Paolo Mieli, quando la storia riaffiora per generare conflitti

Paolo Mieli, quando la storia riaffiora per generare conflitti
di Andrea Velardi
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Lunedì 22 Ottobre 2018, 21:29
Più che maestra di vita, la storia sembra diventata una matrigna generatrice di conflitti, la più pericolosa e formidabile causa di conflitto presente nella società globalizzata, E il passato diventa sempre più oggetto di una voluttà famelica di rivendicazioni e “damnatio memoriae” senza scampo e remissione, non luogo dell’indagine approfondita e complessa della storia dell’umanità, ma tribunale spietato di sentenze sull’umanità che fa la storia. Paolo Mieli analizza questo scenario confuso e vischioso con un piglio inedito, in cui risuona la consapevolezza delle minacce di questo pervertimento. «Lampi sulla storia. Intrecci tra passato e presente» (Rizzoli) si presenta come il manuale esemplificato di una cura contro l’attuale patologia del senso storico, con annesso un capitolo finale con il «metodo per domare le fiamme» ovvero rispettare la legge dell’oblio che deve calare sulle fratture e sui conflitti irrisolti del passato, non lasciare alla comunità la possibilità di riaprire antiche ferite e deformare il passato attraverso i «nuovi angoli visuali» che emergono nel tempo presente, lasciare la storia agli storici, a coloro che sanno approfondirla con sguardo superiore e capacità di rispettarne la complessità.
 
Un’opzione che ci sembra non si debba tradurre in una separazione tra storico e persona comune, ma debba portare a contagiare e diffondere la consapevolezza e l’equidistanza critica, non per questo esente da pathos etico-politico, dello studioso anche nelle persone colte e nella gente meno attrezzata, per arginare l’invasione delle ossessioni esagitate del presente nei confronti di un passato che rimane sussultorio e divisivo nella memoria storica, ma che è comunque ormai cristallizzato e seppellito nella forma e nei segni che la storia ha espresso. Ma invece i pregiudizi, le deformazioni, le forzature ideologiche, le semplificazioni mediatiche, il moralismo ottuso, la furia del politicamente corretto, fanno sbriciolare la complessità della storia, rinunciano al faticoso processo di comprensione e ricostruzione degli eventi e dei personaggi, imprigionano il passato nelle spire del presente, senza alcuna capacità di contestualizzazione e relativizzazione.
 
Rischiano così di trasformarsi in una cieca, invasata, iconoclasta isteria collettiva bisognosa di continui e fuorvianti riti di esorcismo pubblico, che, in nome di una civilizzazione massimalista, capricciosa, superficiale, esige damnatio memoriae crudeli ed esplicite, mette cautele, warning, come se fossimo diventati tutti bambini immaturi e incapricciati o ancor peggio invasati che vedano il diavolo dappertutto e lo debbano scacciare istericamente in modo esplicito ed evidente con segni e riti di esorcismo inappropriato e fuorviante. Anche se per Mieli si tratta solo di «invasioni del presente sul passato» e basterebbe contenere quest’ultime per risolvere questo assillo della contemporaneità, ci sembra non si possa negare l’evidenza più disarmante che è lo stesso pensiero «liberal» a fomentare questa attitudine illiberale, con i suoi proclami sulla diversità, che di fatto non rispettano e negano la complessità e non garantiscono la diversità ideologica, contraddicendo la libertà di espressione dell’arte, della letteratura, del pensiero umano.
 
 
Così a Essen, in Germania, il museo Folkwang nel 2014 annulla una mostra di un gigante dell’arte contemporanea e dell’interpretazione figurativa del mistero della sessualità come Balthus accusando l’artista di «pedofilia» e una petizione chiede al MET di New York di vietare l’esposizione del suo quadro Thérèse che sogna, che ritrae un’adolescente in una posa. Il Rijksmuseum di Amsterdam ripulisce alla fine 2015 le targhette dei suoi quadri, con tutte le difficoltà del caso da termini «inadeguati ai nuovi tempi»: «negro», «nano», «maomettano», «boscimano», «selvaggio», «schiavo», «indiano», «eschimese». Gli studenti della Black Justice League di Princeton vogliono togliere le insegne dell’ex presidente degli Stati Uniti e rettore Woodrow Wilson perché lo giudicano un «razzista impenitente». Senza rendersi conto, come suggerisce il professor Geoffrey Stone che di questo passo andrebbero cancellati dalla memoria di Princeton anche George Washington, Thomas Jefferson, James Madison, James Monroe e Andrew Jackson che erano tutti proprietari di schiavi. Mieli giustamente annota: «Quando il presente invade il passato, chi stabilisce i confini che dovrebbero porre un limite all’invasione?».  

