il calvario di una vittima

Pedofilia, testimonianza-shock al summit in Vaticano. «Io abusata a 11 anni»

di Carlo Marroni

Pedofilia, da Spotlight al cardinale «spretato»: la storia degli abusi nella Chiesa

4' di lettura

«Buonasera, volevo raccontarvi di quand'ero bambina. Ma è inutile farlo perché a 11 anni un sacerdote della mia parrocchia ha distrutto la mia vita». Inizia così la raggelante testimonianza letta la sera di venerdì da una donna, presumibilmente italiana di poco più di 50 anni, che ha subito abusi ripetuti per cinque anni (quindi per il periodo dell'adolescenza), e – cosa ancora più incredibile – «nessuno se n'è accorto». La testimonianza è stata resa nota dalla stessa sala stampa della Santa Sede – a conferma dello spirito di massima trasparenza impressa dal Papa in questo summit dove sono stati chiamati i capi delle chiese del mondo più tutti i vertici della Curia, 190 persone - e si aggiunge alle altre già lette nei giorni scorsi.

«Da allora io, che adoravo i colori e facevo capriole sui prati spensierata, non sono più esistita. Restano invece incise nei miei occhi, nelle orecchie, nel naso, nel corpo, nell'anima tutte le volte in cui, lui, bloccava me bambina con una forza sovrumana: io mi anestetizzavo, restavo in apnea, uscivo dal mio corpo, cercavo disperatamente con gli occhi una finestra per guardare fuori, in attesa che tutto finisse. Pensavo "se non mi muovo, forse non sentirò nulla; se non respiro, forse potrei morire"».

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«Come potevo capire, io bambina? Pensavo: sarà colpa mia?»
«Quando terminava, riprendevo quello che era il mio corpo, ferito e umiliato e me ne andavo credendo persino di essermi immaginata tutto. Ma come potevo io, bambina, capire ciò che era accaduto? Pensavo "sarà stata sicuramente colpa mia!" o "mi sarò meritata questo male?». La testimonianza prosegue nel descrivere le conseguenze. «Questi pensieri sono le più grandi lacerazioni che l'abuso e l'abusatore ti insinuano nel cuore, più delle ferite stesse che lacerano il corpo. Sentivo di non valere ormai più nulla, neppure di esistere. Volevo solo morire: ci ho provato... non ci sono riuscita. Mentre io non parlavo, il mio corpo ha iniziato a farlo: disturbi alimentari, ospedalizzazioni varie: tutto urlava il mio star male mentre io, completamene sola, tacevo il mio dolore. Tutto veniva attribuito all'ansia per la scuola che improvvisamente, andava malissimo. Poi, il primo innamoramento... il mio cuore che batte e si emoziona in lotta con lo stesso cuore che rallenta per il terrore vissuto; gesti di tenerezza contro atti di forza: un paragone insostenibile. La consapevolezza: una realtà insopportabile! Per non farmi sentire il dolore, lo schifo, la confusione, la paura, la vergogna, l'impotenza, l'inadeguatezza, la mia mente ha rimosso i fatti avvenuti, ha anestetizzato il corpo mettendo delle distanze emotive rispetto a tutto ciò che vivevo facendo in me danni enormi».

L'ex marito che l'accusa di "genitorialità indegna"
Poi la fase adulta. «A 26 anni il mio primo parto: flash back e immagini hanno riportato alla mente tutto. Il travaglio bloccato; mio figlio in pericolo; l'allattamento reso poi impossibile per i terribili ricordi che affioravano. Credevo di essere impazzita. Allora mi sono confidata con mio marito, confidenza usata poi contro di me durante la separazione, quando, in nome dell'abuso subíto, chiedeva che mi fosse tolta la potestà genitoriale quale madre indegna. Poi l'ascolto paziente di una cara persona e il coraggio di scrivere una lettera a quel sacerdote conclusa con la promessa di non lasciargli mai più, il potere del mio silenzio». Un racconto senza sconti alle conseguenze sulla sua vita. «Da allora, fino ad oggi, continuo un durissimo percorso di rielaborazione che non ha scorciatoie, che richiede un'enorme costanza per ricostruire in me identità, dignità e fede. Un percorso che si fa per lo più in solitudine e con l'aiuto di qualche specialista, se possibile. L'abuso crea un danno immediato, ma non solo: più difficile è fare i conti ogni giorno, con quel vissuto che ti invade e si presenta nei momenti più improbabili. Ci dovrai convivere...sempre! Puoi solo imparare, se ci riesci, a farti ferire di meno. Dentro te abitano un'infinità di domande a cui non troverai risposta, perché l'abuso senso non ne ha!».

Le vittime non sono colpevoli del loro silenzio
«La Chiesa può andare fiera della possibilità di procedere in deroga ai tempi di prescrizione (diritto negato dalla giustizia italiana), ma non del fatto di riconoscere come attenuante, per chi abusa, l'entità del tempo trascorso tra i fatti e la denuncia (come nel mio caso). La vittima non è colpevole del suo silenzio! Il trauma e i danni subiti sono tanto maggiori quanto più è lungo il tempo del silenzio, che la vittima trascorre tra paura, vergogna, rimozione e senso di impotenza. Le ferite non vanno mai in prescrizione, anzi!» dice, e aggiunge: «Noi vittime, se riusciamo ad avere la forza di parlare o denunciare, dobbiamo trovare il coraggio di farlo pur sapendo che rischiamo di non essere credute o di dover vedere che l'abusatore se la cava con una piccola pena canonica. Ciò non può e non deve essere più così! Ho avuto bisogno di 40 anni per trovare la forza della denuncia. Volevo rompere il silenzio di cui si nutre ogni forma di abuso; volevo ripartire da un atto di verità, scoprendo poi che questo atto offrivo un'opportunità anche a chi aveva abusato di me».

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