assassinio, la mandante. Il quadro che la inchioda è indiziario, ma pesante. Le liti fra padre e figlia poco prima dell’omicidio, come dimostrano i messaggi scambiati su Whatsapp, si erano fatti pesanti ed espliciti, la donna confessava all’ex marito di somministrare al padre pensati tranquillanti per tenerlo sempre sedato e renderlo innocuo. E ancora: l’assassino il pomeriggio del 5 febbario di due anni fa, dopo aver ucciso, chiuse la porta dell’appartamento a chiave. Le uniche due persone che ne avevano una copia erano la moglie e la figlia. Ma soprattutto Simona in altre due occasioni aveva già tentato di uccidere l’uomo con un primo agguato e poi con il veleno nella minestra.

Tentativi grossolani di cui era stato incaricato il boss della ’ndrangheta Pasquale Tallarico che poi, in occasione di un successivo arresto nel 2017, avrebbe raccontato tutto agli inquirenti. È sulla base di questi elementi che l’accusa aveva, già a maggio, chiesto il carcere per la Pozzi, un quadro logico e inequivocabile per i pm. Insufficiente per il gip: «Logico sì, ma non fattuale». L’avvocato della donna, Franco Silva, ha basato proprio su queste parole «non fattuale» il ricorso contro la pronuncia del Riesame che la vorrebbe in carcere. Intanto, nelle more della decisione della Cassazione per l’omicidio e della pronuncia del gip per il tentato omicidio, Simona Pozzi è libera.

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