Alla scoperta del Monastero di San Giovanni Evangelista a Parma

Alla scoperta del Monastero di San Giovanni Evangelista a Parma

La fabbrica della chiesa (1490-1519), diretta da Giliolo da Reggio prima e dal parmense Bernardino Zaccagni poi, vide sicuramente l’intervento costante e accorto della committenza benedettina, a cui vanno riconosciute le vere responsabilità progettuali e attribuite le scelte che fanno di San Giovanni uno dei primi edifici in ambito urbano aggiornato al nuovo linguaggio rinascimentale.

La facciata, che la fabbrica cinquecentesca non realizzò, fu progettata successivamente, in stile già barocco dall’architetto ducale Simone Moschino ed eseguita tra il 1604 e il 1607 da Giovan Battista Carra da Bissone, a cui si devono anche le statue dei vari santi e abati dell’Ordine che la ornano. Sul coronamento della facciata è l’imponente aquila in rame simbolo dell’Evangelista. Di poco successivo al prospetto, è il campanile costruito nel 1618. Attribuito al parmense Giovanni Battista Magnani, è il più alto della città, misurando m 76,00. I muri nella base esterna coprono m 9,45 x 9,45 e superano di poco i due metri di spessore. L’interno con pianta a croce latina, è scandito da pilastri cruciformi in tre navate coperte da volte a crociera così come il transetto e il presbiterio, mentre all’incrocio dei bracci s’innalza la cupola. Sulle navate minori si aprono sei cappelle a pianta poligonale, mentre altre due fiancheggiano il presbiterio. Di pura linea rinascimentale, misura m 67 di lunghezza e 18,20 20 di larghezza. L’altezza della navata centrale è di m 19,00 e delle navate laterali è di m 10,40. Se è indubbio e ancora fondamentale il riferimento al Duomo romanico, numerosi sono i segni di una sensibilizzazione alla cultura artistica del Rinascimento: i pilastri scanalati in pietra grigia, col dado al di sopra degli eleganti capitelli compositi, sono una chiara ripresa dal Brunelleschi di San Lorenzo, così come un richiamo all’Alberti del Tempio malatestiano di Rimini sono i festoni dei capitelli dei tre pilastri verso l’abside. D’altra parte la posizione delle due cappelle ai lati del presbiterio, perfettamente in asse, a differenza di quanto avviene in Duomo, con le navate laterali, risponde alle nuove esigenze della prospettiva. Forse più ancora dell’architettura, la ricca decorazione dell’edificio rivela un’apertura della committenza verso scelte decisamente innovative, come quella che vedremo espressa dalla cupola correggesca.

In controfacciata vi è la grande tela raffigurante la Visione di san Giovanni nell’isola di Patmos dipinta nel 1687 dall’artista di formazione genovese Giovanni Battista Merano. Sui pilastri di sinistra una serie di lapidi commemorative dei maggiori esponenti dell’umanesimo locale, conferma il ruolo di sede culturale che il monastero dovette svolgere tra il Quattrocento e il Cinquecento. Le crociere e gli archi della navata centrale furono dipinti intorno al 1520 con candelabri, putti e simboli del Santo titolare della chiesa, dal pittore senese Michelangelo Anselmi che, trasferitosi a Parma tra il 1516 e il 1520, svolse qui un ruolo determinante come tramite tra il manierismo toscano e la cultura artistica locale. Sono invece del Correggio (1522-1523) le grottesche dipinte sui semipilastri e caratterizzate da una ricchezza quasi barocca che rinnova questo diffuso motivo decorativo. Fu sempre il Correggio l’autore del fregio che corre lungo le pareti della navata e che continua quello da altri già realizzato nel transetto, proseguendone la tematica sacrificale interpretata però in senso cristiano e non pagano. Il fregio è costituito da un motivo centrale monocromo che si ripete, rappresentando alternativamente il Sacrificio dell’Agnello e l’Ara del Dio Ignoto, scene prive di qualsiasi annotazione storica che, come generiche raffigurazioni di culto, paiono voler esaltare una religione universale. Ai lati delle scene si trovano Profeti e Sibille che reggono scritte – gli uni in latino, le altre in greco – illustranti la storia di Cristo. La ripetitività di schema, sia delle scene monocrome che delle grottesche dei semipilastri, presuppone evidentemente l’utilizzo di cartoni e rende quasi certo l’intervento di aiuti a tradurre pittoricamente l’invenzione correggesca. Tra essi vi fu quasi sicuramente il parmense Francesco Maria Rondani. Le cappelle laterali furono tutte ridecorate, nelle pareti e nelle volte, dal 1667 al 1730. A eccezione della quarta cappella di destra e della quarta di sinistra dipinte dal Merano, vi lavorarono, dipingendo con gusto barocco, figure e sfondati prospettici, coppie di affermati frescanti bolognesi: Angelo Michele Colonna e Giacomo Alboresi prima, Giacomo Antonio Boni e Tommaso Aldrovandini poi. A essi si affiancò anche il parmense Giuseppe Carpi.

