la provocazione

Nazionalizzare Bankitalia, la proposta shock di FdI: «Allo Stato per 156mila euro»

di Davide Colombo

Un'ora e mezza di colloquio tra Conte e Visco in Bankitalia

2' di lettura

Un salto indietro di tredici anni per dare attuazione a una norma finora rimasta sulla carta (la legge 262 del 2005) e che prevedeva il possibile trasferimento allo Stato della proprietà del capitale della Banca d’Italia. Il tutto al valore nominale del 1936, quando pur con una struttura privatistica la Banca aveva partecipanti al capitale solo pubblici. Allora valeva 300 milioni di vecchie lire o, meglio, 156mila euro di oggi. Una cifra lontanissima dai 7,5 miliardi rideterminati tra il 2013 e il 2015 con la revisione dello Statuto di via Nazionale e la dematerializzazione delle quote.

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È tutta in quelle cifre la «provocazione» contenuta nella proposta di legge presentata dalla leader dei Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, che appunto vuole riportare lo Stato a Palazzo Koch. «Non si capisce perché la Banca d’Italia, che tra l’altro detiene le riserve auree del Paese, non debba essere controllata dal ministero dell’Economia o da soggetti pubblici» dice Guido Crosetto, uno dei primi firmatari della proposta. Il quale, appunto, parla esplicitamente di provocazione: «La rivalutazione a 7,5 miliardi è stata una svendita alle banche che erano già partecipanti al capitale, chiaro che chi è entrato dopo e ha pagato di più dovrà essere indennizzato a un valore congruo. Ma la nostra provocazione resta. Se guardo ai partecipanti principali al capitale della Banca oggi mi chiedo: e se domani quelle banche private dovessero finire in mani francesi che cosa accadrebbe?»

Con il nuovo Statuto nessun partecipante al capitale di Bankitalia può superare le 9mila quote (3%) e se lo fa la parte eccedente non ha diritti di voto né dividendi. Per Statuto i partecipanti e gli organi da essi eletti (Consiglio superiore e Collegio sindacale) non possono influire in alcun modo sulle attività istituzionali. Un principio rispettato per decenni con scrupolo assoluto, normato, e rafforzato nello Statuto Bce, che all’articolo 7 sancisce la totale indipendenza sia della Banca centrale europea sia delle banche nazionali dai governi e dalla politica.

Il riassetto azionario del 2013 venne deciso a valle delle concentrazioni bancarie che negli anni precedenti avevano accresciuto la percentuale del capitale in pochi gruppi maggiori. All’epoca i sei principali quotisti detenevano l’83% del capitale, con eccedenze rispetto al nuovo limite pari al 65%.

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Oggi i partecipanti, grazie alla cessione delle quote eccedenti sono 119 (il dato è aggiornato a fine settembre), ci sono 85 i nuovi arrivati dopo la riforma Letta: 6 assicurazioni, 8 fondi pensione, 9 enti previdenziali, 20 fondazioni di matrice bancaria, 42 banche e 8 casse previdenziali privatizzate che detengono attualmente il 14,53% del capitale avendo investito oltre un miliardo. Oggi restano cinque soggetti con quote sopra la soglia del 3% e i loro diritti congelati equivalgono al 45% del capitale. Sono Banca Intesa, Unicredit, CariBologna, Generali e Carige. La «provocazione» dei Fratelli d’Italia non è rivolta a questi privati: «Ci interessa chiarire una volta per tutte quale deve essere il controllo di Bankitalia - conclude Crosetto - la nostra proposta è in campo, Lega e M5S erano d’accordo, vediamo se ci seguiranno».

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