11 febbraio 2018 09:55

Se la promessa di un politico non significa niente, la promessa di un politico libico significa ancora meno di niente. Eppure a ogni nuova promessa, alcuni di noi non possono fare a meno di credere che stavolta sarà diverso. Come accade nella maggior parte delle relazioni, i partner delusi vogliono credere a un’altra promessa, anche se tutti i segnali e le esperienze passate consigliano il contrario.

L’unica differenza è che in qualsiasi relazione, quando si è stufi delle promesse non mantenute è possibile andar via, mentre nel caso dei nostri politici questa possibilità non c’è. Non li abbiamo scelti, non possiamo mandarli via e loro non hanno certo la dignità di dimettersi.

“Parlare della situazione del nostro popolo a Tawargha dopo sette anni di difficoltà ci provoca molto dolore. Abbiamo discusso con le diverse parti per affrettare il loro ritorno a casa”, ha dichiarato Fayez al Sarraj lo scorso dicembre, quando gli sfollati di Tawargha hanno marciato fino alla sede del Consiglio presidenziale del governo di accordo nazionale per chiedere di poter tornare alle loro case. Al Sarraj ha spiegato che il suo governo sta lavorando per attuare prima possibile “l’accordo appoggiato dalle Nazioni Unite” tra le due città. Alla fine dello stesso mese ha annunciato la data del loro ritorno, il 1 febbraio.

Vittime per la seconda volta
Tawargha è una delle città libiche che scelsero di combattere al fianco di Gheddafi durante la guerra civile del 2011. I suoi abitanti sono stati accusati da quelli di Misurata di aver partecipato attivamente ai combattimenti contro di loro e non mancano video e testimonianze a sostegno di queste accuse. Dopo la sconfitta e la caduta di Gheddafi, i circa 35mila abitanti della città sono stati costretti a lasciare le loro case per evitare azioni di rappresaglia, e da allora vivono in diversi campi profughi sparsi in tutto il paese.

Un giorno prima della data prevista per il ritorno, il consiglio militare di Misurata e l’associazione delle famiglie dei martiri e dei dispersi con una dichiarazione congiunta hanno negato alla popolazione di Tawargha il permesso di tornare nella loro città. Hanno spiegato che non potranno farlo finché non saranno attuati tutti gli articoli dell’accordo. Il riferimento è in particolare al decimo articolo: “Gli abitanti di Tawargha torneranno solo dopo che sarà stata fatta giustizia, quando ci sarà stata una piena riconciliazione e i fuggitivi saranno stati consegnati, e quando i quartieri distrutti saranno stati ricostruiti e tutti coloro che hanno subìto danni saranno risarciti”.

Il giorno dopo centinaia di famiglie di Tawargha che avevano cominciato il viaggio per tornare a casa sono state bloccate da gruppi armati alla periferia della loro città. Le forze armate hanno istituito dei blocchi stradali su tutte le vie d’accesso a Tawargha e hanno perfino sparato colpi di avvertimento. Tra le forze armate che hanno bloccato le famiglie c’erano le milizie Al Bunyan al Marsous, alleate con il governo di Al Sarraj e composte in larga misura da gruppi armati provenienti da Misurata.

Non è possibile avere giustizia quando il giudice e il carnefice appartengono alla stessa parte

L’accordo fin dall’inizio ha ricevuto diverse critiche, come quelle di Jaballah al Shibani, un esponente del parlamento di Tobruk che si contrappone al governo guidato da Al Serraj a Tripoli. Al Shibani, che è originario di Tawargha, ha definito l’accordo ingiusto poiché nega alla città i suoi diritti. Secondo lui i civili dovrebbero essere protetti da una forza militare istituzionale e non dalle forze armate di Misurata. Ha poi sottolineato il fatto che questo accordo non ha mai garantito il diritto a indagare sui crimini contro l’umanità in base alle leggi internazionali, e che i governi libici non hanno mai espresso alcuna intenzione di indagare sui crimini commessi contro gli abitanti di Tawargha.

Le famiglie di Tawargha bloccate prima di poter raggiungere la loro città si sono rifiutate di tornare indietro e si sono accampate all’aperto. Hanno deciso di tornare nella loro città o di morire il più vicino possibile a essa. Dopo quattro giorni sono state attaccate dalle milizie che hanno aperto il fuoco e le hanno scacciate, distruggendo i loro accampamenti. Le famiglie però sono tornate e li hanno risistemati, e sono rimasti lì.

