Si chiama Jamal Khashoggi e la sua scomparsa sta facendo tremare il Medio Oriente. Il giornalista saudita del Washington Post, critico verso il nuovo corso del Principe Mohammed bin Salman (MBS), è entrato nel consolato saudita in Turchia il 2 ottobre scorso per ritirare i documenti che gli avrebbero consentito di sposare la fidanzata turca Hatice Cengiz, la quale lo ha atteso per ore fuori dai cancelli dell’edificio, non vedendolo più tornare. Il presidente Recep Tayyip Erdogan sostiene che Ankara sarebbe in possesso di materiale video e audio, dal quale emergerebbe che Khashoggi sarebbe stato ucciso all’interno del consolato e pretende che Riad chiarisca sul presunto coinvolgimento di 15 persone vicine alla monarchia, che nelle settimane precedenti al probabile assassinio risultano essere entrati in Turchia.

Tra Trump e Principe MBS un mare di petrolio, ecco come sono cambiati i rapporti USA-sauditi

Il presidente americano Donald Trump ha definito “terribile e sconcertante” quello che sarebbe accaduto, minacciando sanzioni contro l’Arabia Saudita. I ministri degli Esteri di Francia, Germania e Regno Unito hanno pubblicato una nota congiunta, con la quale invitano il regno a fare luce sull’accaduto. MBS non ci sta a subire le pressioni internazionali e a passare come l’amico debole degli americani e attraverso suoi funzionari a sua volta minaccia ritorsioni nel caso in cui l’America dovesse imporre sanzioni. Turki Aldakhil, general manager di Al-Arabiya, ha dichiarato che Riad avrebbe pronta una lista di 30 misure con le quali “condannerà a morte l’economia americana”, tra cui un taglio della produzione di petrolio per farne esplodere le quotazioni “a 200 dollari” al barile, la concessione alla Russia di istituire basi militari sul suo territorio e al contempo ha paventato il rischio che l’intero Medio Oriente cada nelle mani dell’Iran, nemico storico degli USA e contro cui Trump sta per reintrodurre sanzioni economiche.

Le tensioni nel Medio Oriente

Il caso sta fungendo da pretesto per fare ri-emergere gli schieramenti in campo nell’area: Egitto, Oman, Libano, Emirati Arabi, Palestina, Bahrein e Giordania hanno emesso una nota ufficiale di solidarietà verso i sauditi, di fatto confermando l’alleanza contro Turchia e Iran. Gli USA sono storici alleati di Riad, per cui si trovano in forte imbarazzo sul caso, anche perché Ankara ha da poco estradato Andrew Brunson, il pastore evangelico detenuto in Turchia per due anni sull’accusa di coinvolgimento nel fallito golpe contro Erdogan del luglio 2016. Dopo mesi di tensioni, la Casa Bianca ha riportato un successo diplomatico schiacciante e proprio adesso non vorrebbe tornare a indispettire Ankara parteggiando apertamente per Riad. D’altra parte, nella primavera dello scorso anno proprio Trump e il genero Jared Kushned riscossero la prima grande vittoria d’immagine all’estero con la sottoscrizione di un accordo economico con il regno, tra cui 110 miliardi di dollari di armi americane vendute.

Nelle ultime settimane, l’amministrazione Trump sta facendo pressione pubblica su Riad, affinché ponga fine all’accordo sul taglio della produzione con la Russia, consentendo alle quotazioni del petrolio di scendere su livelli di mercato. Aramco, la compagnia petrolifera saudita, ha parzialmente risposto a tali pressioni, alzando ai massimi storici le estrazioni, sebbene non abbia ancora posto in soffitto l’intesa con Mosca, che ha raddoppiato le quotazioni rispetto al novembre di due anni fa. La minaccia di fare esplodere il petrolio a 200 dollari potrà sembrare eccessiva e lo è. Tuttavia, Riad può fare davvero molto male all’economia mondiale. Se solo annunciasse il taglio – poniamo – di 1 milione di barili al giorno, le quotazioni del greggio salirebbero alle stelle. Certo, si tratterebbe di un surriscaldamento temporaneo, visto che verosimilmente l’ascesa dei prezzi stimolerebbe l’offerta delle compagnie americane, ma anche russe, irachene, etc.

