Santana, un cuore inquieto all'ippodromo di San Siro

La ricerca spirituale dell’icona di Woodstock

Il messicano Carlos Santana

Il messicano Carlos Santana

Milano, 28 giugno 2018 - Si vive solo due volte. Se nel ’99, proprio sulla soglia del nuovo millennio, non fosse arrivato “Supernatural” a riscattare con i suoi 21 milioni di copie vendute ad ogni latitudine una carriera di alti e bassi, Carlos Santana sarebbe rimasto quello di Woodstock e dei folgoranti album degli anni Settanta. Invece “Smooth”, “Maria Maria”, “Corazón espinado” hanno regalato al chitarrista chicano una nuova vita artistica che lo mantiene ancora in tournée depositandolo questa sera sotto la luna dell’Ippodromo Snai di San Siro, tra le suggestioni e le zanzare di una notte latina carica di aspettative.

Già perché se anche l’avvio di “Soul sacrifice” mastica i ricordi virato ocra della tre giorni «di pace, amore e musica» che ne fece una star planetaria senza aver inciso neppure un disco, il musicista di Autlán de Navarro cerca soprattutto di focalizzare il suono attuale della sua muscolosissima band. «Tutta questione di energia», spiegava al Giorno un paio di settimane fa già con un piede sull’aereo per l’Europa. «Per questo nel momento in cui Michael Lang mi ha chiesto di tornare a Bethel la prossima estate per festeggiare il cinquantennale di Woodstock, gli ho proposto di farlo non con una ma con due band - sottolinea - quella che mi accompagnò nel ‘69 e quella di oggi. Credo, infatti, di tornare a Milano con la più potente Santana Band di sempre». Quella che affianca il basso di Benny Rietveld alle tastiere di David K Mathews, le percussioni di Karl Perazzo e Paoli Mejías alla chitarra di Tommy Anthony, alle voci del veterano Andy Vargas e di Ray Greene. Alla batteria Cindy Blackman Santana, ex allieva di Tony Williams cresciuta nella band di Lenny Kravitz, impalmata dal chitarrista chicano nel 2010, al tramonto, su una romanticissima spiaggia dell’isola di Maui, Hawaii. La formazione è la stessa con cui l’uomo col nome da capo Apache ha inciso pure il suo prossimo album.

«S’intitola “Africa speaks. The galaxy listen” ed è prodotto da Rick Rubin, che dice di aver trovato con noi una sintonia molto diversa da quella avuta in passato con Red Hot Chili Peppers o Johnny Cash. Il titolo, “L’Africa parla. La galassia ascolta”, è dovuto alla mia convinzione che in questo mondo non siamo soli - spiega - ma circondati da entità provenienti da altre parti dell’universo con cui possiamo entrare in contatto grazie alla musica, a sonorità intergalattiche come quelle di John Coltrane, Albert Ayler, Pharoah Sanders, Sun Ra, o a quelle che io e mia moglie stiamo realizzando assieme a Derek Trucks, chitarrista talentuosissimo con un modo di suonare che mi ricorda molto quello di Roland Kirk, in vista di un altro disco di prossima pubblicazione. Con Rubin siamo riusciti a registrare 49 tracce in dieci giorni, arricchendo il vigore del suono con le voci etniche di Laura Mvula e di Muika». Se cose come “Are you ready” e “Total destruction to your mind” vengono da “Power of peace”, l’album inciso lo scorso anno da Santana con gli Isley Brothers, non mancano al repertorio dello show in arrivo a San Siro cover che l’interpretazione del musicista messicano ha reso dei superclassici come “Oye como va” di Tito Puente, “Evil ways” di Willie Bobo, “Right on” di Marvin Gaye, “Jin-go-lo-ba” del celebrato percussionista nigeriano Babatunde Olatunji. «A settant’anni vedo con occhi diversi, sento con un cuore diverso, penso con una testa diversa, rispetto a quando ne avevo venti o trenta», ammette Santana. «Mi abbandono di più a quella sorta di Spirito Santo che è Gesù, Buddha, Krishna, Allah; cerco con più convinzione di allora, attraverso la musica, questo ponte che c’è tra il Creatore e me perché tutti abbiamo bisogno di qualcuno o qualcosa che ci risvegli dal torpore in cui ci ha precipitato la frivolezza dei tempi».

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