Le bimbe spose e le altre schiave: i casi delle donne aiutate e rinate

Milano, mobilitazione contro i soprusi

Una famiglia del Bangladesh

Una famiglia del Bangladesh

Milano, 29 maggio 2018 - Dagli insulti alle minacce, dalle botte alle violenze sessuali. Non ci sono solo le “spose bambine”. Tante, troppe sono le donne schiave di mariti padroni. C’è il caso di Amal, nome di fantasia, donna egiziana quarantenne sposata da 20 anni: il coniuge non voleva neppure che imparasse l’italiano. Poteva uscire di casa solo per la spesa e per piccole commissioni. A un certo punto lei ha trovato la forza di reagire e ha chiesto aiuto all’associazione Progetto Aisha, nata per contrastare la violenza e la discriminazione contro le donne. Ora è riuscita a conquistare una vita “normale”. Le donne “sepolte vive” che si rivolgono al Progetto Aisha sono tante. E la vicepresidente Amina Natascia Al Zeer le ricorda tutte: «Tra coloro che mi sono rimaste più impresse c’è una donna egiziana che nonostante i suoi guai non ha mai smesso di sorridere».

Non poteva nemmeno uscire di casa. «Le era stato vietato persino di aprire la porta al tecnico del gas per la lettura del contatore. Molti uomini utilizzano il ricatto economico. Mantengono la donna ma la considerano di loro proprietà«», spiega Al Zeer. Tante, poi, hanno timore a chiedere aiuto non solo perché non hanno un reddito proprio ma anche perché terrorizzate all’idea di perdere i figli in caso dovessero essere trasferite in una comunità protetta. «Non è così: a tutte diciamo che c’è sempre una soluzione, di farsi avanti. Una donna filippina, sposata con un pakistano, ha affrontato un percorso e ora ha vive in una casa popolare coi figli. E, cosa che non avrei mai pensato, anche il marito a un certo punto si è rivolto a noi per avere un aiuto».

Problemi anche nelle «coppie miste: «Una ventenne italiana, studentessa, sposata con un marocchino, ci ha chiesto aiuto perché il marito aveva inizato ad alzare la voce e a lanciarle addosso oggetti. Per supportarla abbiamo parlato con l’imam locale, che ha convinto lui a seguire un percorso terapeutico di coppia. Ora in famiglia c’è serenità». È questo che l’associazione punta a fare: riportare serenità nelle famiglie, cancellando la violenza. «Non è mai facile», continua Al Zeer. Le storie sono tutte delicatissime, per alcune ci sono processi ancora in corso «e incrociamo le dita per avere un lieto fine». E a rivolgersi all’associazione, talvolta, sono anche 18enni: «Lo scorso anno una ragazza di origine marocchina si era rivolta a noi perché il padre non le faceva più frequentare la scuola dopo che si era innamorata di un ragazzo italiano e lei aveva intenzione di scappare con lui. Siamo intervenuti e lei è tornata a scuola. Dopo, è finita la storia d’amore. Ora la ragazza continua a studiare e, in famiglia, non c’è più tensione. Questo è l’importante».

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