5 Ott 2018

Corsa al Corno d’Africa: interessi globali e competizione regionale

Pubblicazioni per il Parlamento e MAECI

Incastonato tra Asia e Africa e avamposto verso il Mar Rosso e l’Oceano Indiano, il Corno d’Africa è una penisola diventata nell’ultimo quindicennio protagonista di fenomeni e dinamiche politico-economiche rilevanti a livello globale, tali da renderla estremamente importante, corteggiata e a tratti addirittura ambita. La vicinanza a diversi scenari di crisi (tra tutti lo Yemen mantiene una sua preminenza geopolitica) e la posizione geografica altamente strategica hanno favorito una corsa verso la regione da parte di attori esterni impegnati ad aumentare la propria presenza e influenza attraverso l’installazione di strutture militari, la costruzione di hub logistico-portuali o più semplicemente detenendo un ruolo dominante nel controllo delle rotte marittime commerciali del quadrante sub-continentale afro-asiatico-indiano. Una concentrazione di medie e grandi potenze, regionali e internazionali, ben presenti in forma più o meno evidente nell’area e pronte ad intervenire in loco per far valere i propri interessi strategici, contribuendo ad aumentare la competizione primariamente commerciale-infrastrutturale e in alcuni casi partecipando a trasferire tensioni politiche estranee alla regione.

La regione si contraddistingue inoltre per una rinnovata valenza geopolitica e strategica, anche in termini securitari come dimostrano le missioni internazionali e l’elevato numero di basi militari straniere impegnate nel contrasto ai fenomeni destabilizzanti come il terrorismo internazionale di matrice islamista e i fenomeni pirateschi. Ragion per cui da alcuni anni si sta assistendo ad una penetrazione di attori regionali (per lo più mediorientali) e internazionali, interessati a sfruttare la centralità strategica dell’area per definire processi di influenza e di reciproco contenimento nella regione, elevando così il Corno d’Africa, il Mar Rosso e nel suo complesso l’Africa orientale a straordinario terreno di cooperazione e competizione internazionale tra i singoli player coinvolti.

Tra i paesi particolarmente interessati a espandere la propria presenza nel Corno d’Africa vi sono diverse realtà quali Turchia, monarchie del Golfo, Iran, Israele ed Egitto, tutte interessate a proteggere il proprio interesse nazionale attraverso un’espansione della propria agenda politica nei territori dell’Africa orientale. Tuttavia la competizione negli anni ha assunto proporzioni sempre più globali tanto da vedersi sfidare nell’area attori consolidati (come Cina e Stati Uniti) o altri in costante ascesa (Russia e India su tutti). Una centralità geo-strategica forse addirittura maggiore rispetto ad altri e più noti scenari di crisi e di competizione globali.
A fronte quindi di una rilevanza crescente, il Corno d’Africa rimane comunque una delle regioni al mondo con i più bassi livelli di sviluppo socio-economico e i più elevati livelli di vulnerabilità ambientale. Comprende ampi territori in cui il conflitto, la violenza e il mancato rispetto dei diritti umani caratterizzano la vita civile e impediscono processi di sviluppo sostenibile. La regione è, inoltre, teatro di frequenti crisi umanitarie e ambientali ed è al centro delle dinamiche migratorie che si riflettono sull’intero centro e nord Africa e sul continente europeo.

Il presente lavoro pertanto punterà a evidenziare brevemente le problematiche del quadro regionale sotto il profilo politico, economico, sociale, demografico, ambientale, migratorio e umanitario, concentrandosi primariamente nel far emergere la centralità e l’importanza strategica acquisita dall’area. Questo background sarà di fatto necessario per tentare di enucleare le iniziative, le sfide e le proposte lanciate dai singoli attori mediorientali e internazionali coinvolti in Africa orientale.

Indice

1. Geografia, geopolitica e strategia nel Corno d’Africa: analisi dei fenomeni

 1.1 Dinamiche e trend in evoluzione

 1.2 Un nuovo “Grande Gioco” delle potenze globali

 1.3 La normalizzazione dei rapporti politici interni al Corno

 1.4 Trend settoriali: demografia, povertà, energia, infrastrutture, cambiamento climatico

 1.5 Implicazioni umanitarie

2. La corsa al Corno d’Africa: il ruolo degli attori mediorientali

 2.1 Paesi arabi del Golfo: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar

 2.2 Iran

 2.3 Turchia

 2.4 Israele

 2.5 Egitto

3. La corsa al Corno d’Africa: interessi globali a confronto

 3.1 Stati Uniti

 3.2 Cina

 3.3 Russia

 3.4 India

4. Sfide e prospettive di un territorio geo-strategico

 

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1. Geografia, geopolitica e strategia nel Corno d’Africa: analisi dei fenomeni

1.1 Dinamiche e trend in evoluzione

Collocato tra il Mar Rosso e il Golfo di Aden, a ridosso dello stretto di Bab al-Mandeb, arteria chiave del commercio internazionale tra l’Europa e l’Asia, il Corno d’Africa gode di una privilegiata collocazione geografica che attrae numerosi attori internazionali. Attraverso il Canale di Suez, il Mar Rosso e lo stretto di Bab al-Mandeb – che rappresentano la rotta marittima più rapida e trafficata per raggiungere l’Asia dall’Europa e viceversa – transita il 10%[1] di tutto il traffico merci marittimo mondiale. La rilevanza della regione dipende inoltre anche dalla sua prossimità allo Yemen, teatro emergente della rivalità tra le superpotenze regionali Arabia Saudita e Iran, ma anche dall’accesso che offre ai mercati ancora poco esplorati dell’Africa subsahariana e dal passaggio di numerosi cavi sottomarini in fibra ottica che rendono il Corno il principale hub delle telecomunicazioni transcontinentali di tutta l’Africa orientale.
In letteratura sono presenti diverse definizioni del Corno d’Africa. Ai fini di questo approfondimento, verrà adottata una delle definizioni più parsimoniose, che delimita la regione a Eritrea, Etiopia, Gibuti, Somalia e Sudan sulla base della percezione di questi stessi paesi di far parte di un insieme politico comune[2]. Sebbene la geopolitica spesso allarghi la definizione di “Corno” ad altri paesi come Kenya, Uganda e Sud Sudan, il nostro focus rimarrà incentrato principalmente sui 5 stati precedentemente citati, su oltre 170 milioni di persone, centinaia di gruppi etnici, decine di zone climatiche differenti e diversi livelli di sviluppo umano, organizzazione economica, passato coloniale e influenze politiche moderne, il tutto in circa 3,6 milioni di km2. Per questo e altri motivi, sarebbe erroneo studiare la regione come se fosse un blocco omogeneo. Tuttavia, vi sono alcuni trend e problematiche regionali che accomunano trasversalmente i paesi della regione: ad esempio, l’estrema conflittualità etnica, religiosa e tribale ai singoli stati, la precarietà degli assetti territoriali e istituzionali successivi alla decolonizzazione, nonché l’inalterata funzione geopolitica e strategica eredità della Guerra fredda.  

