14 Mag 2018

Attentati in Indonesia: perché ci riguardano da vicino

Una delle regole tacite in vigore nelle redazioni giornalistiche prescrive – con una certa dose di cinismo – che lo stesso identico avvenimento acquisterà più o meno rilevanza a seconda della distanza in cui si verifica. Seguendo questa norma non scritta, le almeno 17 vittime e le decine di feriti provocati da una catena di […]

Una delle regole tacite in vigore nelle redazioni giornalistiche prescrive – con una certa dose di cinismo – che lo stesso identico avvenimento acquisterà più o meno rilevanza a seconda della distanza in cui si verifica.

Seguendo questa norma non scritta, le almeno 17 vittime e le decine di feriti provocati da una catena di attentati suicidi avvenuti tra domenica e lunedì a Surabaya – la seconda città dell’Indonesia – non ottengono uno spazio rilevante nella gerarchia delle notizie se non per ragioni strettamente emotive (tutti gli attacchi sono stati condotti da famiglie, bambini di otto anni compresi; la prima scia di esplosioni suicide ha colpito i fedeli di chiese cristiane riuniti in preghiera).

Eppure le peculiarità della situazione richiedono necessariamente un approccio più freddo e di respiro più ampio: con 180 milioni di fedeli dichiarati su 250 milioni di abitanti, l’Indonesia non è solamente la nazione musulmana più popolosa del pianeta, ma dopo una straordinaria storia di migrazioni e attraverso una costituzione che garantisce la pratica delle cinque religioni principali (Buddhismo, Induismo, Cattolicesimo, varie forme di Protestantesimo, oltre ovviamente all’Islam) si presenta anche come una sorta di laboratorio della convivenza tra fedi. Questa società molto complessa, che ridefinisce il suo modello giorno per giorno praticando una continua dialettica attraversata da forti tensioni, oggi è sotto attacco come non capitava da oltre quindici anni.

Le ragioni del deterioramento sono dovute anche a fattori esterni; le ripercussioni rischiano di allargarsi ben oltre il Sudest asiatico.

Il capo della polizia indonesiana, l’influente Tito Karnavian, ha attribuito gli attentati al Jamaah Ansharut Daulah (JAD), una sigla-ombrello affiliata a Daesh che riunisce diverse organizzazioni di stampo jihadista, e ha dichiarato che l’intera famiglia responsabile degli attentati di domenica era rientrata di recente in Indonesia dopo un periodo trascorso in Siria.

Jamaah Ansharut Daulah è nato nel 2015 con un incontro segreto nell’isola di Java promosso dal leader Aman Abdurrahman, all’epoca già in carcere ma perfettamente in grado di coordinare iniziative e attacchi da dietro le sbarre. 46 anni, formatosi all’Arabic College of Indonesia di Giacarta, un ramo dell’Università Islamica di Riyad, Abdurrahman ha lavorato per anni per tradurre dall’arabo all’indonesiano il materiale propagandistico di Daesh e diffonderlo online in Indonesia. Nel 2015 il JAD raccoglie di fatto il testimone di Jemaah Islamiyah – l’organizzazione che nel 2002 mise a segno il disastroso attentato di Bali nel quale morirono oltre 200 persone, poi smantellata soprattutto grazie agli sforzi del Dipartimento 88, l’unità d’élite dell’antiterrorismo indonesiano – e proietta il jihadismo indonesiano su una scala sempre più internazionale. Si calcola infatti che siano almeno 700 i militanti indonesiani andati a combattere in Siria e Iraq giurando fedeltà a Daesh, e che al rientro siano confluiti nel JAD: si tratta di gruppi reduci da una vera e propria guerra e non solo dai campi d’addestramento sparsi nel territorio di Aceh, come ad esempio l’unità Katibah Nusantara, guidata da Bahrumsyah (l’unico indonesiano ad avere accesso diretto ai fondi di Daesh, probabilmente ucciso in Siria da un bombardamento Usa alla fine di aprile), o il gruppo guidato da Bahrun Naim (maestro del reclutamento online, anche lui forse caduto in Siria, ritenuto ispiratore degli attentati a Giacarta del 2016 e dei primi tentativi di mettere a segno attacchi con donne kamikaze).

Nelle ultime settimane gli eventi hanno subito un’accelerazione che sembra confermare la responsabilità del JAD: dopo gli attentati di Giacarta nel febbraio 2016, Aman Abdurrahman viene rinchiuso in una cella di massima sicurezza e privato della comunicazione con l’esterno.  Il leader jihadista avrebbe dovuto essere condotto in tribunale la scorsa settimana, ma una micidiale rivolta scoppiata nel carcere di Depok in cui è detenuto ha ritardato il processo. Prima della sanguinosa irruzione del Dipartimento 88 nella prigione, le guardie carcerarie hanno concesso ai rivoltosi di incontrare Abdurrahman, che con ogni probabilità è riuscito a comunicare l’ordine di sferrare gli attacchi di Surabaya.

Ma i territori precedentemente controllati da Daesh non sono l’unico punto sulla mappa globale dal quale i jihadisti stanno confluendo sull’Indonesia: secondo un dossier elaborato dall’IPAC di Giacarta (Institute for Policy Analysis of Conflict), non solo almeno 70 militanti indonesiani avrebbero combattuto nella battaglia di Marawi, nelle Filippine, ma dopo la fine dell’assedio avvenuta il 23 ottobre dello scorso anno alcuni superstiti di nazionalità indonesiana, filippina e malaysiana potrebbero essere approdati in Indonesia.

Infine, a minacciare l’arcipelago c’è un fronte prettamente politico ma non meno estremista: nel 2016 un raggruppamento composto da varie organizzazioni islamiste – il cosiddetto Movimento 212 – è riuscito a distorcere gli strumenti forniti dal sistema democratico indonesiano per provocare la caduta e il successivo arresto del governatore di Giacarta Ahok, un valido e carismatico politico cristiano imprigionato con l’accusa di blasfemia.

Nel 2019 si terranno nuove elezioni presidenziali e, anche se il presidente Joko Widodo è riuscito a ottenere un vasto consenso grazie a una politica sorvegliata e promettenti risultati economici, vari esponenti del Movimento 212 come il salafita Bachtiar Nasir e i tradizionalisti conservatori del Front Pembela Islam stanno lavorando alla sua caduta nonostante i notevoli contrasti che li dividono.

In un dossier sull’ISIS pubblicato dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU all’inizio di quest’anno, si sottolinea come la disfatta subita da Daesh in Siria e Iraq potrebbe intensificare le minacce islamiste nel Sudest asiatico. Se Giacarta dovesse cadere in una fase di instabilità, quel vuoto non aspetterebbe altro che di essere riempito. E allora quello che accade in Indonesia, la nazione islamica più popolosa del mondo, ci riguarderà tutti drammaticamente da vicino.

 

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