I RAPPORTI CON LA ue

La parabola di Lega e M5S, dal «ritorno a Maastricht» ai patti con Bruxelles

di Alberto Magnani

Governo, Di Maio: con Salvini competizione leale, niente strappi

5' di lettura

«Noi vogliamo restare all'interno dell'Unione Europea solo a condizione di ridiscutere tutti i Trattati». L'annuncio, un po' ambizioso, si legge nel programma elettorale di una forza politica in corsa per il voto alle elezioni nazionali del 2018. Ha avuto successo? Per il momento no. E si può dirlo con qualche certezza, visto che si parla della Lega. Nella campagna elettorale che ha preceduto il voto del 4 marzo, sia il partito di Salvini che gli alleati dei Cinque stelle avevano usato toni dirompenti sull'Unione europea e l'urgenza di rivedere il ruolo dell'Italia nel progetto comunitario.

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Un anno dopo la linea è rimasta identica nelle dichiarazioni, ma nei fatti l'esecutivo ha accantonato (o rinviato) le battaglie sponsorizzate prima delle urne. Certo: 12 mesi sono pochi per stabilire l'efficacia di un'agenda di politica estera di un governo, tra l'altro entrato in carica solo il 4 giugno dello stesso anno. Ma il primo bilancio della guerra «all'Europa dei burocrati e degli speculatori», come la chiamava la Lega nel suo programma, sembra inclinarsi più al compromesso che alla rottura con i «diktat di Bruxelles». Per entrambi i partiti dell'esecutivo.

Cosa diceva la Lega, dal «ritorno a Maastricht» alla riforma di Dublino

Tra i due, il piano di azione più dettagliato sulla Ue è quello lanciato dalla Lega di Salvini. Il capitolo sull’Europa si divide in sette macro-punti: «Ritornare allo stato pre-Maastricht», «La costituzione come garanzia di sovranità», «Invertire il modello basato sulla compressione dei salari», «Revisione dei trattati europei», «Un sistema di regole a misura delle nostre imprese», «Più democrazia e coinvolgimento dei territori», «Meno denari, meno sprechi, più sussidiarietà, più autonomia».

Iniziamo da due propositi centrali e interdipendenti «il ritorno all’Europa pre-Maastricht» e la revisione dei trattati. La Lega aveva riassunto il doppio obiettivo in una sorta di aut aut ai partner comunitari: la permanenza dell’Italia nella Ue in cambio di una revisione dei trattati «che vincolano la sovranità» italiana (ovvero, in particolare, il tetto del 60% sul rapporto debito-Pil e del 3% sul rapporto deficit-Pil). Considerando che l’Italia viola già il tetto massimo sul debito, la «revisione dei trattati» sarebbe dovuta corrispondere a una riscrittura radicale dei trattati nel loro complesso o a forzatura del deficit oltre al 3%. È andata così? Non proprio. Come ha scritto il Sole 24 Ore, una revisione sostanziale dei trattati richiederebbe una procedura complessa e, soprattutto, vincolata al voto favorevole di tutti gli stati membri. Quanto allo sforamento, non è difficile ricordare l’esito del tira e molla con Bruxelles sulla legge di stabilità.

Il governo ha prima insistito per alzare il deficit al 2,4%, salvo tornare sui suoi passi e tagliare la previsione al 2,04%. Il risultato è che l’eventuale «ridiscussione» dei trattati non è avvenuta né in forma integrale né, indirettamente, con il superamento dei vincoli di bilancio sul deficit. Finora non si vedono i risultati neppure per un’altra ambizione in agenda, il divorzio dalla «principale causa del nostro declino economico»: l’euro. Oggi lo scenario di una Itelexit viene evocato saltuariamente, ma non ci sono obiettivi concreti di strappo dalla valuta unica. Nel programma si lasciava intendere il contrario, anche se sfumando il proposito in una formula un po’ generica: la Lega annunciava che «avrebbe continuato» a cercare partner in Europa per avviare un «percorso condiviso di uscita concordata»»