Per quello che riguarda le cappelle di destra, si segnala nella seconda la tavola con la Natività dei fratelli bolognesi Giacomo e Giulio Francia datata 1519, mentre nella terza è degna di nota la pala con l’Adorazione dei Magi (1499) di Cristoforo Caselli, pittore parmense legato alla cultura veneta, di cui qui è evidente l’influsso nella minuziosa scena del viaggio nel registro superiore. Nella quarta cappella, dipinta come si è detto, dal Merano nel 1684 con le Storie di san Giacomo, vi è la bella tela con la Madonna, Bambino e san Giacomo Maggiore (15421543) di Girolamo Bedoli Mazzola, artista del secondo manierismo parmense, molto vicino al Parmigianino di cui tra l’altro volle assumere il nome dopo averne sposato una cugina. Merita attenzione anche la quinta cappella; per la quale il Correggio realizzò, dopo il 1524, su commissione della famiglia Del Bono, le due tele, l’una rappresentante la Deposizione, l’altra il Martirio dei quattro santi, ora alla Galleria nazionale e qui sostituite da copie settecentesche. Presumibilmente dell’Allegri è anche l’affresco del sottarco con Gesù Cristo al centro, i santi Pietro e Andrea a destra, la caduta di san Paolo a sinistra. Nel braccio destro del transetto si apre la cappella di san Giovanni, primo abate del monastero: le sue spoglie sono conservate nell’urna al di sotto del ricco altare tardo seicentesco, mentre Storie della sua vita sono narrate nel catino, affrescato dall’Anselmi intorno al 1521. La pala d’altare raffigurante il Miracolo di san Giovanni abate è del bolognese Emilio Taruffi che dovette eseguirla verso il 1674. Alle pareti del transetto spiccano i bellissimi gruppi plastici di Santa Felicita con il figlio Vitale e San Benedetto, opere del modenese Antonio Begarelli che li realizzò attorno al 1543 insieme alle altre due statue del braccio sinistro del transetto, San Giovanni Evangelista e Madonna col Bambino e san Giovannino. Tutte in terracotta coperta da una leggera cromia bianca a simulare il marmo, i gruppi furono eseguiti per la crociera del dormitorio e qui collocati in epoca ottocentesca. Nella cappella a destra del presbiterio si segnala l’affresco del sottarco raffigurante Santa Cecilia seduta all’organo e Santa Margherita con il canonico drago. Alternativamente riferito al Bedoli, al Parmigianino e all’Anselmi, a testimoniare lo stretto legame stilistico che lega questi tre esponenti del manierismo locale, l’affresco è stato recentemente attribuito al Bedoli. Al di sotto della volta del transetto, corre un fregio nel quale tondi in prospettiva con busti di papi, vescovi e monaci benedettini si alternano a scene monocrome di sacrificio ripetute con minime varianti.

Netta è la differenza di mano tra il fregio della parte sinistra e quello della parte destra: il primo è datato 1514 e firmato dallo sconosciuto pittore Giovanni Antonio da Parma, il secondo, di maggiore qualità, pare rivelare, soprattutto nei tondi, legami con la produzione di placchette bronzee del Quattrocento padovano. Nel mezzo del transetto si apre la cupola, capolavoro correggesco. È la prima opera in ordine cronologico eseguita dall’Allegri in san Giovanni (1520) e indubbiamente la più affascinante presente in chiesa per la straordinaria carica innovativa che esprime. Anticipando quel linguaggio già quasi barocco che si manifesterà appieno nell’affollato e vorticoso cielo della cupola del Duomo, l’invenzione del Correggio annulla il limite fisico delle pareti creando l’illusione di uno spazio immaginario: un cielo aperto sulle cui nubi sono adagiati gli apostoli, di un vigoroso plasticismo michelangiolesco, e al cui centro campeggia la figura di Cristo ritratta “di sotto in su”. L’identificazione del soggetto rappresentato è piuttosto complessa: se lo schema iconografico pare alludere a un’Ascensione del Redentore, a guardar bene il moto di Cristo, reso evidente dallo svolazzo dei panneggi, è discendente e non ascensionale, mentre, d’altra parte, la figura quasi nascosta di san Giovanni, steso sul cornicione della cupola, al di sotto del cerchio degli apostoli e visibile solo dal presbiterio, riconsegna la composizione alla tematica del Santo titolare della chiesa. Nei pennacchi sono rappresentati i Padri della Chiesa accoppiati agli Evangelisti: s. Marco e S. Gregorio Giovanni e S. Agostino,S. Luca e S. Ambrogio,S. Matteo e S. Girolamo; mentre lungo il tamburo compaiono a monocromo i simboli degli evangelisti tra angeli. Nei sottarchi Correggio dipinse figure monocrome di eroi biblici, mentre decorò a grottesche i semi-pilastri sottostanti. Al di sopra del presbiterio è ancora l’Allegri a dipingere le grottesche della crociera mentre i putti nelle vele sono più tardi.

