La scomparsa di Berlinguer che avvenne nelle circostanze tragiche che conosciamo cinque anni prima della caduta del muro lo tenne a riparo dal confrontarsi con lo schianto delle società in cui dominava il Socialismo Reale; quelle che produssero un grande deficit democratico unito alla grande penuria economica. Questo non rende meno doveroso un omaggio a chi meglio ha saputo sintetizzare nella sua persona il legame fra l’esperienza dell’utopia comunista con le masse popolari Italiane.

Non dovendo innalzare un velo sulle differenze e sulle asprezze politiche intercorse fra i socialisti italiani, ben prima che fossero guidati da mio padre Bettino e i comunisti guidati da Berlinguer, penso sia opportuno – in occasione del centenario della sua nascita – valutare la figura di questo uomo politico italiano mettendo in risalto tutto ciò che di buono ha incarnato nella lunga stagione in cui ha rappresentato i comunisti italiani ovvero la forza politica di sinistra più radicata nell’Italia del dopoguerra. Evitando di fare bilanci “á rebours” nel quale far trasparire le luci e le ombre di un lungo percorso politico e di una Storia che soltanto evocata produce in sé “un giudizio storico” per dirla con Croce.

Berlinguer ha cercato di sottrarre il comunismo italiano da una totale sovrapposizione con il comunismo sovietico di cui intuiva i limiti, ma dovendosi muovere dentro una cornice ideologica dal perimetro chiuso e stretto ha confidato nella occasione offerta dalla crisi economica mondiale sfociata nelle risposte autoritarie sudamericane ed anche europee per fare appello alla necessaria coesione nazionale sviluppata come “compromesso” per bypassare la rigida imposizione bipolare costituita dall’equilibrio della guerra fredda che ha separato i due mondi. Dovendosi muovere su questo difficile crinale politico ed ideologico seppe trasformare il Partito comunista italiano in una forza che intuiva la necessità di cambiamento, ma non era in grado di esserne conseguente per le incrostazioni ideologiche e per il freno costituito delle analisi politiche troppo legate alla retorica della rivoluzione di ottobre e alla tarda visione marxista di una società nella quale non tanto il capitalismo in sé quanto le libertà si andavano affermando mentre invece le società comuniste apparivano abbondantemente deficitarie di slancio economico vitale e di decenti libertà civili, di movimento e di pensiero.

La stessa critica alla socialdemocrazia risentiva di un atteggiamento persino pregiudiziale, sia sul terreno di analisi economica “.. le socialdemocrazie” diceva alla fine degli anni settanta “si sono limitate alla gestione del capitalismo…” sia su quello strettamente politico nel quale non mancò di giudizi sprezzanti nei confronti dei socialisti italiani : “… il Psi è diventato il punto di riferimento per un’area neo-liberale, neo-socialdemocratica e persino estremista…”. D’altronde incalzato com’era dall’iniziativa del revisionismo socialista e dalla fine dell’esperienza della solidarietà nazionale, Berlinguer sembrò esser destinato più alla gestione e alla salvaguardia di mantenere saldo ed unito il proprio popolo, la grande area di consenso consolidata che rappresentava un tratto organico della società italiana, che offrire a tutto il paese una reale e concreta prospettiva di governo e di cambiamento.

Era ovvio che la crisi delle società del socialismo realizzato una volta entrate in crisi rappresentavano in ogni caso un freno e un ostacolo a sviluppare un cambiamento radicale che non rappresentasse una cesura traumatica con la tradizione e i presupposti della rivoluzione di Ottobre di cui ebbe a rivendicarne l’attualità nel 1981 ovvero ben 64 anni dopo. Berlinguer aveva un tratto umano che considero fu tanta parte del trasporto e della stima di cui egli era circondato, non parlo soltanto della venerazione dei propri militanti spinta ai confini del culto della personalità come spesso accade ai capi politici delle organizzazioni di massa, ma anche di tutti coloro, amici od avversari che riconoscevano nel suo carattere di anti-divo il carisma proprio di un leader che dissimulava la propria intransigenza dietro un aspetto sinceramente mite e gentile.

