MIND THE ECONOMY

Salvini, la pubblicità negativa e l’effetto tribale

di Vittorio Pelligra

(Ansa)

7' di lettura

Esercizio di logica numero 1: state organizzando una festa per il fine settimana e quel vostro amico simpatico che avevate invitato per animare un po' la serata, vi chiama per dirvi che non potrà venire. Per questo la vostra festa sarà un fiasco? No, perché magari lui non viene, ma verranno altri tre o quattro amici simpatici che renderanno la festa memorabile.

Esercizio di logica numero 2: avete appena scoperto che invece sarà quel vostro amico non troppo simpatico, che di solito deprime le serate, a non poter venire alla festa; per questo la serata sarà certamente un successo? No, perché magari verranno altri tre o quattro amici ancora meno simpatici che trasformeranno la festa in un fiasco.

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Esercizio di logica numero 3: il fatto che la macchina della propaganda salviniana ci faccia sapere che Fabio Fazio, Macron, la Boschi, Saviano, Juncker, Toscani, Gentiloni, Renzi, Mimmo Lucano, Gad Lerner, Elsa Fornero e moltissimi altri non saranno presenti alla manifestazione romana della Lega, ci dice qualcosa di interessante circa la qualità della manifestazione, dei suoi contenuti, del suo valore, della sua necessità? No, anche in questo caso la risposta è logicamente “no”. La pubblicità ”negativa” di Salvini, la pubblicità contro qualcuno, non ci dice assolutamente niente sulla qualità della manifestazione, non serve ad informare i cittadini in generale, ma neanche i suoi sostenitori, circa la manifestazione, le sue caratteristiche, i temi affrontati e i relatori previsti, il perché di questa adunata. E allora a che serve? Perché, invece di dirci, come sarebbe logico, chi ci sarà e di cosa si parlerà, ci si dice invece chi non ci sarà? Perché questo attacco feroce, gratuito e asimmetrico, una vera e propria gogna mediatica verso alcune persone che lui ritiene nemici, neanche nemici politici, ma semplicemente nemici? Persone che hanno espresso idee differenti alle sue o che hanno espresso una posizione contraria ai suoi provvedimenti o anche semplicemente q qualche suo atteggiamento. Perché allora una campagna simile? Innanzitutto, perché la pubblicità negativa funziona bene e costa poco. Crea ricordi duraturi sulle caratteristiche negative dei target presi di mira; le foto usate nella campagna hanno, infatti, tutte una dimensione ridicolizzante. Quando poi verremo chiamati a decidere, per esempio, a esprimere il nostro voto, ci ricorderemo delle qualità negative delle vittime della pubblicità, ma avremo già dimenticato l'identità di chi l'aveva orchestrata. E poi questi messaggi costano poco, perché girano sul web, vengono rilanciati gratuitamente dagli utenti oltre che dai profili fasulli che abbondano tra i follower di Salvini. Non si corre neanche il rischio di generare troppa indignazione; infatti, diversamente da uno spot televisivo che arriva ad una audience indistinta, i messaggi web arrivano, grazie a sofisticate tecniche di profilazione, ad una platea di utenti selezionati: i fedeli e fedelissimi del “Capitano” che certo non si indignano di certe modalità comunicative.

L’esasperazione del «noi» contro «loro»
Ma la funzione principale di questa campagna “contro” è, in realtà, un'altra: quella di segnare un solco ancora più profondo per separare “noi” da “loro”; per rafforzare cioè, per contrasto, il senso di identità dei sostenitori Lega. Ricordate il «molti nemici molto onore»? Ecco, ora si passa dal generale allo specifico, dando anche un nome e una faccia a questi nemici, come nei manifesti “reward” dei film western, in modo da rendere il messaggio ancora più efficace e memorabile. Identità per differenza, costruita con uno spregiudicato ricorso alle passioni; perché Salvini o chi per lui, ha appreso perfettamente la lezione di Hume secondo cui «la ragione è, e non può non essere, schiava delle passioni».

Loro, quelli che non ci saranno, sono i nemici degli italiani, perché traditori dell'interesse della nazione. Sono i multiculturalisti, gli universalisti, i buonisti, i terzomondialisti, i radical-chic, quelli col Rolex, gli altri. Noi siamo “noi”, gli italiani che amano gli italiani. In questo modo la propaganda salviniana fa appello ad uno degli interruttori più sensibili del nostro cervello automatico, viscerale ed emotivo, e cioè, l'avversione al tradimento. Un principio che si è sviluppato evolutivamente in centinaia di migliaia di anni come risposta alla necessità di mantenere stabili gruppi e coalizioni in un ambiente ostile per il singolo individuo isolato. Per questo ancora oggi siamo sensibili ai segnali che ci indicano se un altro può essere considerato un buon compagno di squadra o no, e tendiamo a ostracizzare e punire chi pensiamo non lo sia. Per questo il tradimento è la peggiore delle colpe, degno nella Commedia dantesca, delle fauci di Lucifero.

Ad essere sinceri l'espediente del “lui non ci sarà” lo aveva già inaugurato Filippo Sensi, portavoce di Renzi, in occasione della manifestazione di Piazza del Popolo del 30 settembre scorso, ma in quel caso si trattava più che altro di una iniziativa personale, un esercizio dilettantesco. La “bestia” di Salvini, chiamano la macchina della propaganda social del ministro degli interni, la lezione, invece, l'ha imparata benissimo ed applicata su larga scala. Politicamente la differenziazione da un traditore ben identificato serve in questo momento un duplice scopo: innanzitutto polarizzare l'elettorato tra pro e contro Salvini, tagliando fuori, in questo, modo i 5 Stelle che si vedono sottratti spazi e storiche battaglie; in secondo luogo, la contrapposizione serve a consolidare e irrobustire l'identità del gruppo. Questa è una strategia necessaria in una situazione sociopolitica come quella che deve affrontare oggi Salvini, nella quale la sua base elettorale è portatrice di interessi estremamente eterogenei.