   

1.2 Un nuovo “Grande Gioco” delle potenze globali

Da qualche anno il Corno d’Africa si è trasformato in una delle regioni più dinamiche al mondo, in cui l’intreccio di peculiarità geopolitiche, interessi esterni e ambizioni locali ha lanciato un nuovo “grande gioco”, condotto su diversi fronti e livelli. Dalla prospettiva delle potenze esterne, la regione è sempre più vista come un asset strategico fondamentale per ampliare le rispettive aree di influenza. Le attenzioni sono sempre più consistenti da parte di un crescente numero di attori emergenti – soprattutto mediorientali, ma anche la Russia e l’India – che si aggiungono a quelli più tradizionali come la Cina, gli USA e diversi paesi europei. Fin dall’antichità, la costa del Corno d’Africa è stata ambita dalle potenze marittime straniere – fatto che le ha consentito di sviluppare profondi legami con India, Cina e Medio Oriente. Fu però l’apertura del Canale di Suez nel 1869 a trasformare il Mar Rosso e il Corno d’Africa, con i suoi stretti e le sue sponde, in arterie vitali per il commercio marittimo internazionale. In passato, durante la Guerra fredda, la stabilità della regione e la sicurezza delle rotte commerciali che vi transitavano era garantita dalle superpotenze. Da allora, con il collasso della Somalia all’inizio degli anni Novanta, nel Corno si sono succeduti una serie di gravi conflitti[3] che hanno causato vuoti politici interni e difficoltà socio-economiche di cui hanno approfittato gruppi jihadisti, milizie, pirati e potenze internazionali. Oggi tutte le potenze esterne presenti nel Corno condividono l’interesse a mantenere stabilità e libertà di navigazione. Dagli anni Duemila, gli USA hanno condiviso il ruolo di principale attore esterno nella regione (focalizzato soprattutto nella sfera militare) con la Cina, che in quegli anni – complice l’avvio dei Forum on China-Africa Cooperation (FOCAC) – rilanciò le relazioni economiche e commerciali con i paesi africani, compresi quelli del Corno. Su questa scia, si è successivamente (ri)fatto vivo un certo interesse da parte dei paesi mediorientali, dell’India, della Russia e dell’UE.L’inizio degli anni Duemila ha dunque visto un rinnovato interesse internazionale verso l’Africa intera. Il mutamento degli scenari economici globali e gli sviluppi interni al continente hanno spinto, da un lato, gli attori globali a elaborare strategie di proiezione verso il continente con l’intento di accedere a nuovi mercati e diversificare le risorse necessarie a sostenere le proprie economie in crescita. Dall’altro lato, ribaltando l’immagine di un continente senza speranza, l’Africa subsahariana stessa aveva appena iniziato un percorso di forte crescita economica (5,5% annuo medio tra il 2000-2015) e stabilizzazione politica. Le previsioni stimano inoltre che circa la metà delle economie a più rapida crescita nel 2018-2022 saranno africane e che entro il 2030 la popolazione africana raddoppierà portando con sé un’espansione della classe media e un incremento nelle capacità di spesa dei paesi africani. Questa evoluzione ha incoraggiato gli attori globali a riconsiderare le opportunità che il continente è in grado di offrire, soprattutto in termini di commercio e investimenti, e a ridefinire le proprie politiche africane. Queste dinamiche hanno interessato anche alcuni paesi del Corno che, alla luce della peculiare collocazione geografica descritta in precedenza, hanno registrato soprattutto notevoli interessi securitari. Il Corno d’Africa tornò prepotentemente all’attenzione degli USA con l’avvio della cosiddetta lotta globale al terrore (in particolare contro al-Qaeda) in seguito agli attentati in Kenya e Tanzania nel 1998 e a quelli dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti. In quell’anno Washington si insediò in quella che ad oggi è ancora l’unica base militare permanente in Africa, Camp Lemonnier a Gibuti. Da allora, seguendo l’esempio degli USA e della Francia (presente dall’epoca coloniale), diverse potenze esterne hanno collocato i loro avamposti militari nella regione: a Gibuti sono state aperte una base militare giapponese (2011), una italiana (2013) e una cinese (2017); a Mogadiscio, in Somalia, i turchi ne hanno costruita una comprensiva di centro di addestramento (2017); mentre gli Emirati Arabi Uniti (EAU) si sono insediati nella base navale di Assab in Eritrea (2015) e hanno avviato la costruzione di una base militare a Berbera in Somaliland (2017); infine nel 2018 forze di Turchia e Qatar si sono insediate a Suakin in Sudan.Dal 2015, inoltre, diverse potenze mediorientali, in particolar modo quelle del Golfo, hanno aumentato l’interazione con i paesi del Corno nel quadro della propria politica di contenimento iraniana e della guerra in Yemen. La guerra per procura contro l’Iran, intensificatasi con il graduale disimpegno americano dal Medio Oriente annunciato dall’amministrazione Obama e di cui l’accordo sul nucleare iraniano è uno degli esempi più emblematici, aveva infatti da allora trovato nuova espressione nel campo di battaglia yemenita. Dal 2016 le potenze del Golfo hanno investito oltre 2 miliardi di dollari nei paesi del Corno[4], incrementato la propria presenza militare e spinto paesi come Eritrea e Sudan, in passato assi principali del traffico d’armi con cui l’Iran sosteneva milizie alleate nel Levante arabo, a tagliare i rapporti con Teheran.Dal giugno 2017 si è aggiunto un nuovo fattore alla rivalità tra Golfo arabo e Iran, ovvero la tensione tutta interna al mondo arabo e specialmente alle monarchie del Golfo, rappresentata dalla frattura tra Qatar e il cosiddetto “quartetto arabo”(Arabia Saudita, Bahrein, Egitto, Emirati) a causa del presunto sostegno di Doha a gruppi terroristi e della sua vicinanza all’Iran. Dettata dal tentativo soprattutto di Arabia Saudita ed EAU di consolidare la propria posizione nel Medio Oriente allargato, questa crisi diplomatica ha scatenato un riallineamento delle alleanze con i paesi del Corno, da quel momento invitati a schierarsi con uno dei due blocchi, e ha spinto altre potenze esterne a incrementare a loro volta la propria presenza per contrastare l’influenza dei paesi rivali.  

 

Gli interessi degli attori esterni

Gli attori internazionali presenti nella regione hanno agende diverse ma caratterizzate da alcuni elementi comuni, sia di natura politico-militare sia di carattere economico-commerciale. Posizionarsi lungo le coste del Corno significa anzitutto assicurarsi una posizione favorevole lungo le rotte chiave del commercio internazionale – di importanza crescente, visto che da lì passa la rotta marittima della nuova Via della seta cinese – o in prossimità di importanti teatri di conflitto come lo Yemen. Vi è dunque una componente di sicurezza economica che, visto il passaggio di numerosi porta-container e petroliere tra il Mar Mediterraneo e l’Oceano Indiano, intende salvaguardare interessi commerciali ed energetici da fattori di insicurezza come la presenza di pirati, movimenti jihadisti e gruppi insorgenti dotati di sviluppate capacità missilistiche come gli Houthi – la cui minaccia missilistica ha spinto i sauditi ad interrompere per un breve periodo il transito di petrolio per lo stretto di Bab al-Mandeb. A questo si aggiunge l’interesse ad assicurarsi contratti per l’acquisizione di terreni agricoli e industrie agro-alimentari locali necessari per soddisfare le esigenze di sicurezza alimentare di alcune potenze esterne, ma anche concessioni per l’estrazione di minerali e petrolio e opportunità offerte dai mercati africani (e dalla classe media in espansione) in un’ottica di diversificazione delle proprie economie (soprattutto per quanto riguarda i paesi produttori di petrolio). La componente economica dell’agenda degli attori internazionali rivela in realtà quanto sia forte il suo legame con interessi politico-securitaridi espansione della propria sfera di influenza e di ricerca di supporto diplomatico in sede internazionale. La competizione in uno degli angoli più volatili al mondo dal punto di vista della sicurezza si gioca infatti soprattutto sugli investimenti in infrastrutture logistiche (acquisizione e sviluppo di porti) anche di natura militare (installazione di basi) per chi ha interessi strategici nella zona. Gli strumenti utilizzati per acquisire influenza nei paesi del Corno sono principalmente partnership e accordi militari (come costruzioni di infrastrutture, vendita di armamenti, esercizi militari, addestramenti, copertura di spese per il personale militare), investimenti economici e aiuti allo sviluppo. 

