Affrontare la tematica del colonialismo non è operazione esente da rischi, fraintendimenti e prese di posizioni ideologiche. D’altro canto la distanza cronologica che ci separa da questi eventi non è stata sufficiente per consentire ad alcune tensioni di sedimentarsi. Emerge sempre più l’idea che l’Italia non sia stata in grado di fare appieno i conti con il proprio passato coloniale, seppure le conseguenze di questo fenomeno siano ancora in divenire. La storia del colonialismo si sovrappone alla già spinosa parentesi del fascismo. Nella corsa alla spartizione del mondo l’Italia arrivò con la stessa ferocia degli altri, ma fuori tempo massimo. Laddove le grandi potenze coloniali hanno piantato la loro bandiera, la normale evoluzione ha conosciuto importanti sconvolgimenti. Guardando almeno i territori di pertinenza italiana, la situazione appare intricata. L’Etiopia è lacerata da guerre tra bande. Non dissimile la situazione dell’Eritrea e la Somalia è un failed-state. Molto più stabile appare la situazione di colonie come quella del Dodecaneso, che ereditavano apparati burocratici statali dall’Impero ottomano. Discorso a parte per la Dalmazia, realtà da secoli contigua a quella italica e non annoverabile tra le colonie. Infine Tientsin, piccola concessione portuale amministrata da un esiguo gruppo di italiani, dove del nostro passaggio non rimangono che pochi edifici.

Colonialismo all’italiana

Per svariate ragioni l’Italia apparve fin da subito come uno stato coloniale debole. La ridotta capacità di proiezione rispetto alle altre grandi potenze coloniali, rese i suoi possedimenti più lontani e sostanzialmente più ingestibili. L’eterogeneità dell’impero coloniale italiano dipese anche dalla diversa quantità e qualità di energie e finanziamenti profusi nella creazione e gestione delle colonie. In una fase storica in cui la proiezione degli Stati al di là dei propri confini geografici era un discrimine per la permanenza di questi nel club dei grandi, l’Italia giocò l’unica carta a sua disposizione. Assodata la sua inferiorità di mezzi e risorse rispetto a grandi potenze quali Francia e Regno Unito, gli italiani entrarono in questo agone agguerriti e animati da una volontà ferrea che celava una sostanziale impreparazione. Spesso per una grande ambizione si cade nell’errore di fare il passo più lungo della gamba.

Movimenti in ordine sparso

L’Italia, in materia coloniale, è una nazione che rischia. Questo è senza dubbio il caso del protettorato di Tientsin, concepito come avamposto dal quale contendere agli altri imperi coloniali lo scacchiere indocinese. Se quattro decenni di concessione in Cina si risolsero in un improduttivo nulla di fatto, con più attenzione andrebbe valutato l’esperimento coloniale italiano in Africa e ai danni del decadente impero Ottomano. L’ardimento italiano di contendere agli ottomani le redditizie sabbie libiche, fu coronato dall’ulteriore azzardo di occupare una serie di isole prospicienti la costa anatolica. Per certi aspetti analoga è la vicenda italiana in Dalmazia. Al pari di Tientsin e delle isole Egee, questa non serba un felice ricordo del vecchio dominio.

Dodecaneso, un mare sempre più caldo

La campagna libica si dimostrò fortunata per l’Italia che, nel tentativo di accelerare la resa dei turchi, prese anche le isole egee. L’occupazione venne riconosciuta sia dagli ottomani sia della comunità internazionale con il trattato di Losanna del 1923. Il Dodecaneso rimase in mano italiana sino alla seconda guerra mondiale. Anche questa volta dal punto di vista culturale ed antropologico non risultano apprezzabili lasciti della presenza coloniale.
Se in molte zone in cui l’Italia ha incrociato i suoi destini con quelli delle popolazioni locali, ad oggi assistiamo a tensioni palesi. L’Egeo diviene sempre più zona rossa. Qui striscianti attriti dovuti sia ai contenziosi territoriali tra Grecia e Turchia, ma anche alle concessioni di vasti giacimenti di idrocarburi e al tracciato del titanico gasdotto EastMed, agitano le acque del Dodecaneso.

Una vicenda autoconclusiva: Tientsin

Il caso più semplice da trattare è quello del Tientsin, in Cina, area caduta sotto influenza italiana dall’inizio del Novecento fino alla Seconda Guerra Mondiale. Più precisamente, questa zona fu concessa all’Italia a seguito della nota rivolta dei Boxer per poi divenire colonia a tutti gli effetti nel 1943. Nonostante si parli di circa quarant’anni di occupazione, la presenza italiana rimase marginale e passò alla storia come “la concessione aristocratica”. I vantaggi legati all’esperienza coloniale tricolore nella zona furono del tutto esigui, poiché caratterizzata da una scarsa presenza di attività produttive e scambi commerciali modesti. Le ripercussioni dunque della permanenza in questo lembo di territorio cinese saranno pressoché ininfluenti per lo sviluppo della regione. Tutto ciò che rimane dell’esperimento italiano in questi 46 ettari di territorio è un quartiere ristrutturato a scopo turistico.

