CANDIDATI A CONFRONTO

Pd: Martina e Zingaretti per la patrimoniale sui super-ricchi, Minniti contrario

di Emilia Patta

A Roma l'assemblea Pd per congresso, assente Matteo Renzi

3' di lettura

Sparita dal vocabolario della sinistra di governo degli ultimi anni, nel Pd che si avvia alla battaglia congressuale (le primarie sono state fissate proprio ieri per il 3 marzo) ritorna a sorpresa la parola “patrimoniale”. Dei tre maggiori candidati alla segreteria del Pd - ossia Nicola Zingaretti, Marco Minniti e Maurizio Martina - solo l’ex ministro degli Interni esclude qualsiasi ipotesi di tassazione sui patrimoni. «Al netto dell’abolizione dell’Imu sulla prima casa, negli ultimi anni la tassazione sul patrimonio è cresciuta - è il ragionamento del “liberal” Enrico Morando, già vice all’Economia con Pier Carlo Padoan, che assieme all’ex ministro dello Sviluppo Carlo Calenda sta aiutando Minniti nell’elaborazione delle tesi congressuali -. E tassare ulteriormente le rendite potrebbe essere controproducente in un momento di deflusso dei capitali dal mercato finanziario».

Zingaretti, nel cui “staff” economico lavora l’ex tesoriere di Pier Luigi Bersani, Antonio Misiani, pensa invece a una tassazione - anche attraverso l’introduzione di un’ aliquota marginale Irpef - dell’1% più ricco della popolazione. «Una sorta di contributo per finanziare le politiche in favore dei giovani e del lavoro», spiega Misiani. E di patrimoniale intesa come tassa sui grandissimi patrimoni, un po’ come quella introdotta recentemente in Spagna dal premier Pedro Sanchez, ha parlato nei giorni scorsi anche Martina. A specificarne il senso è Tommaso Nannicini, già sottosegretario a Palazzo Chigi con Matteo Renzi: «Patrimoniale è una parola che non mi piace, ma dobbiamo discutere di come tassare di meno lavoro e capitale e di più le rendite. Poi possiamo anche riparlare di tasse sugli immobili - dice -. Ma soprattutto dobbiamo discutere di come tassare le multinazionali: in un’economia immateriale la base imponibile non più diventare anch’essa immateriale. Faremo delle proposte. Il riferimento è comunque la Zucman tax (da Gabriel Zucman, economista di Berkeley, ndr)».

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Patrimoniale a parte, su molti punti dell’agenda economica le idee dei tre candidati sono vicine se non convergenti. Ricette in comune per Martina e Minniti, in particolare, come si può dedurre dalle loro biografie e da quelle dei loro collaboratori sui temi economici. Leggermente più in discontinuità Zingaretti, che negli anni in cui gli altri due erano al governo prima con Renzi e poi con Gentiloni era (ed è ancora) impegnato nell’amministrazione della regione Lazio. Tutti condannano il reddito di cittadinanza, ad esempio, indicando nel rafforzamento del Rei introdotto dal governo Gentiloni la risposta al disagio sociale e alla povertà e nell’avvio delle politiche attive del lavoro previste dal Jobs act la risposta alla disoccupazione giovanile. Neanche Zingaretti mette infatti in discussione il Jobs act, eliminazione dell’articolo 18 per i neo assunti compreso, limitandosi a prevedere una «revisione pragmatica».

Tutti e tre i candidati, inoltre, vedono nella prosecuzione di Industria 4.0 e negli incentivi fiscali all’innovazione e alla ricerca la strada maestra per la crescita. Assieme al taglio del costo sul lavoro, anche se declinato in maniera diversa: per Zingaretti deve direzionarsi verso quelle aziende che riducono la forbice salariale, mentre per Martina deve principalmente incentivare il lavoro stabile. Lo staff di Minniti immagina invece un taglio del cuneo fiscale che grava sulle imprese e sui lavoratori più generale, ponendo come obiettivo di medio termine il raggiungimento degli standard tedeschi. Tutti infine fanno propria la proposta di assegni a famiglie con figli (240 euro al mese per figlio) contenuta nell’ultimo programma elettorale del Pd. Dallo staff di Minniti un’idea in più: tassare meno il lavoro femminile per ridurre il gap che su questo punto ci divide dagli altri grandi Paesi europei.

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