Minacce al sindaco di Casapesenna, se la democrazia è ancora fragile

di ​Isaia Sales
Martedì 5 Dicembre 2017, 09:40
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Casapesenna, in provincia di Caserta, è uno dei tanti comuni meridionali in cui è possibile constatare quanto sia difficile e complesso uscire definitivamente fuori dai lunghi anni di dominio della violenza organizzata sulla vita di una comunità. Insieme a Casal di Principe e San Cipriano d'Aversa, Casapesenna rappresenta il «cratere» del fenomeno camorristico conosciuto come clan dei casalesi (così come scrive Gianni Solino in un importante libro di prossima pubblicazione) utilizzando una categoria della sismologia. Se a questi tre centri, si aggiungono Castel Volturno, Aversa e Mondragone si raggiunge una impressionante intensità criminale, che ha pochi eguali in Italia, se non nel mandamento di Corleone in Sicilia o in quelli di San Luca e Platì in Calabria.

Una camorra totalitaria sia nel senso di uso della violenza come dittatura quotidiana sui luoghi (attraverso un numero impressionante di leader criminali, di killer, di soldati, di affiliati, di sostenitori esterni e di vittime) sia nel senso di permanente condizionamento, se non di vero e proprio dominio, su quasi tutti i settori della vita amministrativa, politica, economica e civile. E come tutte le dittature essa si è alimentata non solo di una paura di massa, ma anche di un consenso diffuso al di là delle persone direttamente in affari con i camorristi; ed è stata contrastata per un lungo periodo solo da esigue minoranze. Poi l'azione congiunta delle forze dell'ordine e della magistratura ha dimostrato come nessun clan criminale sia invincibile, nessuna situazione sia irrecuperabile, nessun consenso ai criminali eterno, se lo Stato fa lo Stato e chi lo rappresenta cerca legittimità e forza attraverso la rottura di quelle relazioni che sono state (e sono) il fondamento del successo della criminalità di tipo mafioso e camorristico. In pochi anni sono stati catturati tutti i latitanti, tutti i capi e quasi tutti gli affiliati, scompaginando clan storici che avevano dato vita ad una delle reti criminali più influenti nel campo del crimine nazionale e internazionale. E quando i cittadini di quelle zone hanno visto che finalmente i camorristi venivano seriamente colpiti, e si faceva terra bruciata attorno ai loro complici, si è manifestato via via sempre più apertamente un coraggio sopito dando vita anche a un radicale rinnovamento della vita politica che ha portato ai vertici di molti comuni proprio i rappresentati dell'opposizione a quel sistema di dominio criminale. Al punto tale che è sembrata molto vicina la fine del tunnel, l'uscita dal lungo sonno della democrazia. Dimostrando che non c'è solo un meridione rassegnato, indifferente al cambiamento, legato al vecchio sistema clientelare e affaristico, totalmente in preda al dominio della criminalità organizzata. C'è un Sud, al contrario, che combatte a viso aperto le mafie.

Ma oggi a chi deve governare da queste parti si rivolge una pretesa di «correttezza sovversiva», capace cioè di rivoltare vecchie abitudini, mentalità, modi di amministrare. E non è facile essere all'altezza di queste aspettative. Ai nuovi eletti si chiedono ora cose che in un altro periodo storico non venivano neanche lontanamente richieste ai predecessori. Sono cose che succedono: si è più esigenti verso gli onesti di quanto lo si sia stato verso i corrotti. È il prezzo che debbono pagare i rinnovatori radicali.

E quali sono stati i fattori di successo dei clan dei Casalesi? Secondo me due quelli fondamentali.

Il primo è rappresentato dall'assoluta sottovalutazione dei rappresentanti delle istituzioni preposte del ruolo assunto dalla camorra casertana nel tempo, e in tanti casi di aperta collusione con essa. Per anni la provincia di Caserta è stata fuori da ogni attenzione dei media. Per anni sono passati da questa provincia alcuni dei peggiori rappresentanti delle istituzioni di controllo del territorio (Polizia, Carabinieri, Questura, Prefettura, Magistratura). Per decenni il territorio casertano è stato zona franca da ogni controllo. La camorra casalese ha avuto il vantaggio di un ventennio prima di diventare un problema serio per gli apparati repressivi dello Stato. Ha scritto a proposito Federico Cafiero de Raho: «Quando nel 1993 iniziai le indagini sui Casalesi, per prima cosa telefonai ai comandanti delle varie stazioni dei Carabinieri della zona. Nessuno però ammise di sapere che nel casertano c'era la camorra». 

In secondo luogo in provincia di Caserta le porte dei municipi sono state aperte da uno dei sistemi politici locali più corrotti; ed è stata il controllo dell'economia regolata (e condizionata) dalle decisioni amministrative e politiche a trasformare molti camorristi in rispettabili imprenditori.

Pongo una domanda: è stato fatto e si sta facendo tutto il possibile perché ciò che qui è avvenuto non si ripeta? La mia risposta a questa domanda è no. Se c'è stato un «terremoto della legge» da queste parti, se si è disintegrato il senso dello Stato e delle istituzioni, se si è accettata una dittatura politico-criminale che ha influenzato la politica, le istituzioni, l'economia e il senso comune dei cittadini, come si pensa di mettere mano a questa gigantesca opera di ricostruzione? Come si vuole concretamente sostenere, con tutti i mezzi a disposizione, la «correttezza sovversiva»? Forse si pensa che una volta azzerata fisicamente la camorra casalese, il compito dello Stato si è esaurito? E tutto il resto che c'è ancora da fare è problema solo di chi oggi deve amministrare queste comunità? 
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