Il bilancio, al momento, è magro anche quando si chiamano in causa altri argomenti-clou come immigrazione, rimpatrio delle aziende in fuga dall’Italia e finanziamento del budget comunitario. Sul fronte immigrazione, non si è arrivati alla «abrogazione di Schengen e del regolamento di Dublino». Anzi: per quanto riguarda il secondo, l’Italia è tra i paesi che hanno contribuito ad affossarne la riforma, preservando un regime oggi sfavorevole ai paesi di primo sbarco. Non sono andate in porto neanche le proposte di una flat tax al 15% per incentivare il ritorno delle imprese che hanno delocalizzato all’estero, né la «riduzione della dotazione finanziaria del prossimo Quadro Finanziario Pluriennale (anzi, il budget è aumentato, ndr)».

I Cinque stelle, dalla «cancellazione del 3%» all’alleanza nel Sud Europa
Quando si parla di Europa, Lega e Cinque stelle si muovono su linee simili. Anche i grillini insistevano nel proprio programma per le nazionali del 2018 su un contrasto all’Europa «dell’austerity» e revisione di alcuni vincoli, a partire dal parametro del 3%. Nessuno dei due obiettivi, per ora, è andato a segno. Da un lato, il partito proponeva di avviare un dialogo per attuare un «profondo progetto di riforma» di «quei trattati che negli ultimi anni hanno fortemente danneggiato la nostra economia». Ma l’ipotesi è ancora incagliata, come nel caso della Lega, sulla difficoltà tecnica di avviare davvero una riforma dei trattati che tengano in piedi l’intera legislazione della Unione europea. Per quanto riguarda i vincoli di bilancio, invece, i Cinque stelle annunciavano di voler invitare «gli Stati del Nord (forse la Germania, anche se si colloca nell’Europa centrale ndr)  a rivedere quanto prima il Fiscal Compact, a cancellare la regola del 3% e ad introdurre, al contempo, misure che stimolino investimenti e crescita». Anche qui, però, non si registrano proposte concrete per la revisione dei parametri, mentre la «sfida» di una legge di bilancio più aggressiva si è risolta come abbiamo visto sopra.

Il partito di Di Maio sembra aver mancato il bersaglio anche su un progetto più immediato e, forse, già spendibile in vista del voto alle europee. I Cinque stelle, sempre stando al programma per le elezioni 2018, si sarebbero dovuti fare promotori di «un'alleanza con i Paesi dell'Europa del sud per superare definitivamente le politiche di austerità e rigore». Al momento il «fronte Mediterraneo» è rimasto sulla carta e, in realtà, l’intesa latita anche per il voto alle europee di maggio. La Lega è accasata nella famiglia di ultradestra dell’Europa delle nazioni delle libertà, mentre i Cinque stelle hanno provato a imbastire una rete internazionale che conta, per ora, solo quattro partner: il partito croato Zivi Zid, specializzato in battaglie contro gli sfratti immobiliari; il movimento polacco Kukiz '15, fondato dall’ex cantante punk Paweł Kukiz e orientato in chiave euroscettica e conservatrice; i liberisti finlandesi Liike Nyt, favorevole al potenziamento di economia di mercato e democrazia diretta online e Akkel, partito greco che rappresenta allevatori e agricoltori locali. I Cinque stelle hanno tentato un ulteriore flirt con i Gilet gialli, con un meeting fra il vicepremier Luigi Di Maio e alcuni rappresentanti del movimento di protesta francese. L’incontro, però, non ha portato bene a nessuno dei due: il governo italiano si è trovato nel vivo di una crisi diplomatica con Parigi e uno tra i leader del gruppo di protesta, Christophe Chalencon, è riuscito a farsi espellere da tutti e due i partiti nati dai gilet gialli in vista del voto di maggio.

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