Milano, Cinzia Spanò porta “Tutto quello che volevo” all'Elfo Puccini

Baby squillo, storia di una sentenza

Cinzia Spanò prosegue la riflessione sul “femminile”

Cinzia Spanò prosegue la riflessione sul “femminile”

Milano, 26 aprile 2019 - Come ridare dignità a una vittima? Questo si è domandata la giudice Paola Di Nicola, chiamata a pronunciarsi su uno dei clienti delle baby squillo. Qualcuno si ricorderà la vicenda. Meno risonanza ha avuto una sentenza capace di riportare al centro della riflessione la persona umana e il corpo della donna. Dal 2 maggio se ne racconta all’Elfo Puccini grazie a “Tutto quello che volevo”, nuova produzione scritta e interpretata da Cinzia Spanò. Una prima nazionale. Diretta da Roberto Recchia. Che arriva dopo il bel successo de “La moglie”. La si potrebbe definire una ricerca nel femminile quella della Spanò. Ma in realtà l’orizzonte è (molto) più ampio. E porta sul palco una società contemporanea gonfia di stereotipi e pregiudizi.

Cinzia, perché ispirarsi alla cronaca?

«Credo che le storie che valga la pena raccontare, siano quelle che riescono a cambiare il tuo sguardo, anche rispetto a vicende molto conosciute come quella delle baby squillo. Una vicenda di cui si è straparlato, mai soffermandosi sul problema della prostituzione minorile o sul ruolo dei clienti. Anzi, facendo sembrare queste due ragazzine di 14 e 15 anni come adescatrici capace di tutto, disinibite e spregiudicate».

Sono gli stereotipi della società sessista.

«Esattamente, che la giudice Paola Di Nicola ha studiato per vent’anni, raccogliendo in un libro 200 sentenze inquinate da pregiudizi di genere. La sua storia ci ricorda quanto sia necessario cambiare il proprio sguardo sulla realtà, ancor più in questi tempi bui e complessi».

Come sono le sue protagoniste?

«Donne normali, piene di dubbi, che però improvvisamente hanno un’intuizione, danno ascolto a un segnale che arriva dalla loro parte emotiva. In questo caso alla giudice capita quando si ritrova a dover decidere quanto far pagare all’imputato per risarcire la ragazza della dignità perduta. Sul palco la sua domanda è: come posso risarcirla con lo stesso strumento (il denaro) per cui lei ha barattato dignità e libertà?».

Qual è stata la decisione?

«La sentenza cerca di avvicinarla all’unico mezzo capace di ridarle ciò che le han tolto: la conoscenza. Condanna dunque l’imputato a comprarle libri di Virginia Woolf, Emily Dickinson, Sibilla Aleramo e tante altre. Ma non c’è volontà di rieducare. In qualche modo è un passaggio di testimone: in scena le due vicende si intrecciano e i libri sono quelli della libreria della stessa Di Nicola, libri di donne sulle donne. È una poesia, non una sentenza».

Gli stereotipi di cui parla li ritrova anche a teatro?

«Sul palco ci sono molestatori seriali. Ma il movimento internazionale ha permesso di spezzare la cappa di omertà. L’ambiente è pieno di stereotipi e pregiudizi. Anche qui a Milano, le uniche donne alla guida di un teatro, quel teatro se lo sono dovuto costruire: Andrée Shammah e Serena Sinigaglia. La questione riguarda ogni posizione di potere. Ed è un soffitto di cristallo che arrivi drammaticamente a introiettare dentro te stessa».

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