 

L’impatto sugli attori locali

Da questa competizione i paesi del Corno traggono vantaggi in termini di sviluppo infrastrutturale, agricolo e militare. Tuttavia, le contese tra attori esterni talvolta contribuiscono ad esacerbare fratture politiche locali, alimentando le ambizioni di attori che grazie al supporto esterno possono contestare le già fragili autorità centrali – come ad esempio in Somalia. Ugualmente allarmante è l’impatto che questa competizione risulta avere sulle agende degli attori locali: negli ultimi anni diversi paesi della regione – Eritrea, Sudan, Gibuti – sono stati spinti a rivedere le proprie alleanze a causa delle crescenti pressioni esterne volte a contenere, a turno, l’influenza iraniana, qatarina, emiratina o cinese.Benché dunque i paesi del Corno e gli attori esterni non possano essere considerati partner eguali, sarebbe tuttavia un errore considerare gli attori africani del Corno come clienti esclusivamente passivi. Anzi, a differenza di quanto accadde nella spartizione coloniale del XIX secolo, gli attori locali oggi preservano comunque una certa autonomia d’azione (agency), talvolta lottando per mantenere una certa neutralità politica (Etiopia), rescindendo unilateralmente contratti (Somalia e Gibuti) o creando nuove alleanze locali tra di loro (Etiopia-Eritrea-Somalia-Gibuti, il cui primo input per il riavvicinamento sembra essere stato endogeno). L’Etiopia, ad esempio, grazie al maggior peso economico acquisito negli ultimi anni, ha saputo bilanciare le relazioni commerciali e securitarie con i diversi attori mediorientali senza soccombere completamente alle loro pressioni. Addis Abeba sostiene alternativi piani di sviluppo portuali (prima a Gibuti, poi a Berbera in Somaliland e infine ad Assab in Eritrea) per evitare una dipendenza eccessiva da un unico porto. Anche l’Eritrea e il Sudan, facendo leva sulla propria posizione strategica sul Mar Rosso, hanno giostrato le relazioni con sauditi, emiratini ed egiziani per allentare l’isolamento internazionale imposto dall’Etiopia o dalle sanzioni USA, scegliendo di sacrificare i legami con l’Iran. Lungi dal sentirsi vincolato dal legame con i nuovi partner, il regime sudanese ha in seguito firmato accordi separati con Turchia e Qatar per lo sviluppo civile e militare del porto di Suakin (nonostante le smentite, è possibile che Ankara stia costruendo una base militare). Infine, a discapito di Mogadiscio, le regioni somale semi-indipedenti del Somaliland e del Puntland hanno approfittato della competizione tra gli sponsor mediorientali per beneficiare di nuove attenzioni. È dunque in crescita la capacità dei paesi del Corno di influenzare le scelte degli attori esterni, spingendoli uno contro l’altro per trarre maggior beneficio.  

 

1.3 La normalizzazione dei rapporti politici interni al Corno

Oggi il Corno d’Africa sembra essersi avviato verso un’insperata stabilizzazione in cui le rivalità regionali degli anni Novanta sembrano dirigersi verso un superamento, ma fino all’inizio dell’anno, poco prima dell’ascesa del nuovo primo ministro Abiy Ahmed in Etiopia, la regione rimaneva scossa da disordini, dispute di confine irrisolte (Eritrea-Etiopia, Eritrea-Gibuti, Etiopia-Somalia, Sudan-Etiopia) e tensioni per la gestione di risorse transfrontaliere come le acque del Nilo. Nella normalizzazione dei rapporti tra Eritrea ed Etiopia – l’evento più rilevante nella regione nel corso dell’ultimo anno – gli attori esterni hanno giocato un ruolo non trascurabile. Molto si deve certamente alle personalità di Abiy e Afewerki (presidente dell’Eritrea), ma risulta altrettanto evidente l’intervento diretto di potenze esterne. In particolare, funzionari sauditi, emiratini, egiziani e americani si sono resi protagonisti di un’intensa attività di shuttle diplomacy e back-channel nei mesi precedenti la storica dichiarazione congiunta di pace firmata il 9 luglio ad Asmara e poi confermata dall’accordo siglato a Jeddah, in Arabia Saudita, il 16 settembre. L’interesse delle potenze esterne era quello di sfruttare il cambio di leadership e di politica estera in Etiopia per riaffermare la propria influenza nella regione, anticipando possibili interventi da parte di potenze rivali. La normalizzazione dei rapporti tra Addis Abeba e Asmara ha avuto un effetto domino sulla regione, portando a un riavvicinamento anche tra Eritrea e Gibuti, oltre che a un miglioramento dei rapporti regionali con il governo somalo. A suggellare questa riconciliazione, Eritrea, Etiopia e Somalia si sono incontrati a inizio settembre ad Asmara in un format originale per rilanciare una collaborazione multilaterale che stabilizzi l’intera area del Corno. Come anticipato, la normalizzazione delle relazioni regionali è stata dettata in primo luogo da logiche interne. La decisione dell’Etiopia di rinunciare alla città contesa di Badme e alle precondizioni su cui in passato aveva costantemente insistito rientra nella linea politica riformatrice del nuovo ministro etiopico Abiy Ahmed finalizzata ad arginare la minaccia del Fronte di Liberazione del Tigrè (TPLF)[5]. Abiy – un oromo[6] scelto dalla coalizione elettorale al potere dal 1991, il Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope (EPRDF), per superare le tensioni che dalla fine del 2014 interessano diverse regioni del paese (soprattutto quelle degli oromo e amhara) – ha ritenuto indispensabile l’avvio di una serie di riforme per limitare le fronde più estremiste del regime (in particolare la sopracitata minoranza tigrina) e garantire quella stabilità interna necessaria per sostenere la sorprendente crescita economica che il paese registra da qualche anno. Di conseguenza, oltre a porre fine a un conflitto controproducente come era quello che da vent’anni vedeva il paese contrapposto all’Eritrea, Abiy in pochi mesi ha abrogato lo stato di emergenza[7], scarcerato diversi prigionieri politici, rimosso alcuni vertici militari e introdotto riforme per liberalizzare l’economia. Anche per Asmara la fine dell’isolamento internazionale consente di rilanciare l’economia e riconquistare legittimità agli occhi della popolazione. Oltre ai risvolti interni, questa normalizzazione crea anche nuove opportunità per gli attori esterni. Per sostenere la propria crescita economica, oggi con ancor più slancio senza la minaccia di una guerra con l’Eritrea, l’Etiopia necessita infatti di maggiori infrastrutture, una diversificazione degli accessi al mare e sostegno finanziario per uscire dalla lunga crisi dovuta alla mancanza di valuta estera. Per realizzare questi obiettivi risulta fondamentale la partecipazione dei partner esterni. Dagli eventi di questi ultimi mesi sembra dunque che la competizione tra gli attori internazionali sia destinata ad intensificarsi ulteriormente. Un effetto collaterale della pacificazione Eritrea-Etiopia potrebbe però riguardare il possibile riorientamento delle rotte del traffico illecito d’armi tra la Penisola arabica e il Corno d’Africa[8]. Oggi che l’Eritrea – principale punto d’approdo dei traffici illegali provenienti dallo Yemen – sta uscendo dall’isolamento internazionale, il ruolo di nuovo snodo regionale lo sta progressivamente conquistando Gibuti. Molte imprese lì basate e coinvolte nel fiorente settore marittimo gibutiano risultano essere sempre più coinvolte nel traffico illegale di armi che, storicamente, interessa le due sponde del Mar Rosso. Le armi, partendo nella maggior parte dei casi dalla provincia di Hodeida nello Yemen (oggi sotto controllo Houthi e fronte più caldo dello scontro con la coalizione a guida saudita), una volta giunte sulle coste del Corno vengono poi smistate ai gruppi armati nel nord della Somalia (sostenuti dal governo di Gibuti), ma anche alle milizie in Sudan, Sud Sudan e Etiopia. L’Eritrea facilitava l’invio di armi e addestramento anche ai militanti di al-Shabaab in Somalia e ai gruppi ribelli in Etiopia come il Fronte di Liberazione Nazionale dell’Ogaden (ONLF) e il Fronte di Liberazione degli Oromo (OLF). Non vi sono prove che Gibuti stia facilitando l’invio di armi ad al-Shabaab, però è stato documentato come le truppe gibutiane che partecipano alla missione dell’Unione Africana in Somalia AMISOM siano coinvolte nel fornimento di armi a gruppi attivi nel nord del vicino meridionale.  