Nel racconto delle due città – Misurata e Tawargha – la prima ha sofferto durante la guerra civile e quando la situazione si è ribaltata la seconda ha sofferto ancora di più. Non è possibile avere giustizia quando il giudice e il carnefice appartengono alla stessa parte che chiede vendetta.

La discriminazione contro i neri
Per sette anni il resto del paese è rimasto a guardare in silenzio la sorte delle due città. Nessuno moriva dalla voglia di porre fine al conflitto, a nessuno importava davvero proteggere o sostenere gli indifesi abitanti di Tawargha, di sicuro non al governo fantoccio che ha giurato di garantire il loro ritorno a casa. E non si può fare a meno di chiedersi cosa sarebbe cambiato se gli abitanti di Tawargha non fossero stati neri. La discriminazione contro i neri è ancora il grande elefante nella stanza di cui nessuno vuole parlare finché qualcuno non dà fuoco alle polveri.

Famiglie di Tawargha bloccate alla periferia della città. Libia, febbraio 2018.

Qualcuno l’ha fatto il 29 gennaio, a pochi giorni dalla data del ritorno, nel corso di una sessione del parlamento di Tobruk trasmessa in tv: parlando della rivoluzione del febbraio 2011 Jaballah al Shibani ha usato la parola “incidenti” e quando è stato interrotto da un altro parlamentare che ha urlato “No, si chiama rivoluzione di febbraio, la grande rivoluzione libica”, Al Shibani ha replicato: “Questo vale per voi. Io la chiamo la calamità e il disastro di febbraio”.

Il parlamento ha reagito ordinando di formare una commissione per chiedere conto ad Al Shibani delle sue affermazioni. Le successive reazioni nel paese sono state contrapposte, ma i commenti più estremisti hanno fatto luce sulla vera posta in gioco e riflettono l’atteggiamento della maggior parte dei politici libici.

Abdelhamid al Naimi, ex ministro degli esteri del governo di salvezza nazionale, ha risposto sul suo account Facebook ufficiale descrivendo Jaballah al Shibani come “inutile schiavo”, che è il modo in cui i libici chiamano le persone di pelle nera. È stato molto criticato e in molti hanno accusato lui, il suo governo e le loro milizie saltate sul nuovo carro del governo di accordo nazionale di infangare il nome della Libia a causa del coinvolgimento nel traffico di esseri umani, nella riduzione in schiavitù dei migranti e nelle violenze commesse contro di loro.

Il sindaco del distretto di Tajoura, Hussein Ben Attia, ha definito le affermazioni di Jaballah al Shibani “parole audaci pronunciate da uno shonfak”. In dialetto libico shonfak è un termine umiliante usato per descrivere i neri e significa “spregevole schiavo”.

Tanti si arrabbiano quando sottolineo che la nostra società ha ancora delle profonde radici razziste. Di recente ho rifiutato alcune offerte di lavoro in una serie tv e in alcuni programmi che dovrebbero andare in onda durante il prossimo ramadan, e questo nonostante io abbia bisogno di lavorare. Ho rifiutato perché leggendo il copione ho scoperto che alcuni episodi parlavano in un modo fuorviante e pieno di pregiudizi delle torture inflitte ai migranti e del traffico di esseri umani. Si parlava di voci infondate e complotti contro la Libia mentre le forze armate libiche sarebbero composte da uomini buoni che trattano bene i migranti neri. La maggior parte di questo genere di trasmissioni è sostenuta e generosamente finanziata dal ministero della cultura.

Finché non saremo pronti a guardarci allo specchio e abbastanza coraggiosi da affrontare qualsiasi immagine ci venga restituita, niente potrà davvero cambiare. E finché la comunità internazionale non la smetterà di tentare di risolvere i problemi della Libia inondando i governi libici di soldi e finanziamenti, il governo non sarà altro che una specie di società fantasma, un’interfaccia che riceve soldi e li trasferisce alle milizie.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Le foto di questo articolo sono state scattate da un gruppo di attivisti di Tawargha, in Libia, nel febbraio del 2018.

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