Azeglio Vicini, Italia ’90 e il mondiale che ha bruciato una generazione

Con Azeglio Vicini se ne va l'ultimo commissario tecnico davvero amato da tutti, condottiero di una nazionale indimenticabile nel periodo storico più bello del calcio italiano. Storia di un mondiale, quello del 1990, che ha sedotto e bruciato un'intera generazione di italiani

Che poi, a pensarci bene, era tutto chiaro fin dal 1986. Dal 29 ottobre precisamente, quando una delle Under 21 più talentuose della storia perse la finale degli Europei contro la Spagna. Aveva vinto 2-1 all’andata all’Olimpico, stadio nevralgico in questa storia, e perso con lo stesso risultato al ritorno a Valladolid. Calci di rigore. Gli iberici ne segnano tre. Gli azzurrini ne sbagliano altrettanti. Dal 29 ottobre 1986 al 3 luglio 1990, stadio San Paolo di Napoli, semifinale con l’Argentina. I sudamericani non sbagliano mai. Donadoni e Serena sì. Niente europeo Under 21 e niente mondiali. Sulla panchina di quelle nazionali, entrambe, sedeva Azeglio Vicini.

Ecco perché la notizia della sua scomparsa colpisce così tanto. Perché fu lui a reggere le redini azzurre nel periodo più bello e ricco nella storia del calcio italiano. Fu promosso commissario tecnico al posto di Bearzot dopo la disfatta di Messico ’86 e lui promosse nella nazionale maggiore tanti ragazzi di talento che avrebbero dominato la serie A più competitiva di sempre. Perché la seconda metà degli anni Ottanta fu il paradiso di tutti i tifosi e gli appassionati. Oggi che siamo periferia, ricordiamo con nostalgia quando eravamo centro dell’impero. Tutti i migliori crescevano nei nostri vivai, e tutti i migliori stranieri venivano comunque a giocare da noi. Erano anni in cui la Juve non vinceva più, ma tutti gli altri sì. Il Milan degli olandesi, il Napoli di Maradona, l’Inter dei record nel 1989, poi anche la Sampdoria. Dominavamo in Europa. Appena una manciata di giorni prima di Italia ’90, avevamo fatto piazza pulita delle tre coppe europee. La Juve aveva vinto la Uefa in finale contro la Fiorentina. La Sampdoria la Coppa delle Coppe (oh, se solo tu potessi un giorno tornare) ai supplementari con una doppietta di Vialli, il Milan la seconda Coppa dei Campioni consecutiva devastando prima lo Steaua Bucarest e poi piegando il Benfica. Quel mondiale era nostro di diritto, non poteva essere di nessun altro.

Quell’Italia, l’Italia di Vicini, giocava il calcio più bello di tutti. E tutta l’Italia rappresentava, non c’era un blocco univoco come quello juventino nell’82. La difesa, tra Zenga, Ferri, Bergomi, Maldini e Baresi, era metà nerazzurra e metà rossonera. A centrocampo c’erano Roma (Giannini), Inter (Berti), Napoli (De Napoli), Milan (Donadoni), Juve (De Agostini), in attacco Sampdoria (Vialli), Napoli (Carnevale), Fiorentina (Baggio) e poi naturalmente Totò Schillaci. Le notti magiche erano magiche davvero e per cinque partite di seguito l’Olimpico fu lo stadio più bello e caldo di tutti i tempi. E poi ci fu il 3 luglio, la semifinale con l’Argentina nell’unico stadio in cui non dovevi affrontare proprio l’Argentina di Maradona che aveva appena vinto lo scudetto, contro un portiere di cui non si sapeva nulla prima né si seppe mai nulla dopo, che misteriosamente divenne la più micidiale macchina para rigori da quando l’uomo inventò il tiro dagli undici metri. Guardate Goycochea, Sergio, su Wikipedia. Non avrebbe giocato nemmeno un minuto se il suo titolare, Pumpido, non si fosse fatto male contro l’Urss alla seconda partita, e pure l’Urss c’entra molto in questa storia.