 

1.4 Trend settoriali: demografia, povertà, energia, infrastrutture, cambiamento climatico

La popolazione dell’Africa è quella a più rapida crescita nel mondo ed è destinata a raddoppiare da qui al 2050, passando da 1,2 a 2,5 miliardi. Il Corno non è un’eccezione a questo trend. Nella maggior parte dei paesi della regione il punto di transizione demografica – in cui si passa a un regime di bassi tassi di natalità e limitati tassi di mortalità – non verrà raggiunto prima di metà secolo. Si prevede dunque che nel 2050 la popolazione dell’Etiopia sarà raddoppiata, dopo che, dal 2005 al 2015, nel corso di dieci anni l’Etiopia ha visto la propria popolazione aumentare di 23 milioni. Un incremento così rapido mette a dura prova l’erogazione dei servizi alla popolazione, soprattutto quelli sanitari e dell’istruzione, la gestione della terra e delle risorse naturali, l’occupazione dei giovani, anch’essi in aumento, così come la stessa crescita economica. Gibuti è l’unico paese della regione con un tasso di crescita demografica inferiore al 2%.Oltre alla crescita, un trend demografico altrettanto importante riguarda l’urbanizzazione, ovvero lo spostamento della popolazione africana dalle aree rurali a quelle urbane. Se nel 2000 la popolazione urbana dell’Etiopia corrispondeva al 14,7% del totale, oggi ha raggiunto il 20,3% e, secondo la Central Statistics Agency nazionale, entro il 2034 sarà triplicata. Il rapido inurbamento ha effetti negativi anche sul già grave deficit infrastrutturale che caratterizza il Corno e si ripercuote sulla vita nelle città. Il sistema dei trasporti cittadini africani è debole e gli alloggi economicamente poco accessibili a gran parte della popolazione. Allo stesso tempo, però, anche la popolazione rurale continuerà a crescere, seppur a un tasso inferiore di quella urbana. L’espansione urbana avrà inevitabilmente delle ripercussioni sul mondo rurale, vista l’appropriazione di terreni in precedenza dediti all’agricoltura, con il rischio di assistere a un aumento delle proteste tra mondo agricolo e centri urbani.Il Corno d’Africa rimane una delle regioni al mondo con i più bassi livelli di sviluppo socioeconomico – i singoli paesi infatti si collocano agli ultimi posti della classifica dell’Indice di sviluppo umano, classificandosi tra la 167a e la 179a posizione – ma nella regione sono presenti anche sorprendenti eccellenze. L’Etiopia, paese più popoloso del Corno e dopo la Nigeria anche dell’intera Africa, è avviata a diventare l’economia mondiale a più rapida crescita per il 2018 secondo le previsioni del Fondo Monetario Internazionale[9]. Alla luce di questa performance, quello etiopico si è imposto come modello di sviluppo per l’intera regione, il cui quadro economico è più depresso, con le modeste crescite di Gibuti e Sudan affiancate dalle persistenti difficoltà di Eritrea e Somalia. Ciononostante, anche per il caso etiopico valutazioni macroeconomiche di questo tipo tendono a dissimulare disuguaglianze sub-statali in cui le aree maggiormente legate all’economia globale (come le capitali e le province più industrializzate) registrano crescite sorprendenti mentre le periferie rurali rimangono arretrate. Tra i partner commerciali principali, dietro la Cina – leader in tutti i paesi della regione esclusa la Somalia – seguono a distanza Emirati, Arabia Saudita e India. Altri attori esterni si sono invece focalizzati su un commercio più specializzato e settoriale; è il caso di Israele nel campo della sorveglianza e della Russia nel mercato delle armi.   Le risorse energetiche sono un fattore che caratterizza in modo significativo il Corno d’Africa. Non tanto per le risorse contenute nel sottosuolo, quanto soprattutto per le tonnellate di idrocarburi che ogni giorno transitano per le rotte marittime del Corno. Per lo stretto di Bab al-Mandeb, giugulare del commercio mondiale tra l’Est e l’Ovest, posto dove il Mar Rosso sfocia nel Golfo di Aden e da lì nell’Oceano indiano, transita l’8% del petrolio mondiale. Per ora ancora poco esplorata, in futuro la competizione degli attori internazionali potrebbe però accendersi anche sui giacimenti di materie prime (petrolifere e non) presenti nel sottosuolo. In Etiopia, la regione dell’Ogaden è ricca di giacimenti di petrolio e gas nei confronti dei quali la Cina ha già manifestato il proprio interesse. Oltre ad aver avviato le prime operazioni di estrazione di prova nel luglio 2018, Addis Abeba e Pechino hanno anche raggiunto diversi accordi sulla produzione petrolifera e sulla costruzione di un oleodotto verso Gibuti e una raffineria di GNL a Damerjog. Ciò renderebbe l’Etiopia paese esportatore di petrolio, status che nel Corno a oggi detiene solo il Sudan. Anche la Somalia è nota per esser dotata di riserve petrolifere – soprattutto nella regione semi-autonoma del Puntland e al largo della costa – ancora inesplorate a causa dell’instabilità politica. Il processo di industrializzazione procede a rilento in tutta la regione. Ancora oggi il settore agricolo occupa la maggior parte della forza lavoro locale e lo sviluppo infrastrutturale rimane ancora arretrato e bisognoso di investimenti – nell’Africa Infrastructure Development Index, nessun paese regionale supera i 22 punti su una scala 0-100. La corsa per lo sviluppo di porti e reti di trasporto da parte di attori internazionali è dunque ben accolta dai paesi del Corno. Uno dei driver principali che guida l’interesse delle potenze esterne verso il Corno è infatti la costruzione o acquisizione di infrastrutture strategiche come porti e basi militari lungo la costa. Lo sviluppo delle città portuali è tanto un interesse degli attori internazionali quanto un obiettivo degli stati della regione. Il Corno ha bisogno di migliorare le proprie infrastrutture, incluse quelle portuali, per gestire il tasso di crescita di alcuni paesi dell’Africa orientale, in primis l’Etiopia. Ciò è stato infatti uno dei temi principali sollevati dal nuovo primo ministro etiopico Abiy Ahmed nelle sue prime visite di stato regionali. L’Etiopia ha bisogno di diversificare le rotte per l’accesso al mare in modo da rompere la dipendenza eccessiva su Gibuti che, dalla fine degli anni Novanta (quando scoppiò il conflitto con l’Eritrea), gestisce il 90% del commercio estero etiopico. Gibuti rimarrà comunque un perno della rete infrastrutturale regionale grazie agli investimenti ottenuti negli ultimi anni principalmente dalla Cina e dalla stessa Etiopia. Tra questi, la linea ferroviaria di 750 km tra Addis Abeba e Gibuti, inaugurata all’inizio del 2018, e il porto multifunzionale di Doraleh nel 2017 (590 milioni di dollari). Fino ad allora il porto principale era il Doraleh Container Terminal, gestito dal 2008 dall’emiratina DP World e principale fonte di entrate e impiego a Gibuti, finché nel febbraio 2018 Gibuti ha rescisso unilateralmente la concessione e nazionalizzato anche il restante 33% della sua partecipazione azionaria al culmine di una battaglia legale di 6 anni. I porti di Berbera in Somaliland e Assab in Eritrea sono gli scali che hanno riscosso maggior interesse da parte delle potenze esterne come alternativa a Gibuti. Il riavvicinamento tra Eritrea ed Etiopia e il miglioramento dei rapporti con altri paesi della regione aprono inoltre ulteriori possibilità nel campo dello sviluppo infrastrutturale per questi e altri porti eritrei e somali. Anche la guerra in Yemen, iniziata nel 2015 con l’avvio dell’offensiva saudita, ha contribuito a dare ulteriore importanza geostrategica ai porti africani dell’area.Pur avendo una rilevanza anche commerciale, quella del controllo dei porti è dunque preminentemente un obiettivo politico. Come lo stesso embargo contro il Qatar ha dimostrato, il controllo di porti e delle rotte è un forte strumento di pressione politica e di proiezione di potenza. Oltre ai porti, tra le infrastrutture strategiche in corso di sviluppo e di interesse per le potenze globali rientra anche la Grand Reinassance Dam che coinvolge Etiopia, Sudan ed Egitto.Alcuni porti sviluppati da potenze esterne hanno una chiara natura militare. Le basi militari nel Corno sono considerate strategiche vista la prossimità con lo Yemen e lo stretto di Bab al-Mandeb, oltre che per la presenza di pirati e gruppi terroristici. Diversi attori, come gli USA, hanno pochi investimenti o interessi commerciali nella regione ma hanno finanziato significativamente attività militari, inclusive di utilizzo di droni e di forze speciali. La presenza di un numero sempre maggiore di potenze straniere rivali nella regione rischia di alimentare tensioni. Un episodio indicativo di questo rischio è stata la denuncia da parte delle forze americane di aver subito una serie di incidenti o provocazioni di presunta matrice cinese nei pressi della propria base gibutiana.   A oggi, almeno 8 attori internazionali (Francia, Stati Uniti, Giappone, Italia, Emirati, Cina, Turchia, Qatar) hanno una base o installazione militare propria nel Corno d’Africa. A Gibuti vi sono basi militari di USA (a Camp Lemmonier, aperta dopo il 9/11), Francia (dall’epoca coloniale), Cina (dal 2017, sua prima base militare all’estero) e anche Italia (2013) e Giappone (2011), mentre l’Arabia Saudita è in trattativa per aprirne una. In Somalia sono presenti installazioni militari turche (a Mogadiscio nel 2017 è stata aperta la più ampia base militare estera di Ankara) ed emiratine (in costruzione nel Somaliland, mentre la missione di addestramento a Mogadiscio è stata chiusa nel 2018). Dal 2015 gli Emirati hanno inoltre una base militare ad Assab, in Eritrea, mentre dal 2017 si ritiene che forze egiziane siano presenti nell’arcipelago eritreo di Dahlak, al largo di Massawa[10]. Infine in Sudan, a Suakin, si stanno installando forze militari turche e qatarine. Al largo delle coste somale sono inoltre attive diverse operazioni navali, anche multinazionali contro la pirateria. Tra diverse task force internazionali, vi è anche una missione dell’Unione Europea (EUNAVFOR Somalia, altrimenti nota come Operazione Atalanta) attiva dal 2008 nel Golfo di Aden e tutto l’Oceano indiano occidentale. La pirateria e la presenza di gruppi jihadisti non sono l’unica minaccia nell’area. Il Corno così come tutta la regione dell’Africa orientale è infatti particolarmente vulnerabile al cambiamento climatico. La regione è caratterizzata da una lunga storia di carestie e siccità che ciclicamente colpiscono le popolazioni locali. Nel 2011 la carestia in Somalia causò 260.000 vittime. Da allora è stata ufficialmente dichiarata solo in Sud Sudan nel 2017, ma la situazione umanitaria legata all’insicurezza alimentare rimane drammatica in tutta la regione. A inizio 2018, secondo i dati FEWS.net, risultava che oltre 15 milioni di persone nel Corno d’Africa avessero bisogno di aiuti alimentari d’urgenza: 8,5 milioni in Etiopia, 3,8 milioni in Sudan e 3,3 milioni in Somalia.  Gli effetti negativi del cambiamento climatico sono aggravati da alcune peculiarità delle società del Corno. Anzitutto, la maggior parte della popolazione è costituita da agricoltori di sussistenza il cui raccolto è la principale fonte di reddito e sostentamento. Inoltre, sono presenti anche numerosi gruppi pastorali dediti all’allevamento che fanno della mobilità lo strumento principale per mitigare l’impatto delle condizioni ambientali avverse. A causa dell’incremento della densità abitativa e della riduzione dei terreni a disposizione per il bestiame, oggi questi due gruppi della società entrano sempre più spesso in conflitto. I trend ambientali futuri per il Corno non sono rosei. Nei prossimi anni, sarà l’Eritrea a soffrire particolarmente il riscaldamento globale, con le temperature destinate ad aumentare di 4°C entro il 2060, ben oltre la media mondiale[11]. Ma a soffrirne saranno anche l’Etiopia, che già nel 2016 ha vissuto la peggior siccità da 50 anni a questa parte, e la Somalia, che dopo la carestia del 2011 sta attraversando una nuova fase di insicurezza alimentare acuta aggravata dalle scarse precipitazioni che nel 2017 hanno registrato un decremento del 15% rispetto alle medie storiche. Paradossalmente, però, il Corno è ciclicamente affetto anche da fenomeni climatici opposti come inondazioni e piogge torrenziali. Nel 2018 gli allagamenti che hanno interessato parte della Somalia e del Sudan hanno causato lo sfollamento rispettivamente di 50.000 e 230.000 persone.Per il Corno, però, siccità, carestia e inondazioni non sono gli unici pericoli climatici. Anche l’incremento del livello del mare è sempre più una minaccia per gli insediamenti costieri in Sudan, Eritrea, Gibuti e Somalia. L’Intergovernmental Panel on Climate Change prevede che il livello del mare si alzi tra i 18 e 59 cm entro il 2100. Soprattutto a Gibuti, dove la maggior parte della popolazione presente nella capitale si trova a ridosso del mare, l’innalzamento dell’acqua comporterebbe danni significativi. L’unica opzione per i paesi del Corno, responsabili in modo marginale dell’effetto serra, sembra essere quella di adattarsi all’inevitabilità del cambiamento climaticoe del riscaldamento globale. 

