La mission impossible
del solito Pd

di Mauro Calise
Domenica 8 Luglio 2018, 22:48
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Gli opinionisti più blasonati – e milioni di votanti increduli – si interrogano come sia possibile che la classe dirigente del Pd continui ad avvitarsi su se stessa. Incapace di partorire una svolta, prigioniera del proprio passato. E del leader che l’aveva illusa di un riscatto, e oggi la tiene sotto ricatto. Purtroppo, però, non c’è molto da meravigliarsi. L’operazione rifondazione – absit iniuria verbis – è una mission impossible. Per tre motivi, o, se preferite, ostacoli. Tutti e tre – quasi – insuperabili.
Il primo è la logica di ceto che anima i dirigenti superstiti. Lo dico senza acrimonia, con il rispetto che si deve a qualunque ordine professionale. La priorità di chi affollava l’assemblea inconcludente di sabato, non è cambiare il Paese. Ma conservarsi il posto. Certo, l’ideologia democratica pretende che questo obiettivo sia vestito di nobili programmi. Ma questi vengono dopo. Dopo che – primum vivere – sia garantita la sopravvivenza politica. E il Pd, anche se ridotto al 15 o 12 per cento, è ancora un serbatoio rispettabile di scranni, poltrone, e strapuntini. E, a seconda della cordata che vincerà il prossimo congresso, andranno da una parte o dall’altra. Al momento, la vera disputa è su come aggiudicarsi la posta. Non come rilanciarla per tornare, prima o poi, a governare. Ovviamente, poiché di questo non è elegante parlare in pubblico, si discetta sui massimi sistemi. E si continuerà a discettare.
Perché si esca dal circolo vizioso dello stallo corporativo, occorrerebbe un papa straniero. Uno sufficientemente esterno da non potere rimescolare gli equilibri, ma da essere costretto a romperli. È stato il caso di Matteo Renzi, col suo esordio di rottamatore. Un esordio tutto in salita, ma che, dopo la sofferta vittoria, gli ha spianato la strada di un biennio di dominio pressoché assoluto. Senza, però, vaccinarlo dalla reazione di rigetto con cui la vecchia guardia se lo è cucinato. Prima a fuoco lento, poi arrosto. Anche per questo, i casi più frequenti di successo di radicale rinnovamento di un partito, sono quelli che nascono da zero. Direttamente con un partito nuovo. È andata così con Berlusconi e il duo Grillo-Casaleggio. E, in parte, con Salvini, che ha innestato, sulla vecchia infrastruttura leghista, il turbo della comunicazione social di cui ha il controllo assoluto.
È in grado Nicola Zingaretti di adempiere a un simile compito? Come governatore del Lazio, ha una sua base – di potere e consenso – autonoma dalla nomenclatura Pd. E ha dimostrato, alle ultime elezioni, di poter vincere allargando e includendo invece che arroccandosi in difesa. Ma ha l’handicap di presentarsi come un ritorno al passato. Per via degli sponsor che lo attorniano, e di quel sapore di Ulivo che gli hanno appiccicato addosso. Certo, la sfida è appena cominciata. E c’è tutto il tempo per provare a buttare il cuore oltre la siepe.
Qui c’è da superare il terzo ostacolo. Le vere colonne d’Ercole. Il convitato di pietra della sfida, di cui non si parla mai. Una nuova organizzazione. I partiti, all’osso, sono macchine. Per mettere insieme idee, consensi, e gestione del potere. Senza una macchina funzionante, restano un evento culturale. Come tanti che, ciascuno di noi, può organizzare a piacimento, dovunque. Senza, per questo, aspirare a governare. In Italia, la prima repubblica è naufragata quando le gloriose organizzazioni storiche – Dc e Pci – si sono, per diverse ragioni, dissolte. Il loro posto è stato preso, nell’ordine, da tre nuove macchine partitiche: Forza Italia, Cinquestelle e Lega. Ciascuna dotata di un notevole coefficiente di innovazione e di una solida – ancorché diversissima – organizzazione. Partito personale e aziendale nel caso di Silvio Berlusconi, centralismo cybercratico per Grillo, mix accurato di territorio e social nella Lega di Matteo Salvini. 
In tutto questo tempo, il Pd è rimasto ibernato. Con le sezioni di cento anni fa trasformate in sedicenti circoli. E l’unica novità – le primarie – rimaste avulse dal corpaccione in condominio tra le oligarchie al centro e i micronotabili in periferia. Se non cambia – da cima a fondo – questa impalcatura ottocentesca, nessun progetto o leader riuscirà a resuscitare il Pd.
Messa così, sembra proprio drammatica. Lo è. Ma non perché non ci sia sufficiente chiarezza se andare un po’ più a destra o più a sinistra. Ma perché per potere andare, quale che sia la direzione prescelta, c’è bisogno di avere una macchina. Funzionante, efficiente, appealing. Possibilmente, di questi tempi, ecologica. Bassi consumi e alti rendimenti. Pienamente integrata con la Rete, la grande macchina in cui si intrecciano, ogni istante, le nostre vite. E, naturalmente, veloce. Per provare a superare i veicoli con cui, nel giro di cinque anni, due partiti venuti quasi dal nulla sono arrivati a Palazzo Chigi. Che è, al tempo stesso, un segnale positivo. La cosiddetta luce in fondo al tunnel. Il segno che la mission impossible non richiede necessariamente un trentennio. Se davvero si cambia il motore, la remuntada potrebbe essere a portata di mano. Anzi, di bit.
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