L’installazione delle imponenti cantorie in epoca seicentesca compromise un’altra opera del Correggio: un fregio realizzato lungo le pareti del santuario, poco prima di quello della navata e anch’esso legato alla tematica sacrificale. Un frammento è conservato nella Sala capitolare. In presbiterio, sopra l’antico altare marmoreo, spicca nella sua grandezza e nudità il Crocefisso, omaggio (Pasqua 1990) dell’artista parmense Carlo Mattioli. Sulle enormi tavole in legno a forma di croce spicca un Cristo monocromo, di un livore estremo; sono annullate tutte le sensualità per giungere al massimo dell’intensità espressiva; si legge “l’essenza ultima dell’anima spogliata e purificata”; esplode nella sua grandezza “l’atto di suprema dedizione umanizzante”. E da questa sublimità della fine ecco «quell’aureola che s’accende improvvisa come un fuoco d’amore. Ecce homo». Nella zona absidale è lo splendido coro ligneo costituito da 69 stalli – 41 superiori e 28 inferiori – adorni di intagli e magnifiche tarsie con paesaggi urbani e collinari, immagini di frutti, strumenti musicali, libri, meccanismi d’orologio. Il coro fu realizzato in un lungo periodo che va dal 1513 al 1538, a opera del parmense Marcantonio Zucchi al quale subentrarono poi i fratelli Gian Francesco e Pasquale Testa. Il grande leggio nel centro del coro è di Cesare Bianchi (architetto) e Andrea Boschi (scultore) e porta la data del 1749. Nell’abside spicca la grande pala con la Trasfigurazione dipinta dal Bedoli nel 1556 con evidente riferimento al dipinto di Raffaello della Pinacoteca Vaticana. Si segnala inoltre, nel catino, la copia dell’affresco correggesco con l’Incoronazione della Vergine tra il Santo evangelista, Mauro, Benedetto e il Battista, realizzata dal bolognese Cesare Aretusi nel 1586, quando l’ampliamento della zona absidale comportò l’abbattimento del catino primitivo dipinto dal Correggio nel 1522. Il rifacimento, avvenuto non senza grossi errori prospettici ai lati, fu un precoce esempio di restauro conservativo attuato non a caso in un periodo di intensi studi e rilancio dell’opera correggesca. Il gruppo centrale del dipinto autentico, con Cristo e la Vergine, è ora esposto alla Galleria nazionale, mentre la relativa sinopia è alla Biblioteca palatina. Altri frammenti di minore importanza sono conservati alla National Gallerv di Londra. Ritornando nel transetto si segnala, nella cappella a sinistra del presbiterio, intitolato a san Benedetto abate, rappresentato morente in piedi nella pala dell’altare, l’affresco del sottarco con le figure di Sant’Agnese a sinistra e Santa Caterina a destra, dipinte dall’Anselmi nel 1522-1523 e caratterizzate da evidenti richiami alla maniera parmigianinesca. I monaci solevano decorare i passaggi da un luogo all’altro con immagini sacre. Uscendo dalla chiesa verso il chiostro del Capitolo, s’incontra la lunetta di san Giovanni. In un breve spazio semicircolare, il Correggio ha saputo ritrarre l’Evangelista in età giovanile, mentre in atteggiamento ispirato sembra intento ad ascoltare una voce che venga dall’alto. Capolavoro di inestimabile bellezza. La data è incerta; ma certamente precede quella della cupola. Sul fregio nero, la Scritta in lettere dorate: ALTIUS CAETERIS DEI PATEFECIT ARCANA. Lo stipite in pietra ornata, del portale in legno, è del 1515 ad opera di Antonio Ferrari d’Agrate. Sulla parete di fondo del transetto vi è la cappella di san Mauro: il catino fu dipinto, come quello diametralmente opposto dall’Anselmi nel 1521, rappresentandovi San Benedetto in trono tra i santi Flavia, Placido, Mauro e Scolastica. La pala con San Mauro che guarisce gli appestati è opera di Emilio Taruffi (1674).