L’Argentina che era stata presa a pallonate dal Brasile agli ottavi, e messa sotto dalla Jugoslavia ai quarti, in semifinale quasi per caso, sicuramente non per merito. L’Argentina che pareggia e segna il primo gol agli azzurri con Caniggia che colpisce di nuca, senza nemmeno guardare la porta, sull’unico punto debole di Zenga, le uscite. Il mondiale che doveva essere nostro, o almeno la finale, che divenne invece di proprietà non del più bravo e meritevole, ma dei più fortunati e ingannevoli. Se vi sembra un magnifico specchio di quello che l’Italia sarebbe diventata nei tre decenni successivi – dove non vanno avanti i più meritevoli ma i più fortunati, ammanicati, raccomandati e un sacco di altri aggettivi che finiscono in ‘ati’, compreso pregiudicati – è esattamente così. Al punto che per molti di noi, che all’epoca passavano dall’infanzia all’adolescenza, fu un vero e proprio trauma. Scherzosamente, si intende, ma neanche tanto (La sindrome di Italia ’90, edizioni Fermento, se volete approfondire). Fu un pasticcio tipicamente italiano, una cosa nostra – scritto in minuscolo – proprio negli anni in cui Giovanni Falcone ci insegnava cosa fosse davvero Cosa Nostra, scritto in maiuscolo.

Ecco, Vicini era l’uomo che quella squadra l’aveva costruita. Era un simpatico romagnolo con una grande capacità di raccontare barzellette e sdrammatizzare. Ma, soprattutto, era un uomo del popolo per il popolo. Si formò a Coverciano, che all’epoca sfornava ufficiali adepti alla causa azzurra, come era successo a Berzot. La sua era la nazionale di tutti come era di tutti lui, perché non era stato di nessun altro prima. E nemmeno dopo: quando provò ad allenare l’Udinese fu un disastro. Vicini, come tanti altri generali della storia, ebbe in sorte di fermarsi due volte contro la Russia. La prima agli Europei del 1988, con la giovane Italia eliminata in semifinale a Stoccarda sotto la pioggia battente da due gol di Litovchenko e Protasov. La seconda nel 1991, a Mosca, il 12 ottobre, qualificazioni agli Europei. Serviva una vittoria per qualificarsi, arrivò un pareggio 0-0 e un palo di Rizzitelli che cambiò la storia del calcio.

Quel giorno finirono i commissari tecnici e iniziarono gli allenatori di club prestati alle nazionali. Arrivò Arrigo Sacchi e portò l’Italia a una finale mondiale che non meritava di giocare e a una sfida con il Brasile che non meritava di perdere. Baggio tira il rigore decisivo nell’oceano Pacifico e siamo in piena psicosi rigori, seconda di tre eliminazioni consecutive dal dischetto. Ma Sacchi aveva stampato ‘Milan’ sulla pelata ed era una scritta fatta con inchiostro indelebile. Venne Lippi, che quel mondiale ce lo ha fatto vincere nel 2006, ai rigori proprio, concludendo il cerchio. Ma anche lui scriveva ‘Juventus’ con il fumo del suo sigaro. Lui e Sacchi erano i Ct di molti, mai di tutti. Vicini era di tutti. Come lo sarebbe stato Zoff, un altro beffato dalla sorte avversa a Euro 2000, se ne avesse avuto il tempo. Curiosamente, visto che il tempo è cinico ma anche ciclico, nel senso della bicicletta, quasi ogni settimana mi capita di passare pedalando davanti al ritiro della nazionale azzurra nel 1990, a Marino, campagna a sud della capitale. E il primo che mi viene in mente è sempre Vicini. E’ stato l’ultimo commissario tecnico che abbiamo mai davvero amato. E lo è stato in un periodo storico che non abbiamo mai davvero dimenticato. Lo perdiamo proprio nell’anno in cui l’Italia perde un altro mondiale, stavolta senza nemmeno partecipare. Da oggi in avanti, la nostalgia fa un impressionante balzo in avanti nelle posizioni di vertice della classifica dei sentimenti.