La politica identitaria serve, quindi, alla trasformazione dell'unità decisionale dal singolo al gruppo, dall'individuo alla tribù. Il motto “country first” di John McCain, e l'“America first” di Trump, sono l'ispirazione esplicita, in questo senso, del “prima gli italiani” di Salvini. Evocazione di lealtà. Perché, come mostrato tempo fa da Jonathan Haidt (Menti Tribali. Perché le brave persone si dividono su politica e religione, Codice Ed., 2013) il consenso verso certe politiche non si costruisce in base a ciò che ogni cittadino pensa sia più utile per lui, ma piuttosto in base a ciò che si crede sia più utile per il gruppo con il quale ci si identifica. Un atteggiamento tribale, appunto, piuttosto che individualmente egoistico. Si spiega così, per esempio, perché i ceti più poveri tra i cittadini americani siano ostili verso quelle politiche redistributive che Trump osteggia e che andrebbero, invece, a loro favore. Così come in Italia si può spiegare l'appoggio a provvedimenti come la flat-tax, da parte di classi sociali cui deriverebbero dalla sua applicazione solo grandi svantaggi.

La “testuggine romana” evocata solo teoricamente qualche tempo fa da Di Maio, viene costruita e irrobustita, concretamente invece, ogni giorno di più dall'altro vice-premier. L'affiatamento muscolare (muscolar bonding), la capacità cioè di muoversi all'unisono e l'esperienza del combattimento trasforma, nell'esperienza dei combattenti, gli “io” individuali in un “noi” collettivo. Questo il “comandante” lo sa bene, e come ogni “imprenditore dell'identità” che si rispetti, per usare l'efficace espressione di Alexander Haslam, non è mai stanco, tra un tweet e l'altro, di attivare “interruttori” fatti da comunicazioni, considerazioni, esternazioni, per accendere questo senso del “noi” nei suoi followers.

Così la collezione di figurine del “lui non ci sarà”, le facce abbruttite degli avversari esposti alla pubblica riprovazione, non rappresentano altro che una serie di punti focali su cui far convergere un sentimento condiviso di sdegno, quando non di vero e proprio odio.
In origine erano gli stranieri, gli islamici, poi i radical-chic, i rosiconi e i “sinistri,” oggi quelli che “non ci saranno”, domani gli “altri”, in generale. Quelli che non fanno parte del “noi”, perché non sono degni o perché, in qualche modo, hanno tradito.
Così però si finisce per avvelenare i pozzi e quando ci sarà la sete, nessuno, né gli amici né i nemici sapranno dove andare ad attingere l'acqua. Ci sarà sempre, infatti, un altro diverso da noi, e se continueremo ad identificare questi con i nemici, la spirale di abbruttimento e di imbarbarimento del discorso pubblico potrebbe diventare insostenibile.

Come smontare, dunque, questo meccanismo? Come ripensare una opposizione efficace a questa deriva impunita? Non con lo scontro frontale, nel quale l'opposizione sarebbe certamente perdente. Se si vuole costruire un'alternativa credibile si deve, invece, paradossalmente partire da ciò che si ha in comune. Da quel pochissimo che si può condividere. Per esempio, dalle paure e dalle insicurezze, reali o percepite, che condizionano le vite degli italiani; magari dei più vulnerabili e fragili. Dalle aspirazioni frustrate dei giovani, dalle loro speranze tradite. Dal rifiuto di un modello di sviluppo che avvelena le nostre città e mette a rischio l'ambiente nel quale vivranno i nostri figli.

Come scriveva il grande filosofo liberale Isaiah Berlin, nel suo Il potere delle Idee: «Se un uomo persegue un certo valore e io non lo faccio, sono però in grado di capire perché lui lo persegue, o che cosa significherebbe per me, nella sua situazione, essere spinto a perseguirlo. Di qui la possibilità per gli uomini di comprendersi vicendevolmente». Non lasciamo gli italiani «spaventati e incattiviti», per usare l'efficace espressione del Rapporto Censis presentato questi giorni; occorre forse iniziare a seguire, tutti, ognuno per la propria responsabilità, il consiglio di Henry Ford, quando indicando il segreto del successo diceva: «È la capacità di recepire il punto di vista degli altri e vedere le cose dalla loro prospettiva, così come dalla propria».

Quanto avremmo bisogno di un discorso politico più maturo; non di dispettosi adolescenti, ma di responsabili servitori civili, capaci di mediare tra interessi differenti, non intenti a demonizzare gli avversari con pubblicità “negative” di vario tipo; che se pure possono portare, magari, vantaggi di brevissimo periodo, sicuramente inquinano irrimediabilmente il futuro. No, non abbiamo bisogno della pubblicità negativa del ministro degli Interni, che poi, forse in Italia, è anche illegale. Abbiamo bisogno di gente che, per citare l'ultimo libro di Martha Nussbaum, con «intelligenza, autocontrollo e generosità, cerchi instancabilmente il bene, più che fissarsi ossessivamente sul male».

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