Degne di attenzione sono quasi tutte le cappelle laterali di sinistra. Nella sesta spicca la tavola con Cristo che porta la croce dell’Anselmi, opera commissionata nel 1522, che esprime appieno lo stile del pittore senese nella larghezza di contorni, nella costruzione tutta cromatica della figura, nella prevalenza del rosso. Anche gli affreschi del sottarco si devono probabilmente all’Anselmi. La quarta cappella è indubbiamente tra le più ricche e affascinanti. Nel sottarco è uno dei tre affreschi realizzati in San Giovanni da Francesco Mazzola detto il Parmigianino, intorno al 1522. Qui rappresentò entro nicchie due santi vescovi, Nicola di Bari a destra e Ilario a sinistra, figure caratterizzate da forme espanse e monumentali ancora lontane dall’astratta e preziosa eleganza del Parmigianino maturo. Mentre le pareti sono decorate dalle già citate scene barocche del Merano raffiguranti Storie di san Nicola, sull’altare risalta la tela con lo Sposalizio mistico di santa Caterina del Bedoli (1536). Nella terza cappella si segnala la tela raffigurante la Madonna con Bambino e i santi Stefano papa e Giovanni evangelista del fiammingo Giovanni Sons, attivo a Parma nel tardo Cinquecento. Nel sottarco della seconda cappella di nuovo Parmigianino dipinse a destra San Vitale (o San Secondo) nell’atto di trattenere il cavallo che illusionisticamente si proietta al di fuori dello spazio in cui è collocato, e due Diaconi intenti a leggere, a sinistra. Il sottarco della prima cappella fu probabilmente l’ultimo a essere eseguito dal Parmigianino che vi affrescò Sant’Agata e il carnefice e le Sante Apollonia e Lucia. Se il gruppo di destra conserva ancora una certa durezza rivelando un chiaro riferimento al Pordenone, quello di sinistra è caratterizzato da un’estrema dolcezza che rimanda, come gli splendidi putti della fascia esterna, al Correggio intento a lavorare a pochi passi da queste cappelle. La sagrestia fu dipinta nel 1508 dal milanese Cesare Cesariano, celebre per essere l’autore della traduzione in volgare di Vitruvio. Il programma iconografico comprende grottesche e raffigurazioni emblematiche delle virtù teologali e cardinali nelle unghie delle volte, cartelle e tondi con scene dall’Antico Testamento nei sottostanti archi, mentre il soffitto è dipinto con tondi raffiguranti marmi pregiati, anch’essi allusivi alle virtù. Lo stile degli affreschi, soprattutto negli sfumati dei volti delle virtù, rivela l’influenza della grande cultura artistica milanese, leonardesca in particolare. A giudizio dei critici è una delle più belle sagrestie d’Italia. I due pittori parmigiani, Luigi e Salvatore Marchesi l’hanno riprodotta in tele, rimaste famose. Tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento, alla sagrestia fu aggiunto un corpo ottagonale, antico oratorio di san Colombano, affrescato nel 1516 da Innocenzo Martini. Sulla parete di fondo, un Reliquiario in legno dorato a sportelli. Gli esterni, dipinti da Michelangelo Anselmi rappresentano san Giovanni il Battista e san Sebastiano. Gli interni, dipinti dal Martini, sono andati perduti. Il bel rivestimento ligneo in noce della sagrestia è opera di artigiani locali del Seicento. Nel 1992 la sagrestia si è arricchita di un’opera d’arte contemporanea, omaggio di due artisti rumeni: Varvara (pittrice) e Aldin (architetto-decoratore) Rashid. L’icona raffigurante la Crocifissione, incorniciata con foglio d’argento lavorato a sbalzo, proviene dall’esposizione nella basilica di Santa Maria in Montesanto a Roma, sede della “Messa degli Artisti”. Oggetto di pregevole manifattura artistica si ricollega, con raffinata sensibilità, alla secolare tradizione dell’arte «sacra della nostra consorella Chiesa Ortodossa».

Testi e immagini presi da www.monasterosangiovanni.com/

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