Viaggio per la vita in Togo | Giorno 3, il dono della gratuità

Viaggio per la vita in Togo | Giorno 3, il dono della gratuità
di Nunzia Marciano
Domenica 5 Agosto 2018, 16:19 - Ultimo agg. 6 Agosto, 11:45
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“Non esiste il curarsi senza pagare. Mai. In nessun posto. E gli ospedali umanitari non fanno eccezione”. L’arcano viene svelato per caso sgretolando l’illusione che nell’Africa profonda potesse esistere la gratuità. “I pazienti pagano la degenza e gli interventi. Spesso vengono in ambulatorio e se gli dici di ricoverarsi fanno sì con la testa ma poi vanno via confessando all’infermiera di non avere soldi”. È Germana a spiegarlo, l’internista di Roma. Ida, chirurgo e Fausto, odontoiatria, confermano. Si paga tutto: la degenza costa circa 2.000 Franc CFA al giorno, poco più di 3€. Ma la domanda è: come fanno qui a pagarli? “Molti ce la fanno ma cercano di starci il meno possibile in ospedale, lo stretto necessario”, è la risposta.
 

 

Il sabato non è giorno di interventi ma si fa un’eccezione che poi nel pomeriggio lascia tutto il tempo alla vita Africana, vista con gli occhi di 5 italiani, che uscendo dalla struttura ospitante si imbattono negli anziani che giocano a bocce. Anche in Africa gli anziani giocano a bocce. Ed è probabile che guarderebbe pure i cantieri, se ci fossero. Afagnan è l’altro lato del Mondo, sconosciuto e forse inspiegabile ma esserci aiuta però a vedere in maniera molto più nitida il proprio, di cui mancano i giorni “normali” di una quotidiana abitudine che riesce a non essere noia e a cui si può tornare facilmente almeno via Wi-Fi, che qui funziona. Molto bene, anche. Paradossi, anche questi, tutti africani. Il difficile del sopravvivere qui cozza tremendamente con ciò che viene considerato difficile nella parte del Mondo che non deve accontentarsi di sopravvivere. Ma lo vedi meglio quando ne sei fuori, lo vedi da qui. È chiaro. Il pomeriggio all’ospedale Saint Jean De Deiu non ci sono mai interventi, si finisce di lavorare alle 15. La sensazione è che la cultura della sopravvivenza tramandata da sempre, porti con sé l’idea di fare il meno possibile e di affidarsi a Dio, sempre: la Chiesa dell’ospedale è la struttura forse più bella di tutte e la religione permea tutto. Persino i nomi delle botteghe (leggi: capanne) hanno in sé sempre qualcosa che ricorda il cristianesimo. Ma della misericordia cristiana qui non c’è neppure l’ombra. Lo si scopre quando poco lontano dall’ospedale ci si imbatte in una specie di ambulatorio medico, fuori al quale capeggia un manifesto, a firma di associazioni umanitarie tra cui l’Unicef che segnala 4 giorni di vaccini gratuiti. Entrare per capirne di più è d’obbligo. La ragazza all’interno, giovane e incinta, spiega e Fausto traduce: in quel centro, che è dell’Unicef, le vaccinazioni si pagano sempre, tranne il giovedì o quando ci sono giornate speciali. Mostra la struttura, pulita ma fatiscente e mostra la sala parto che somiglia molto di più al tavolo di un macellaio. Anche il parto si paga, circa 10 euro, poco meno che in un ospedale del posto.

Ed ecco perché in tante partoriscono in casa, moltiplicando il rischio di morte di madre e bambino. A tutto c’è una spiegazione. Persino in Togo, anche se le spiegazioni lasciano a volte sgomenti. “Qui si muore tanto di AIDS”, spiega Fausto. Ed ecco spiegato un manifesto nell’ambulatorio che descrive con delle figure come usare un condom. Fa quasi strano. Ma il Sabato pomeriggio non si pensa alla morte: il sabato è tempo di mercato, è tempo di scoprire un mondo nel Mondo, completamente a sé, a partire dal come ci si arriva, ossia a bordo di moto enormi che in realtà sono 125 di cilindrata che scorrazzano per le strade sabbiose di Afagnan a uso taxi: 150 franchi CFA per una corsa. 25 centesimi di euro. Qui in Togo per alcune cose non si può definire il costo: semplicemente non costano ed è per questo che i costi così alti delle cure mediche appaiono un’ingiustizia senza eguali. Il tragitto dall’ospedale al mercato è breve ma tortuoso, su strade che non esistono. In compenso è pieno zeppo di cose che si vendono e di bambini, tantissimi bambini. Anche per questo c’è un motivo: molti bambini muoiono durante il primo anno di vita. Farne tanti vuol dire preservare la specie. Arrivati al mercato si ha la sensazione che dentro vi sia scoppiata una tavolozza di colori, così accesi da abbagliare: si vendono soprattutto verdure, coloratissime, e stoffe, da vendere e che indossano gli autoctoni, coloratissime pure quelle, che vengono portate direttamente nelle sartorie. Che di sabatosono chiuse, così come i negozi per acquistare le schede: il sabato è già festa. In compenso però il mercato è strapieno ma i venditori sono molto meno invadenti di quelli in un qualunque mercato italiano: portano fieri la loro merce ma raramente fermano i potenziali acquirenti invitandoli a comprare. E questo da’ la misura anche della dignità che si respira assieme alla polvere sabbiosa. Nel gruppo c’è anche Marie che insieme a Chiara, aiuta a tradurre. Preziosissima, mentre insiste nel portare lei le buste con gli acquisti di tutti. Al mercato c’è anche Nicolàs: ha sei figli e una bottega di fronte all’ospedale a cui però non può eccedere per via dei “traffici” che faceva all’interno. Enzo Facciuto aveva avvertito su di lui. Fatti gli acquisti e ammirati anche qui bambini meravigliosi in mezzo al nulla, il viaggio di ritorno ha lo stesso mezzo: le moto, che arrivano fino all’ospedale e che sono parecchio istruttivi come viaggio. L’autista ad esempio, non perde tempo e propone una specie di servizio gigoló, per donne italiane in Africa. A pagamento. Una sorta di prostituzione maschile meno manifesta di chi poco più che 30enne, dice chiaramente di volere stare con una donna italiana. Per avere il visto e poi andare in America.