 

1.5 Implicazioni umanitarie

Alcuni dei trend precedentemente descritti rischiano di avere ripercussioni umanitarie rilevanti. Le avverse condizioni climatiche, la conseguente insicurezza alimentare, la crescita demografica, così come le tensioni che caratterizzano alcune aree della regione e la presenza di gruppi islamisti militanti, sono tra le cause che spingono molte persone a spostarsi sia entro i confini nazionali (IDP, internal displaced people) sia oltre frontiera, nei paesi confinanti o al di fuori del continente, soprattutto in Europa o nel Golfo.L’emigrazione dal Corno arriva a interessare anche l’Europa e l’Italia – nel 2017 sulle nostre coste sono arrivati oltre 44.000 eritrei e 40.000 sudanesi – ma i profughi si fermano perlopiù nei paesi limitrofi più sicuri, all’interno della stessa regione. L’Etiopia è infatti il quinto paese al mondo – e primo in Africa – per numero di rifugiati ospitati. Essa stessa è però paese d’origine di migrazione o sfollamenti interni a causa di tensioni e instabilità. Secondo i dati di UNHCR, a inizio 2018 l’Etiopia ha ospitato più di un milione di sfollati interni e quasi 900.000 rifugiati. Altri due paesi caratterizzati da un elevato numero di sfollati interni sono Somalia e Sudan, con cifre che si aggirano intorno ai 2 milioni per entrambi. La regione è dunque una delle priorità per l’Europa in termini di flussi migratori. A questo riguardo l’Unione europea ha deciso di finanziare progetti umanitari e di sviluppo nei paesi del Corno con l’obiettivo – tra gli altri – di contrastare l’emigrazione verso l’Europa con i fondi dello European Union Trust Fund. A oggi, l’UE si è impegnata a finanziare 58 progetti per un valore totale che supera il miliardo di euro (€1.114.307.000). Parallelamente, ai paesi della regione la Commissione europea destina ogni anno aiuti umanitari con l’obiettivo di fornire assistenza alimentare e sanitaria ai milioni di sfollati a causa di conflitti o avverse condizioni climatiche. Nel 2017 sono stati stanziati più di €225 milioni[12]   

  

2. La corsa al Corno d’Africa: il ruolo degli attori mediorientali

La vicinanza tra il Corno e il mondo mediorientale emerge anzitutto dalla geografia e dalla condivisione delle acque del Mar Rosso che, estendendosi dalla Penisola del Sinai e il Golfo di Aqaba nel nord fino allo stretto di Bab al-Mandeb e il Golfo di Aden a sud, non supera mai i 355 chilometri di larghezza. Questa prossimità geografica ha avuto ripercussioni sulla storia e cultura dei paesi delle due sponde, per molti tratti simili, e sull’interdipendenza securitaria.   

