Autobomba, il terrore come metodo: la 'ndrangheta in stile Beirut

Autobomba, il terrore come metodo: la 'ndrangheta in stile Beirut
di Antonio Nicaso
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Martedì 10 Aprile 2018, 08:43
L'autobomba con cui è stato ucciso Michele Vinci, 42 anni, ex rappresentante di medicinali e candidato alle ultime elezioni amministrative, apre scenari inquietanti. Non sembrano esserci dubbi sul coinvolgimento della ndrangheta, ma sul motivo pochi hanno voglia di sbilanciarsi.

LE PISTE
Gli inquirenti seguono la pista dell'accaparramento di terreni. La vittima, già coinvolto in una rissa per una questione di confine, pare che abbia pestato i piedi a qualcuno molto importante. A Limbadi, dove Vinci è stato ammazzato, da sempre comandano i Mancuso. La loro è famiglia di rango. Negli anni Settanta, hanno stretto alleanze con il clan dei Piromalli e con i Pesce di Rosarno, sfruttando una cava da cui estrarre materiali per la realizzazione del porto di Gioia Tauro e del quinto centro siderurgico. I soldi ricavati da appalti e subappalti sono serviti per acquistare cocaina ed entrare nel grande giro del narcotraffico. A Limbadi e ai Mancuso è legata anche la vicenda del primo consiglio comunale sciolto per mafia in Italia. In quell'occasione, il boss Francesco Mancuso ottenne la maggioranza dei voti a capo di una lista civica, pur essendo latitante. Ma a dare l'idea dell'importanza di questa famiglia è stato l'incontro organizzato per esaminare la proposta dei corleonesi che avevano cercato di sollecitare la ndrangheta a partecipare all'offensiva stragista. Gli emissari di Totò Riina incontrarono sul territorio dei Mancuso i rappresentanti della varie famiglie del Reggino, del Crotonese e del Cosentino. A rappresentare il Vibonese c'era Luigi Mancuso. Intuendo gli effetti che un'azione stragista diffusa avrebbe determinato, i Mancuso e gli altri boss della ndrangheta respinsero la proposta dei Corleonesi.

I CORLEONESI
Al piano stragista dei siciliani aderirono solo alcune famiglie del Reggino. L'autobomba di ieri, come dicevamo, apre scenari inquietanti. Contrariamente ad altre organizzazioni mafiose, la ndrangheta cerca sempre di muoversi sotto traccia. Nelle poche volte che ha utilizzato autobombe lo ha fatto per eliminare scomodi avversari, traditori e nemici irriducibili. Il 25 settembre del 2017 un ordigno esplosivo è stato collocato, in una frazione di Sorianello, sempre nel Vibonese, sotto l'autovettura (una Opel Astra) in uso a Nicola Ciconte, 28 anni del luogo, rimasto gravemente ferito nella deflagrazione.

Un'altra autobomba è invece esplosa davanti ad una palazzina di Gioia Tauro, il 26 aprile del 2008: vi stava prendendo posto l'imprenditore Nino Princi che rimase gravemente ferito e morì dopo alcuni giorni in ospedale. L'uomo era sospettato d'aver mantenuto rapporti con le forze dell'ordine aiutandole ad individuare il nascondiglio di un latitante. Altri attentati del genere sono stati compiuti a Paola, a Marina di Gioiosa Ionica, a Palmi, a Villa San Giovanni, a Reggio Calabria e a Filandari. Nel 1985 fu proprio un'autobomba a scatenare la seconda guerra di ndrangheta. L'obiettivo era Nino Imerti, detto nano feroce. Il padrino di Villa San Giovanni scampò all'agguato, nel quale rimasero uccisi due suoi picciotti. La ndrangheta del vibonese, negli ultimi tempi, ha dimostrato molta inquietudine, soprattutto dopo la decisione di alcuni esponenti delle famiglie più importanti della zona di collaborare con la giustizia. Da alcuni anni, la ndrangheta di questa provincia sente forte il fiato degli inquirenti. L'impressione è che voglia alzare il tiro.
 
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