Altro segno di questo debordare del presente è la richiesta del sindacato degli studenti della Scuola di studi orientali e africani di Londra di «decolonizzazione» dell’ateneo sostenendo che «la maggior parte dei filosofi dei corsi dovrebbe venire da Africa e Asia». I «filosofi bianchi» andrebbero studiati «solo se necessario». A Fine Dessert viene accusato di «riproporre immagini dolorose di schiavi felici» e l’autrice, Emily Jenkins si è sentita in dovere, sbagliando!, di fare autocritica per la propria «insensibilità». Apice di questa isteria è che  There Is a Tribe of Kids di Lane Smith sia stato giudicato «colpevole» di aver messo in pagina bambini che giocano a fare gli indiani. Come se questo gesto contenesse un sottesa razzismo verso i nativi americani. Di questo passo tutta la storia degli Stati Uniti non si dovrebbe più insegnare a scuola e nessuno dei suoi padri nominare. Un delirio che nasconde una mancanza di razionalità. Una cosa è operare una critica serena sul passato di questa nazione federale come fa acutamente Alexis de Tocqueville ne «La democrazia in America», un’altra è volere deformare il passato alla luce di quella critica. Ma sembra che questa tendenza sia inarrestabile se gli studenti inglesi dell’Università di Manchester cancellano un murale con If di Rudyard Kipling accusato di razzismo per il suo libro «Il fardello dell’uomo bianco». Anche se già nel 1942  George Orwell aveva fatto notare l’insensibilità morale di alcuni brani del premio Nobel per la letteratura nel 1907.
 
Bisogna contestualizzare il passato e non invaderlo alla luce del presente ricordando come Rosario Romeo, in polemica con il libro Isonzo 1917 – nel quale Mario Silvestri aveva definito «grotteschi» gli ideali che avevano motivato la Prima guerra mondiale – scrisse che con lo stesso criterio «l’intera vicenda degli uomini» potrebbe «apparire assurda e grottesca».  Con l’equilibrio teorico che lo contraddistingue, Mieli mostra in prima persona, come solo gli storici possano dare le adeguate risposte, come si possa salvare la complessità degli eventi anche nella sintesi e nella velocità comunicativa, con una lezione di stile, di  razionalità, di liberalismo, attraverso decine di esercizi di rigore e di ricostruzione, riferite a libri pregnanti frutto della fatica storiografica di molti suoi colleghi, che conservano tutti un rispetto per il contesto storico indagato e per l’ evoluzione psicologica e teorica delle figure storiche, di cui si fanno emergere limiti e contraddizioni senza per questo compiere alcuna dissacrazione o chiedere alcuno scalpo postumo. Esemplare i capitoli sulle contraddizioni di Gramsci, critico del giacobinismo antidemocratico, ma poi inneggiante alla rivoluzione leninista, sull’ ingratitudine di De Gaulle con Churchill e Roosevelt; la fascinazione per il nazismo dei premi Nobel Hamsun, Lorenz e quella per il fascismo di Th. S. Eliot tutti ritratti però nel contesto che li spinse ad assumere certe posizioni, mantenendo comunque una loro forte personalità e, in certi casi, abiurarle; le ingiuste accuse contro Caterina de’ Medici;  i folli litigi di Isaac Newton; la difficile gestione della crisi luterana da parte di papa Leone X, il problema dello Stato di Israele.

Nel capitolo finale di «Lampi sulla storia», Mieli propone il suo metodo per arginare l’invasione del passato e la sua deformazione. Ripropone la sua tesi sulla necessità dell’oblio e lo fa discutendo le polemiche nate in Spagna su Valle de los Caídos (Valle dei caduti), il cimitero dei vinti e dei vincitori voluto nel 1940 dal dittatore Francisco Franco all’indomani della vittoria della guerra civile. Il governo spagnolo del socialista Pedro Sánchez ha deciso la traslazione dei resti di Franco fuori dalla Valle de los Caídos e l’autore del libro più avvincente sugli eventi tra il 1936 e il 1939, Paul Preston (La guerra civile spagnola), ha parlato di «buona iniziativa» dal momento che, a suo giudizio, finché la salma di Franco fosse rimasta lì avrebbe continuato a essere «meta di pellegrinaggi dei nostalgici della dittatura». Ma, anche se tutti gli storici concordano nel giudizio negativo rispetto alla parte che vinse, sembra fuor di luogo l’eccesso di voler esagerare su questa strada e voler  arrivare a separare  i vinti,  ora  riscattati eticamente e storicamente, dai vincitori, cui invece va l’esecrazione. Occorre applicare la sapienza che seppellisce nel passato gli eventi, imitando gli esempi delle pacificazioni e dei patti di oblio imposti da Trasibulo nell’Atene del 403 a.C. dopo la sconfitta dei Trenta tiranni e dall’editto di Nantes del 1598 emanato da Enrico IV per mettere fine alla guerra tra cattolici e ugonotti. Enrico IV proibiva ai sudditi di «aggredirsi, risentirsi, ingiuriarsi, provocarsi l’un l’altro» in nome del passato e invitava a «dominarsi e vivere insieme in pace come fratelli».

Con questa carrellata di esercizi storiografici e il suo metodo di salvaguardia della complessità del passato, Mieli mostra quanto avesse ragione il Robin Collingwood dei «Tre saggi di filosofia della storia» secondo cui la storia richiede una peculiare empatia, una immedesimazione che non toglie nulla alla serietà della ricerca delle cause, alla esplicitazione dei punti di vista, ma anzi aiuta misteriosamente a raggiungere una vera comprensione lontana dal pervertimento dello sguardo storico e dalle distorsioni del politicamente corretto. 
 
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