 

2.1 Paesi arabi del Golfo: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar

Il Golfo e il Corno condividono una lunga storia di relazioni culturali, economiche e politiche. Il boom petrolifero del 1973 contribuì a dar loro rinnovato slancio, con le monarchie petrolifere del Golfo che iniziarono a prestare ingenti somme di denaro alle nazioni arabe e musulmane in Asia e Africa, incluse quelle del Corno. Superati gli anni Novanta, decennio di disimpegno dettato dalla crescente instabilità della regione (soprattutto in Somalia), negli ultimi anni i paesi del Golfo sono tornati a essere uno degli attori esterni più rilevanti nel Corno. Sono proprio alcuni sviluppi mediorientali, come la rivalità tra Iran e Arabia Saudita e la spaccatura tra Qatar e il quartetto arabo (Arabia Saudita, Emirati, Bahrein, Egitto), ad aver avuto forti ripercussioni sui paesi del Corno. Ciò che guida infatti le relazioni tra Corno e Golfo oggi non è l’eredità storica e culturale condivisa – e nemmeno in prima battuta gli interessi commerciali, seppur presenti e stimolati dalla crescita della classe media africana – quanto piuttosto necessità geopolitiche del momento. Gli investimenti portuali a Berbera (Somaliland, Somalia), Doraleh (Gibuti), Bosaso (Puntland, Somalia) e Assab (Eritrea) sono tutti da comprendere nel contesto delle crescenti rivalità tra potenze mediorientali, in primis quelle tra sauditi e iraniani, e tra monarchie del Golfo e Qatar, in un momento storico in cui l’Iran, prossimo alla reimposizione delle sanzioni americane, minaccia di limitare l’accesso allo Stretto di Hormuz e gli insorgenti Houthi filo-iraniani attaccano le petroliere saudite in transito nello stretto di Bab al-Mandeb.Gli investimenti, il commercio e perfino i flussi di aiuti sono dunque parte di una più ampia politica estera dettata da esigenze politiche e di sicurezza, e sono effettuati in gran parte da attori statali o parastatali. Tra le esigenze di sicurezza rientrano anche quelle alimentare e idrica. La lotta a questa insicurezza è una determinante importante dell’agenda dei paesi del Golfo nel Corno, soprattutto alla luce del potenziale rischio di instabilità politica che ciò può generare nell’arena domestica. Soprattutto Arabia Saudita, Qatar ed EAU si sono attivati sui mercati esteri con l’obiettivo di acquisire o affittare terreni agricoli. Nonostante la regione del Corno sia fortemente instabile dal punto di vista climatico e la vicinanza alle principali rotte marittime consentirebbe comunque ai paesi del Golfo di affidarsi anche a partner più distanti geograficamente, le monarchie arabe hanno individuato il Corno, in particolar modo Sudan ed Etiopia, come target principale degli investimenti agricoli. Non può dunque essere trascurata la natura politica della scelta di utilizzare anche questo strumento ai fini della lotta per l’espansione o il consolidamento della propria influenza nella regione. Quello religioso non appare invece essere un fattore determinante. Per quanto soprattutto sauditi e qatarini tendano spesso a promuovere la propria particolare interpretazione dell’islam nelle proprie campagne estere, l’adesione a questi principi non è mai stata una condizione vincolante per le relazioni politiche ed economiche con i paesi del Corno, senza dubbio più pragmatiche che ideologiche. Il principale strumento di politica estera mediorientale è dunque il capitale finanziario pubblico, nella forma di fondi sovrani, le holding possedute dallo stato (Mubadala di Abu Dhabi), compagnie commerciali statali (DP World di Dubai), prestiti dalle banche centrali, fondi operati dal Golfo come la Banca di sviluppo islamica, istituzioni finanziarie nazionali (Kuwait Fund for Arab Economic Development, Qatar Foundation molto attiva in investimenti nel campo della cultura, fatto che la rende veicolo principale del soft power qatarino), organizzazioni caritatevoli[13].Tra il 2000 e il 2017 Arabia Saudita, Emirati e – in misura minore – Qatar e Kuwait hanno investito 13 miliardi di dollari nel Corno (attraverso 434 progetti) diretti principalmente a Etiopia e Sudan e nel settore agricolo, manifatturiero e delle costruzioni. Tenendo conto delle dimensioni degli investimenti piuttosto che del numero dei progetti, anche Gibuti e la Somalia, così come i settori dei porti e delle telecomunicazioni, emergono come importanti beneficiari. Il valore degli investimenti ha generalmente rispecchiato le fluttuazioni del prezzo del petrolio.   Anche gli aiuti allo sviluppo (ODA) da parte dei paesi del Golfo verso il Corno sono stati consistenti nel periodo in cui i prezzi petroliferi erano più alti (2008-2013). Tuttavia, a differenza degli investimenti, gli aiuti sono stati diretti principalmente verso Gibuti ed Eritrea e, per quanto riguarda i settori, si sono concentrati su quello dell’energia, dei trasporti e dell’agricoltura. Infine, per quanto riguarda il commercio di beni non petroliferi, i paesi del Golfo sono tra i principali partner di Gibuti, Somalia e Sudan. Una tendenza che si allinea con le recenti visioni economiche dei paesi del Golfo (es. Vision 2030 saudita) tese a diversificare le proprie economie dalla dipendenza petrolifera.  

Arabia Saudita

Entrata nella competizione regionale più in ritardo rispetto all’asse rivale turco-qatarino, l’azione dell’Arabia Saudita nel Corno d’Africa è dettata principalmente dall’esigenza di contenere l’Iran, anch’esso presente da tempo nella regione, e contrastare l’influenza del Qatar. Con il disimpegno americano in Medio Oriente voluto dall’Amministrazione Obama, Riyadh si è infatti vista costretta ad adottare una strategia di sicurezza più assertiva e talvolta indipendente dall’alleato storico. Temendo un’espansione dell’influenza iraniana nella regione in seguito all’accordo sul nucleare del 2015, Riyadh ha subito avviato una campagna diplomatica per sradicare la presenza iraniana in Sudan, Somalia e Gibuti. A inizio 2016, in seguito alle polemiche scatenate dall’incendio all’ambasciata saudita a Teheran, il Sudan seguì l’appello saudita e tagliò i rapporti diplomatici con l’Iran. Tuttavia, a dimostrazione di una certa autonomia d’azione, il Sudan aveva già in precedenza deciso di contenere l’influenza iraniana nel paese e di avvicinarsi ai sauditi per ottenere la rimozione delle sanzioni USA. Già nel 2014, infatti, il presidente sudanese al-Bashir chiuse il centro culturale iraniano di Khartoum ed espulse parte del personale diplomatico iraniano[14]. Anche Gibuti e la Somalia interruppero i rapporti con l’Iran nel 2016.
Nel 2015, quando il principe ereditario saudita Mohamed bin Salman lanciò l’offensiva militare contro gli Houthi filo-iraniani in Yemen, Eritrea e Sudan rilanciarono il proprio sostegno a Riyadh, che con promesse di investimenti e prestiti stava cercando supporto militare tra i paesi del Corno. Asmara espulse la missione degli Houthi e offrì truppe e basi per la guerra in Yemen. Per il presidente eritreo Afewerki si trattava di una utile via d’uscita dall’isolamento internazionale. Anche il Sudan offrì truppe (7.000 paramilitari), in cambio di investimenti e sostegno per la rimozione delle sanzioni americane. La vicinanza con l’Eritrea si è poi manifestata nel 2018 quando, insieme agli Emirati, l’Arabia Saudita si è impegnata in uno sforzo diplomatico di mediazione tra Etiopia ed Eritrea affinché i due rivali raggiungessero la pace. Per Riyadh un’Eritrea stabile è un beneficio per la guerra contro gli Houthi in Yemen, condotta in parte dalla base di Assab gestita dagli Emirati, ma anche per l’implementazione della Vision 2030. Uno dei suoi pilastri è infatti la trasformazione del paese in hub marittimo e logistico globale, obiettivo che può essere raggiunto solo con la stabilità regionale oltre che con il potenziamento dei propri porti che si affacciano sul Mar Rosso, come quelli di King Abdullah e Jeddah. Il 16 settembre l’Arabia Saudita ha ospitato proprio a Jeddah il secondo accordo di pace raggiunto tra Etiopia ed Eritrea dopo quello storico di luglio. Al cospetto di re Salman e alla presenza del segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, Abiy e Afewerki hanno riaffermato l’impegno a ottenere una pace duratura e promuovere una vasta cooperazione in svariati ambiti.
Nel periodo 2000-2017 l’Arabia Saudita ha investito 4,9 miliardi di dollari in oltre 250 progetti nel Corno[15], la maggior parte dei quali hanno riguardato l’Etiopia e il Sudan. Il settore di maggior interesse in entrambi i casi è stato quello agricolo, se si esclude quello manifatturiero che in Etiopia resta di gran lunga il primo settore di investimento, anche per quanto riguarda i finanziamenti sauditi. Riyadh non ha basi militari proprie nei paesi del Corno, ma ha da poco annunciato la costruzione di una base militare a Gibuti[16] e le sue forze armate sono presenti ad Assab, in Eritrea.