Dalmazia, l’altra sponda dell’Adriatico

La storia della Dalmazia e del suo legame con la penisola appare invece più complessa. Ai fini di una corretta analisi storica, occorre precisare che in questa zona non si trattò mai di occupazione italiana quanto più di presenza italica. Una presenza che affonda le sue radici già in età moderna con la Repubblica della Serenissima, per poi tornare in scena in piena età contemporanea. Da qui la Dalmazia seguirà le sorti di Venezia, in pace e in guerra. Questo fino al XIX secolo, quando con il Trattato di Campoformio, Venezia e le sue propaggini imperiali vengono cedute all’Impero austro-ungarico. Tra aspirazioni deluse alla fine della prima guerra mondiale e principi di autodeterminazione dei popoli, questi territori da sempre legati all’Italia finiranno in orbita balcanica, spazzando via anni di rapporti con la penisola. Un ultimo ritorno italiano in queste terre si ebbe nel 1941. Senza invischiarsi in quelle che furono le atrocità e i conflitti degli anni seguenti, fu l’armistizio del 1943 a rappresentare un momento emblematico. Il definitivo abbandono da parte italiana di qualsiasi velleità di proiettarsi nei Balcani. Privi ormai di qualsiasi legame politico e culturale con la Dalmazia, tutto ciò che rimane a testimoniare la continuità storica con l’Italia non sono che sterili e vetuste infrastrutture materiali.

L’Italia nel continente nero: Eritrea, Etiopia, Somalia, Libia

Le colonie africane furono il perno dell’Impero coloniale italiano e le zone in cui oggi si avvertono significative instabilità. Instabilità visibili che affondando le loro radici in un passato a noi poco noto. L’esperienza coloniale sembra essere una parentesi della storia che suscita poco interesse. Si tratta, dopotutto, di episodi che macchiano profondamente la reputazione di un paese che nel tempo ha venduto un’immagine di sé illusoria, alimentando il cosiddetto mito di “italiani brava gente”. Per squarciare una volta per tutte il velo di una falsa retorica volta a lucidare l’idea di un’Italia colonizzatrice attenta ai bisogni delle popolazioni sottomesse, onesta e aperta al dialogo, ci sono voluti storici come Del Boca. Nella realizzazione di un progetto ambizioso quale era la conquista del fruttuoso corno d’Africa, l’Italia dispiegò tutte le sue forze, lasciando tracce permanenti sulle sorti di territori che ancora oggi sembrano non riuscire a trovare tregua.

Colonialismo italiano in Africa

Un rapido sguardo al percorso storico fornirà uno scorcio utile ad una comprensione più completa del fenomeno. Diversamente dall’Eritrea, la presenza italiana in Etiopia non ha avuto mai il tempo di assestarsi. Questa passò sotto amministrazione fascista solo nel 1936 e, dopo qualche anno, la leadership italiana venne disarcionata per mano dell’esercito etiope coadiuvato da forze inglesi. Pochi anni di protettorato modellarono profondamente i destini dell’Etiopia.

L’esercito di Mussolini conobbe una dura sconfitta e dopo la seconda guerra mondiale l’Italia perse i suoi possedimenti coloniali ad eccezione della Somalia. Gli avvenimenti successivi aprono tuttavia un nuovo capitolo, altrettanto buio, della storia del corno d’Africa. Dopo una prima occupazione inglese, fu il turno delle Nazioni Unite di determinare i nuovi equilibri. All’Eritrea fu concessa una forte autonomia, ma passò sotto sovranità etiope. La Somalia fu posta sotto amministrazione fiduciaria e la Libia divenne di lì a poco indipendente. 

Etiopia ed Eritrea: un conflitto durato vent’anni

Non possiamo non domandarci se questo nostro desiderio di ordinare e stabilire confini fittizi non abbia contribuito a dare una spallata definitiva ad equilibri già molto precari. Il periodo di autonomia per l’Eritrea durò ben poco. Già dagli Sessanta l’apparente stabilità raggiunta si trasformò in fumo. Alla decisione del governo etiope di instaurare un governo centralista, la risposta dell’Eritrea fu fragorosa. La guerra civile durò a lungo, tra nefandezze e perdite umane. Conobbe tuttavia una lento spegnimento dalla caduta del governo etiope, con l’ottenimento dell’indipendenza dell’Eritrea. Se nel XIX e nel XX secolo la tensione giunse al suo acme, gli anni immediatamente successivi non furono sicuramente improntati alla quiete. Al perenne stato di guerriglia tra Etiopia ed Eritrea, si aggiunge quello più recente tra gruppi di potere etiopi dove la presenza di storiche rivalità tribali ed elementi religiosi rende il puzzle ancora più frammentato.

