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  • Venerdì 31 maggio 2019

I dati economici dell’India sono truccati?

Se lo è chiesto il New York Times, raccontando dei dubbi degli economisti e di alcuni dati che il governo sembra non voler pubblicare

Il primo ministro indiano Narendra Modi al G20 del 2016, in Cina (Mark Schiefelbein - Pool/Getty Images)
Il primo ministro indiano Narendra Modi al G20 del 2016, in Cina (Mark Schiefelbein - Pool/Getty Images)

Il New York Times racconta in un articolo di alcuni dubbi sorti intorno ai dati dell’economia indiana, in particolare sul tasso di disoccupazione e quello di crescita. Il governo indiano, guidato dal primo ministro Narendra Modi appena rieletto, dice che il paese sta crescendo a un ritmo tra il 7 e l’8 per cento annuo, una cifra notevole e soprattutto competitiva se paragonata al tasso di crescita della Cina (circa 6,5 per cento nel 2018). Tuttavia alcuni analisti indiani hanno manifestato dei dubbi sull’affidabilità di questi dati e hanno accusato Modi di averli “politicizzati”, rivedendoli al rialzo oppure non pubblicandoli quando sono negativi. In effetti lo scorso gennaio un giornale indiano ha rivelato che secondo un rapporto del governo, la cui pubblicazione viene rimandata da tempo, la disoccupazione sarebbe al 6,1 per cento, uno dei dati più alti degli ultimi anni (il doppio rispetto ai rapporti pubblicati tra il 2011 e il 2016).

I dubbi riguardano principalmente il metodo con cui i dati statistici vengono raccolti: quello usato in India per misurare la crescita non è stato introdotto da Modi ma dal precedente primo ministro, Manmohan Singh, e si basa sui dati finanziari comunicati al governo dalle 900mila aziende registrate in India, i quali dovrebbero dare la misura di come stia andando l’economia generale del paese. L’India è uno dei primi paesi in via di sviluppo a usare questo metodo, anche se comporta alcuni problemi: l’economia indiana è costituita per circa metà da piccole imprese che operano in contanti e che non sono tracciabili (è il caso del settore agricolo, per esempio). Il metodo statistico che usa il governo, quindi, presume che questa metà vada in parallelo con l’altra, quella delle 900mila aziende registrate. Il New York Times però spiega che non sempre va così.

Negli scorsi anni Modi, che è primo ministro dal 2014, ha puntato molto sulla crescita economica e sulla modernizzazione dell’India, intervenendo con riforme strutturali talvolta drastiche, come quando nel 2016 decise di invalidare alcuni tagli di banconote per costringere gli evasori e i criminali a cambiarle e renderli così perseguibili: questa e altre iniziative causarono parecchi disagi a quelle piccole aziende che basano tutto il loro business sul flusso di contanti, mentre invece le aziende più grandi (che vengono conteggiate nelle statistiche) non subirono particolari danni per le riforme di Modi. Da qui sono sorti i dubbi sui dati del governo: se la parte usata per misurare la crescita va bene, mentre la parte non conteggiata va male, le stime non possono essere ritenute affidabili.

Lo scorso marzo 108 economisti, prevalentemente indiani, hanno firmato una lettera in cui viene fortemente criticato il metodo del governo di raccogliere e pubblicare i dati statistici. Nella lettera vengono riportati alcuni esempi, avvenuti tutti tra il 2015 e il 2018, secondo cui più volte gli istituti di statistica hanno rialzato le stime della crescita del PIL di vari punti percentuali, in un caso portandola dall’1,1 per cento all’8,2. Nel documento gli economisti scrivono anche che il motivo per cui il governo sta rimandando la pubblicazione del rapporto sulla disoccupazione sono i dati fortemente negativi che riporta, rivelati dai giornali: «Qualsiasi statistica che metta in dubbio i successi economici del governo sembra che venga rivista oppure occultata, con metodi discutibili».

Durante la campagna elettorale prima del voto concluso pochi giorni fa (le elezioni indiane sono le più grandi al mondo e durano più di un mese) si era parlato molto di economia e di disoccupazione, e anche durante il suo primo mandato Narendra Modi aveva insistito molto sullo sviluppo e la crescita economica, promettendo tra le altre cose che avrebbe creato 10 milioni di posti di lavoro.