 

Emirati Arabi Uniti

Da qualche anno gli Emirati Arabi Uniti perseguono una politica estera ambiziosa, che ha assunto tratti sempre più assertivi, tanto da essere riconosciuti quale un attore regionale influente nelle dinamiche del Grande Medio Oriente. Sotto il comando del principe ereditario Mohammed bin Zayed (comandante supremo delle forze armate), nell’Oceano indiano occidentale e nel Corno d’Africa gli EAU stanno perseguendo una rapida azione di espansione marittima e consolidamento della propria presenza lungo una “collana” di porti e basi straniere da cui proiettare la propria potenza per aumentare la propria sfera di influenza regionale e assicurare i propri interessi strategici – tra cui il contenimento delle potenze rivali, la lotta contro i movimenti islamisti e l’insorgenza degli Houthi, la libertà di navigazione e l’acquisizione di risorse.
È così che, sfruttando relazioni storiche nell’area o “acquisendone” di nuove, gli Emirati hanno manovrato DP World per assicurarsi concessioni commerciali e accordi economici con diverse città portuali del Corno d’Africa, da Assab in Eritrea a Doraleh a Gibuti, Berbera nel Somaliland, Bosaso nel Puntland, Barawe e Kismayo in Somalia. Principale vettore dell’incursione emiratina nel Corno, DP World è il colosso mondiale delle spedizioni e infrastrutture marittime di proprietà dell’Emirato di Dubai. Terzo operatore portuale più grande al mondo[17], è presente nel Corno fin dai primi anni dopo la sua fondazione, avvenuta nel 2005. Nel 2006, infatti, si assicurò un contratto trentennale per la costruzione e gestione del Doraleh Container Terminal a Gibuti. Negli anni successivi DP World ha ottenuto il controllo dei porti di Berbera e Bosaso, rispettivamente in Somaliland e Puntland, diventando il principale datore di lavoro del settore privato in Somaliland, con circa 2.200 dipendenti.
Analizzando più in dettaglio gli sviluppi recenti della presenza emiratina in questi paesi, però, emerge un quadro di crescenti difficoltà. Recentemente, infatti, alcuni paesi del Corno si sono apertamente schierati contro gli Emirati. È il caso di Gibuti e della Somalia. Nel primo, già dal 2014 il governo aveva accusato DP World di corruzione ma il tribunale di Londra chiamato a giudicare il contenzioso nel 2016 scagionò la compagnia emiratina. Non accettando questa sentenza, non solo Gibuti rifiutò di concedere agli Emirati l’autorizzazione ad aprire una base militare nel paese, ma a inizio 2018 decise di rescindere unilateralmente il contratto sulla gestione del porto di Doraleh per motivi di salvaguardia della sovranità nazionale e nazionalizzare l’intero terminal (in maggioranza già di proprietà statale). Il 9 settembre, con un decreto, Gibuti ha ufficialmente nazionalizzato il terminal.
A deteriorare la situazione aveva contribuito la decisione di DP World di sviluppare un porto rivale, quello di Berbera nella regione somala semi-indipendente del Somaliland, come ritorsione all’avvio del contenzioso legale con Gibuti. All’accordo di 442 milioni di dollari del 2016 con cui DP World ottenne la modernizzazione e gestione del porto, ha fatto seguito uno militare con le autorità del Somaliland, in base al quale gli Emirati hanno ottenuto in concessione per 25 anni la vecchia base militare di Berbera. In questa joint venture è presente anche l’Etiopia che ha acquisito una partecipazione del 19% ed è interessata ad incrementare e diversificare le vie d’accesso al mare. L’attuale stato infrastrutturale nel Corno d’Africa non è infatti sufficiente a soddisfare le esigenze legate alla crescita economica etiopica. Come da accordo, inoltre, gli Emirati stanno sviluppando la rete stradale che collega il porto commerciale al confine etiopico e hanno avviato il finanziamento di programmi di istruzione e sanità. Per il Somaliland, gli investimenti degli Emirati consentono di ottenere legittimità internazionale (seppur limitata), una parziale integrazione nei circuiti commerciali regionali e un rafforzamento della sicurezza. Al contrario, però, nel corso del 2018 le relazioni con il governo centrale della Somalia sono peggiorate. Nel marzo 2018 il parlamento nazionale di Mogadiscio ha dichiarato nullo l’accordo con il Somaliland sullo sviluppo del porto di Berbera, in quanto raggiunto senza aver ottenuto l’approvazione delle autorità centrali. A determinare ufficialmente l’interruzione delle relazioni lo scorso aprile fu la confisca da parte delle autorità somale di un carico di 9,6 milioni di dollari in contanti provenienti dagli Emirati. Accusati di voler corrompere le autorità e interferire nella politica del paese, gli Emirati decisero di lasciare la base militare di Mogadiscio e sospendere gli aiuti e il programma di addestramento all’interno del quale le forze armate emiratine addestravano i soldati somali a combattere contro al-Shabaab. L’ingerenza politica degli Emirati si era già manifestata alle presidenziali somale del 2017, in cui avevano sostenuto l’ex capo di Stato Sheikh Sharif, sfidante principale del presidente uscente Hassan Sheikh Mohamud supportato da Qatar e Turchia. Alla fine vinse Mohamed Abdullahi Mohamed detto Farmaajo, una figura più neutrale, ma comunque più vicina all’asse turco-qatarino. Infatti, sempre nel 2017, in seguito alla spaccatura interna al Golfo e all’embargo contro il Qatar, Mogadiscio, come anche Khartoum, si era rifiutata di tagliare i rapporti con il Qatar. A indisporre ulteriormente il governo centrale della Somalia è stata l’insistenza degli Emirati a investire nelle province autonome del Somaliland e del Puntland, aggirando l’autorità centrale di Mogadiscio. Tra i paesi del Golfo, gli Emirati sono gli unici investitori presenti in Somaliland e Puntland e i primi per investimenti diretti esteri in tutta la Somalia. Nel paese, inoltre, essi hanno fornito una significativa assistenza nel campo della sicurezza, soprattutto alle forze di polizia marittima del Puntland[18] per combattere la pirateria e i gruppi islamisti.
Alla luce delle difficoltà incontrate a Gibuti e in Somalia, gli Emirati – insieme ai sauditi – hanno giocato un ruolo di primo piano nella normalizzazione dei rapporti tra Eritrea ed Etiopia, fino ad oggi una delle principali cause di instabilità nella regione. La pacificazione comporta un duplice beneficio strategico agli Emirati, in termini di stabilizzazione – requisito necessario per gli investimenti nella regione – ma soprattutto di rafforzamento della propria influenza sul Corno d’Africa, assicurandosi una relazione preferenziale con il paese più popoloso e ricco della regione, l’Etiopia, e quello strategico per il controllo dei traffici marittimi del Mar Rosso, l’Eritrea. L’azione mediatrice degli Emirati è stata multiforme: alla fase iniziale di shuttle diplomacy si è in seguito aggiunta l’organizzazione di incontri privati con i due leader e l’annuncio di una serie di aiuti e investimenti dal valore totale di 3 miliardi di dollari. Questi comprendevano la costruzione di un oleodotto tra la capitale etiopica Addis Abeba e la città portuale eritrea di Assab che fino al 1998 l’Etiopia utilizzava come principale punto di accesso al mare. Inoltre, 1 miliardo fu utilizzato per contrastare la carenza di valuta estera e la parte rimante fu investita nei settori turistico, agricolo e delle energie rinnovabili.
Per gli Emirati Assab è strategica per gli interessi militari nella regione. Costruire basi militari lungo il Corno è fondamentale per la guerra in Yemen, le operazioni di anti-terrorismo e anti-pirateria, l’espansione e consolidamento della propria profondità strategica necessaria per contenere le ambizioni regionali delle potenze rivali come l’Iran. Persa Mogadiscio in Somalia, qui vi è l’unica e principale base militare emiratina nel Corno, in attesa che sia ultimata quella di Berbera in Somaliland. Dopo essersi vista negata la costruzione di una base a Gibuti, nel 2015 gli Emirati hanno scelto la città portuale eritrea di Assab per costruire la loro prima base militare estera, concessagli dal governo eritreo in cambio della ristrutturazione dell’aeroporto di Asmara e del porto stesso. La posizione è strategica per implementare l’embargo contro lo Yemen e condurre le operazioni militari aeree contro gli insorti Houthi. Oltre alle finalità militari, gli Emirati puntano a sviluppare il porto anche dal punto di vista commerciale tramite DP World, anche per venire incontro inoltre ai bisogni di Addis Abeba, alla ricerca di accessi al mare alternativi a Gibuti.
Oltre a quelli militari e politici, infatti, nel Corno gli Emirati perseguono anche interessi commerciali, puntando a diventare una componente essenziale delle nuove Vie della Seta di Pechino e assicurare ai porti gestiti da DP World un ruolo di hub logistico e commerciale lungo le rotte che collegano Europa e Asia, via Africa. A fine luglio 2018, in seguito a una visita del presidente cinese Xi Jinping, gli Emirati hanno infatti siglato diversi accordi tra i quali alcuni di cooperazione collegati alla rotta marittima della Via della seta. Sul fronte degli investimenti, oltre a quelli di sviluppo portuale e militare – comunque inseriti in pacchetti che comprendono sviluppo infrastrutturale, addestramento, formazione e visti di mobilità – investitori emiratini privati e statali sono intervenuti nei paesi del Corno in un’ampia gamma di settori, tra cui quello bancario, del turismo, degli alimentari, dell’intrattenimento e dell’agri-business. Gli Emirati sono il secondo maggiore investitore del Golfo nel Corno, dopo l’Arabia Saudita, per numero di investimenti, ma primi per valore. Investono principalmente in Etiopia e Sudan, soprattutto nel settore manifatturiero e in quello agricolo, ma tra i progetti più significativi risultano quelli portuali di Doraleh a Gibuti, Berbera in Somaliland e Bosaso in Puntland. La sicurezza alimentare e idrica resta comunque una priorità nelle relazioni degli Emirati con il Corno. A questo riguardo, diverse aziende emiratine possiedono terreni agricoli nella regione.