Somalia e cause antropologiche

I progetti coloniali, va da sé, non hanno considerato la frammentazione tribale e le aspirazioni delle popolazioni locali. Il caso della Somalia appare emblematico. Dall’analisi di questo, intravediamo i fattori comuni all’endemico stato di agitazione e alle mai sopite tensioni degli stati del Corno d’Africa.
Colpi di stato militari, dittature, ingerenze di forze ex coloniali, partiti unici, socialismi improvvisati, guerre civili e carestie sono l’ordinaria amministrazione dell’Africa orientale. Eppure in un’area come la Somalia si palesavano tutti gli elementi per la costruzione di una realtà statuale compiuta. All’origine di molte ambiguità riguardo i concetti di Nazione e di cittadinanza nei paesi africani vi è l’arbitraria imposizione di un modello incompatibile con le strutture preesistenti. Le attuali frontiere di Etiopia, Eritrea, Gibuti e Somalia sono l’inconsapevole tratto di penna di un osservatore lontano. L’apparente omogeneità del mondo somalo cela una realtà caleidoscopica fatta di clan e tribù che influenzano la vita dei singoli. Su questo frammentario mosaico si inserisce l’azione coloniale occidentale: protettorato italiano dal 1889 al 1908, la Somalia divenne in seguito colonia. Sotto il fascismo divenne governatorato nell’AOI (Africa Orientale Italiana). Dal ’41 passò in mano britannica, a partire dal 1960 la Somalia diviene infine Stato pienamente sovrano.

Libia e gli orrori della guerra

Sotto il governo Giolitti nel 1911 l’Italia iniziò la conquista della Cirenaica e della Tripolitania. Con il Trattato di Losanna, la futura Libia venne riconosciuta come possedimento italiano a livello internazionale. Si dà il via alla fase forse più tetra della storia coloniale italiana. Il caso libico appare necessario per la comprensione di fenomeni di inquietante efferratezza che imperversarono nell’area di pertinenza italiana e che subirono un processo di edulcorazione in tutta la fase post-bellica. La vicende legate alla crudeltà del generale Rodolfo Graziani e all’uso dei gas chimici sono noti ai più. Quando il generale mise i piedi in Libia, nel lontano 1912, il territorio si era svincolato dal giogo italiano. Da quelle iniziarono a reclamare l’indipendenza, ma la risposta fascista non si fece attendere. Furono adottati i sistemi più brutali. Trasferimenti coatti, campi sorvegliati, popolazione ridotta alla fame. Ad oggi la situazione non appare più luminosa. Dietro la nuova orgia di violenza, a nascondersi sono sempre gli interessi del mondo occidentale.

Esportazione di burocrazia

A guardare tutti i casi esaminati, non è semplice intravedere un leitmotiv, soprattutto nei casi dove l’esperimento italiano non ha prodotto effetti evidenti. Tuttavia, ponendo l’attenzione sui contorni assunti dal fenomeno coloniale nelle aree i cui la sua presenza fu ingombrante, si possono intuire i prodromi del profondo malessere che impedisce ad alcune delle ex colonie di emanciparsi dallo stato di perenne turbolenza. Il caso somalo ci mostra come la sovrapposizione di modelli incompatibili, così come l’imposizione di confini fittizi siano i grandi responsabili di conflitti incessanti e dell’impossibilità a raggiungere una stabilità definitiva. Il sistema tribale che, prima dell’avvento coloniale, vigeva nei territori che ricaddero poi sotto il controllo occidentale, è un sistema antico, nato nel XVI secolo. Dotato di una sua giustizia tradizionale e una struttura definita, assicurò ai clan il mantenimento di un certo equilibrio sino all’arrivo dell’era coloniale. L’esportazione di un modello che non prende in considerazione precedenti configurazioni e che invece le soffoca, spezza inevitabilmente la continuità con un passato, che seppur apparentemente caotico, ha definito identità e funto da collante. Ciò può generare soltanto confusione, dove sovrastrutture pensate con funzioni semplificative falliscono totalmente il loro fine e anzi finiscono per rendere farraginosi e inefficaci gli ordinamenti preesistenti.

 

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