Questa è la prostituzione maschile. Della femminile invece, ancora nessuna traccia. Ma esiste. “Ma sai qui non la vedono così, forse per loro è un gioco”: la domenica mattina se ne parla a colazione. Chiara minimizza, i discorsi si ampliano per capire l’Africa, e perché qui non facciano nulla per cambiare, forse perché non sanno che esiste qualcosa di diverso o sono così da troppi secoli per cambiare, “e in fondo sono felici: siamo noi che vediamo ciò che gli manca, non loro”, dice Ida, il chirurgo. “Hanno la tv e i telefonini di ultima generazione: lo sanno cosa esiste fuori”, ribatte Fausto. E via di supposizioni su ciò che si vede “apparentemente” ma che in realtà non si conosce o non si spiega. Così come non si spiega dove prendano i soldi per curarsi. Si ipotizzano teorie economiche o coloniali, sociali e antropologiche. La conclusione comunque è che loro vivono così. Che lo facciano per cultura o per inerzia, la sensazione è che siano felici nella loro ignoranza, molto più di chi vive nella conoscenza. La domenica è il giorno del riposo, se non fosse che alle 7 nel villaggio limitrofo all’ospedale canti e balli svegliano ogni cosa: provengono dalla chiesa. Durano circa un’ora. Poi riprendono ma sono più simili ad un lamento: “Forse è un funerale, forse è come in Benin che dura tre giorni”. Ipotizza Fausto. Può essere: qui i funerali sono all’americana. Può essere. “Sono le celebrazioni delle sètte, degli ordini religiosi. E no, i funerali li fanno solo il venerdì pomeriggio”: a togliere ogni dubbio è Suor Simona, che arriva a bordo di un camioncino che è una specie di ambulanza. All’interno c’è un lettino. E basta. Con lei c’è una ragazzina africana. Suor Simona è letteralmente un portento: fa parte dell’ordine delle misericodine di Monza e per lei l’Africa non ha segreti, la conosce da 10 anni. “Sono sempre stata qui ad Afagnan, abbiamo aperto noi la comunità. L’ospedale è aperto da 57 anni ma è stato ampliato”. Il viaggio sembra più simile ad un giro sulle montagne russe, un po’ per le strade che non esistono, un po’ per la guida “sportiva” di Suor Simona.

Il pulmino si ferma incrociandone un altro da cui scende una suora africana che consegna a Suor Simona delle scatole. “Sono medicinali per i malati mentali, vengono dall’Italia. Vengono sempre dall’Italia”. Il viaggio non è breve e c’è tutto il tempo di capire la politica e la geografia del Togo: “È una repubblica parlamentare ma in realtà il presidente è figlio del precedente presidente. È monarchica insomma”, spiega bene Chiara. A Germana tocca la parte geopolitica: “Il Togo è suddiviso in 5 regioni, noi siamo in quella più a sud, quella marittima”. Intanto si fa fatica a reggersi per la guida movimentata mentre si attraversano scenari sempre uguali, con più o meno case e capanne a mó di botteghe a seconda della cittadina che si attraversa. “Ora queste sono strade, ce ne è anche una regionale. C’è speranza che asfaltino anche le altre”. Ecco, la speranza che qui guida il Mondo. Si arriva a destinazione dopo circa una mezz’ora passata in fretta a suon di racconti e battute tra di noi. La destinazione però spegne in fretta i sorrisi: è un centro di accoglienza per malati mentali, che qui hanno ancora meno dignità e possibilità di sopravvivenza di chi almeno non è “pazzo”. Qui la malattia mentale è una condanna, non viene nemmeno riconosciuta e i malati vengono abbandonati dalle famiglie, quando gli va “bene” e non vengono rinchiusi e vagano per strada da soli, prima di essere portati nel centro. Anche se hanno circa 7 anni, occhi grandissimi e denti ben in vista in quei sorrisi a labbra aperte obbligati dalla malattia mentale e tutto ciò che riescono a chiedere “è di essere presi e messi sulla schiena, come i bambini piccoli”, spiega Suor Simona. I pazienti sono affascinanti dai telefoni e da una videocamera: chiedono di essere ripresi e fotografi e di rivedersi in quelle immagini. Il loro ringraziamento è un ballo Africano. È bello. E loro sorridono. Inconsapevoli di tutto. In una domenica mattina di inizio agosto, in Togo, si scopre che esiste un’Africa ancora più profonda, ancora più nera, ancora più dolorosa. E questa è un’Africa troppo grande per non essere raccontata fino in fondo, tutta quanta. È un’Africa che merita tutta un’altra storia che forse neppure una videocamera piena di immagini e parole riuscirà davvero a raccontare. 
 

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