L’uomo non era affatto chiuso nelle sue tetragoni posizioni anche se il tatticismo sovente sovrastava le esigenze di cambiamento reale che le speranze suscitate nel Pci richiedevano. L’esigenza di richiamare l’intero sistema politico ad un confronto con la “questione morale” non si riferiva soltanto all’indignazione che suscitavano gli scandali e gli scandaletti della gestione quotidiana che non risparmiavano neanche il suo partito a livello locale, quanto alla denuncia, sacrosanta, di un’eccessiva pervasività del sistema politico nella gestione del bene pubblico che produceva il male della politica, il proliferare di clientelismo e malaffare. Invocare la “diversità” comunista, non lo metteva al riparo dal ritardo delle analisi su società occidentali che erano profondamente cambiate, e il solo richiamo al valore dell’onestà – mutuato poi dall’esperienza di Casaleggio – non rappresenta di per sé il tratto sufficiente per governare i cambiamenti con efficacia seppur resta necessario.

Altalenante nei suoi giudizi su socialisti e socialdemocrazie, convergente spesso sulle analisi di natura internazionale e non indulgente sull’adozione del criterio della governabilità come valore politico necessario in sé scambiato per compromesso di potere in particolare quando il compromesso non erano i comunisti a sottoscriverlo. Sono felici le intuizioni ed i suoi pensieri “lunghi” perché si capisce che era attraversato da molte curiosità e da tanti dubbi, c’è una bella descrizione finale dei rischi che collegano le società del capitalismo maturo. “Viviamo in un’epoca per molti aspetti suprema della storia dell’uomo sia per le possibilità che per i rischi. L’allarme non riguarda solo il rapporto tra lo Stato e l’elettronica ma riguarda anche i fiumi, i laghi, i mari, l’aria che respiriamo l’atmosfera e la troposfera della terra. Grava infine sull’umanità l’incubo di una crescente insufficienza delle risorse alimentari…”.

Ed ancora: “Quali furono gli obiettivi per cui è sorto il movimento per il socialismo? L’obiettivo del superamento di ogni sfruttamento e di oppressione dell’uomo sull’uomo, di una classe sulle altre, di una razza sull’altra, del sesso maschile su quello femminile, di una nazione su altre nazioni… la pace fra i popoli, il progressivo avvicinamento fra governati e governanti, la fine di ogni discriminazione nell’accesso al sapere e alla cultura”. Difficile non sottoscriverne in toto le parole. Ho un ricordo vivido di Enrico Berlinguer. In casa, lo voglio dire con grande sincerità, non ho mai sentito pronunciare una parola di ostilità nei confronti della sua persona, anzi. Fu molto bello quando nel pieno di una partita di calcio a Milano in cui sedevo fra lui e mio padre Bettino ad un certo punto quest’ultimo, che aveva preparata tutta la messinscena, gli si rivolge dicendogli che gli avrebbe voluto parlare.

I compagni avevano già preparato una sala all’interno di una cooperativa socialcomunista a Lampugnano non lontano da San Siro (Cervetti e Tognoli furono gli organizzatori dell’incontro). Berlinguer non fece una piega e poi si rivolse a me dicendo bonariamente: “Vedi? Tuo padre è prepotente, vuole farmi lavorare persino la domenica…”. Craxi non si perdonò la battuta teatrale che di fatto inasprì l’ira funesta dei socialisti al Congresso di Verona dopo i mesi della lotta senza quartiere condotta dai comunisti contro di loro nei luoghi di lavoro, nel sindacato, nelle fabbriche.

Un nuovo solco si creò a sinistra e non fu possibile nella storia poterlo superare. E infatti finì con la fine tragica delle due parti in lotta.
Rendo omaggio alla memoria di Enrico Berlinguer. La nobiltà della coerenza delle proprie convinzioni politiche, opposte alla disinvoltura della politica che abbiamo conosciuto in questi ultimi quarant’anni, fanno risplendere le personalità e le classi dirigenti che hanno costituito l’ossatura democratica di questo paese. Rimpiangerli non è una concessione retorica, ma un reale sentimento unito al bisogno di non dimenticarne la grandezza.