I danni, però, nel frattempo si materializzerebbero, anche perché la minaccia saudita appare credibile per quegli oltre 500 miliardi di dollari di riserve disponibili e accumulati negli anni d’oro del boom petrolifero, pur in calo dai 740 miliardi toccati 4 anni fa.

In pratica, non solo il taglio della produzione sarebbe più che compensato dall’aumento dei prezzi, ma il regno dispone di mezzo trilione di dollari a cui attingere eventualmente per reagire alla fuga dei capitali, segnalata dal -7% accusato dall’indice Tawadul dallo scorso 2 ottobre, data della scomparsa del giornalista, pari a una riduzione della capitalizzazione azionaria per un totale di 33 miliardi di dollari. Si consideri, però, che sinora il mercato non avrebbe comprato l’idea delle ritorsioni americane e saudite, se è vero che le quotazioni petrolifere siano scese nel frattempo del 4,5% a 81 dollari. Tuttavia, nemmeno MBS può spingersi troppo oltre, se non vorrà mettere a repentaglio il suo “Saudi Vision 2030”, il piano di ammodernamento nazionale a lungo termine, che punta a diversificare l’economia, sganciandola dalla eccessiva dipendenza dall’oro nero. Per giungere all’obiettivo, Aramco dovrebbe essere parzialmente privatizzata. Dopo voci di una sospensione dell’IPO, il principe ha confermato la scorsa settimana che sarà ceduto il 5% del capitale “entro il 2021” e che continua ad attendersi per ciò 100 miliardi di dollari di entrate, valorizzando la compagnia sui 2.000 miliardi. In più, il sostegno americano contro Teheran appare cruciale per il posizionamento del regno nello scacchiere mediorientale, specie in questa delicata fase geopolitica.

L’Arabia Saudita ha bisogno di petrolio a quasi 90 dollari, in attesa dell’IPO di Aramco

Pressione USA sul petrolio

Attirare i capitali esteri appare cruciale, dunque, per l’Arabia Saudita, che alla fine del mese terrà la seconda edizione di quella che è stata ribattezzata “la Davos nel deserto”, un forum finanziario aperto a manager e investitori di tutto il mondo, ma al quale hanno già annunciato il loro forfait big del campo, come Jamie Dimon, ceo di JP Morgan.

Il danno d’immagine rischia di pesare sui piani sauditi, indifferentemente dall’irrogazione (improbabile) o meno delle sanzioni di Trump. Già oggi, tra restrizioni alla finanza straniera, di costume e purghe ai danni degli oppositori politici, Riad necessita il suo bel da farsi per spronare i capitali ad entrare nel regno. La Casa Bianca starebbe sfruttando il caso per ottenere da MBS quanto ad oggi non è riuscita, cioè la rottura dell’accordo OPEC e con la Russia sul taglio alla produzione. A Washington serve che il petrolio diminuisca di prezzo, magari a poco sopra i 70 dollari, al fine di allontanare il surriscaldamento dell’inflazione e offrire alla Federal Reserve il pretesto formale per cessare la stretta monetaria.

La probabile morte di Khashoggi sta mettendo in moto meccanismi sul piano diplomatico con conseguenze economico-finanziarie potenzialmente dirompenti. Nel breve, rischia di non aiutare le principali banche centrali, se dovesse minacciare nel Medio Oriente quella stabilità così critica anche per i prezzi nei mercati d’importazione. MBS lo sa e punta proprio su questo aspetto, consapevole che sia Trump, sia i governi europei vorrebbero tutto in questa fase, tranne che di ritrovarsi a gestire una crisi petrolifera che faccia esplodere inflazione e tassi. Che finisca tutto con la consueta intesa tra USA e Arabia Saudita, alias giù i prezzi del greggio e solo una ramanzina formale di Washington?

Trump prepara l’offensiva per un crollo delle quotazioni

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