22 gennaio 2019 12:26

Il 21 gennaio l’esercito israeliano ha compiuto un gesto insolito, annunciando in tempo reale che stava bombardando obiettivi iraniani in Siria, tra l’altro in pieno giorno. Dal 20 gennaio il cielo siriano e del nord di Israele è agitato, con diversi raid israeliani e una serie di missili lanciati in direzione dello stato ebraico e intercettati in volo.

Ormai da due anni l’aviazione israeliana attacca regolarmente depositi di munizioni e convogli di Hezbollah o dei guardiani della rivoluzione iraniani in territorio siriano, ma finora ha agito di notte e senza annunciarlo ufficialmente.

Questa discrezione non esiste più, perché Israele vuole inviare un messaggio semplice all’Iran: Tel Aviv non ha intenzione di permettere che gli iraniani si installino in modo permanente in territorio siriano vicino alla frontiera nordorientale di Israele.

In cerca dei dividendi
Insieme alla Russia, l’Iran ha ricoperto un ruolo cruciale nel salvataggio del regime di Bashar al Assad, che dopo aver rischiato il tracollo ha ormai ripreso il controllo della maggior parte del territorio siriano.

Tutti i protagonisti si proiettano già sul dopoguerra anche se il conflitto non è ancora terminato. Gli alleati di Damasco, in particolare, cercano di raccogliere i dividendi del loro impegno. In questo senso l’Iran è in prima fila, come dimostra l’aumento della tensione con Israele.

Il messaggio israeliano è ancor meno ambiguo se consideriamo che lo stato ebraico è rimasto spiazzato quando Donald Trump ha dichiarato, il mese scorso, che intende ritirare i soldati statunitensi dalla Siria e soprattutto che, per quanto lo riguarda, l’Iran può agire liberamente in Siria. In Israele le parole del presidente degli Stati Uniti sono state ritenute un tradimento. In piena campagna elettorale, Benjamin Netanyahu non aveva intenzione di restare con le mani in mano.

John Bolton, consulente per la sicurezza di Trump e noto falco dell’amministrazione, vuole scontrarsi frontalmente con l’Iran

Fino a che punto si arriverà? Tutto dipende dalla volontà e dalle possibilità dei due protagonisti di questo braccio di ferro, Israele e Iran. Sottoposto alle sanzioni statunitensi che ne asfissiano l’economia, l’Iran reggerà un’escalation dello scontro così lontano dalle sue basi aeree?

Un ruolo importante sarà quello delle grandi potenze. La Russia, alleata di Assad, non ha molta influenza sulla strategia di Teheran. Mosca ha cercato di “vendere” un compromesso che avrebbe vietato agli iraniani di avvicinarsi a ottanta o cento chilometri dalla frontiera israeliana, ma nessuno l’ha accettato.

Restano gli Stati Uniti. Sappiamo che Trump vuole abbandonare la Siria, ma due attacchi suicidi del gruppo Stato islamico nel giro di pochi giorni, con diverse vittime statunitensi, dimostrano l’incoerenza di una strategia più impulsiva che ponderata.

John Bolton, consulente per la sicurezza di Trump e noto falco dell’amministrazione, vuole scontrarsi frontalmente con l’Iran, e non da ora. Bolton ha organizzato una conferenza internazionale a Varsavia contro il regime di Teheran. Avrà il via libera di Trump per far aumentare la pressione, magari anche militare?

Le incognite, insomma, sono molte, e questo rende la situazione esplosiva. Con il rischio che la fine della guerra in Siria si trasformi nell’inizio di un altro conflitto armato.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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