 

Qatar

Nonostante oggi la presenza sia più limitata rispetto alle altre potenze corregionali, il primo paese del Golfo a espandere il proprio raggio d’azione nel Corno d’Africa – di fatto lanciando la competizione con le altre monarchie – è stato in realtà il Qatar. Come altrove, anche nel Corno Doha è inizialmente entrato come mediatore di dispute locali[19]. Anzi, quando dalla metà degli anni Duemila il Qatar emerse come uno dei paesi più affidabili ed efficaci nella mediazione politica, tra gli scenari di intervento più significativi vi erano proprio quelli del Darfur in Sudan e del conflitto frontaliero tra Gibuti ed Eritrea. Spinto da una combinazione di motivazioni, tra cui la propria sicurezza, la legittimazione internazionale e la diffusione della propria visione dell’islam, il paese è stato abile a sfruttare le vaste risorse finanziarie a disposizione – oltre a una effettiva neutralità rispetto ad altri attori considerati meno imparziali – come incentivi per la riduzione delle tensioni. Non sempre però questi successi sono stati in grado di mutare le preferenze degli attori coinvolti, ed è spesso accaduto – perfino nel Corno – che le relazioni da loro instaurate con il Qatar si sono successivamente deteriorate, a tal punto da arrivare in alcuni casi all’espulsione dei diplomatici di Doha.
Fino a metà 2017 il Qatar sorvegliava la zona cuscinetto tra Eritrea e Gibuti sorta in seguito al conflitto scoppiato tra i due paesi nel 2008. Successivamente, a causa della frattura tra Qatar e le altre monarchie del Golfo, alcuni paesi del Corno come Gibuti ed Eritrea si schierarono a favore del blocco anti-qatarino. Il regime di Asmara tagliò i rapporti con Doha, nonostante i suoi buoni rapporti in passato con il presidente eritreo Isayas Afewerki, a causa di presunti legami tra Doha e l’opposizione locale radicale, mentre Gibuti obbligò le forze mediatrici del Qatar a lasciare la zona d’intervento. Ciononostante, oggi nel Corno d’Africa Doha continua a intrattenere solidi legami con Sudan e Somalia. Rimane un caso a sé stante l’Etiopia, con cui le relazioni non hanno mai prosperato da quando i due paesi interruppero le relazioni diplomatiche (2008-2013) a causa della presunta vicinanza del Qatar all’Eritrea. In Somalia il Qatar ha sostenuto il governo con circa 400 milioni di dollari di aiuti in ottica anti-saudita ed emiratina. Doha ha inoltre fatto pressione sul presidente somalo Farmaajo affinché venisse annullata la concessione del porto di Berbera che era stata concessa dal Somaliland agli Emirati. Nel paese il Qatar non ha basi militari proprie, ma è in corso di sviluppo una in Sudan. Nel marzo 2017 ha infatti raggiunto un accordo preliminare con Khartoum per investire 4 miliardi di dollari nello sviluppo civile e militare di un porto a Suakin sulla costa sudanese che fornisce servizi di traghetti verso il porto saudita di Jeddah[20]. Il Sudan, benché riceva ingenti finanziamenti sauditi ed emiratini, si è rifiutato di tagliare i rapporti con il Qatar, riconoscendo in Doha un partner finanziario e politico altrettanto rilevante, oltre a condividere un comune sostegno alla Fratellanza musulmana. Anche gli investimenti del Qatar nel Corno sono limitati rispetto alle altre potenze del Golfo. Il Sudan è il beneficiario principale, in particolar modo nel settore agricolo, minerario e bancario.

 

2.2 Iran

Contrariamente a quella dei paesi arabi del Golfo, la politica iraniana verso il Corno sembra in fase di contrazione a causa delle azioni di contenimento delle potenze rivali. La presunta espansione iraniana nella regione, sulla scia della firma dell’accordo sul nucleare nel 2015, è stata infatti considerata dai rivali arabi una minaccia che giustifica parte del loro crescente attivismo nel Corno. L’interesse primario dell’Iran nel Corno risiede nel controllo delle vie di comunicazione marittime. Lo stretto marittimo più importante per l’Iran è quello di Hormuz, situato tra la propria costa meridionale e quella orientale della Penisola arabica; da lì transita l’intera produzione petrolifera iraniana trasportata via mare e il 30% di quella mondiale. Tuttavia, lo Stretto meridionale della Penisola arabica, quello di Bab-al Mandeb, risulta altrettanto fondamentale per la proiezione di potenza iraniana nella regione perché è da lì che transita una delle rotte principali per il traffico di armi diretto a gruppi alleati presenti nei paesi africani e nel levante arabo.
Nazioni Unite[21] e investigatori indipendenti[22] sostengono che l’Iran in passato abbia usato i porti del Corno d’Africa per il contrabbando di armi destinate a milizie locali africane ma anche a Hezbollah in Libano, Hamas in Palestina e agli Houthi in Yemen. Port Sudan in Sudan – definito dall’ex ministro della Difesa iraniana Mostafa Mohammad Najjar (2005-2009) il pivot delle relazioni tra Iran e Africa – e Assab in Eritrea sono stati i punti d’appoggio principali su cui l’Iran ha costruito il proprio traffico marittimo verso il Mediterraneo. Con questi paesi, nei decenni passati, l’Iran è riuscito a tessere solide relazioni nonostante evidenti divergenze politico-ideologiche. Né il Sudan, paese islamico ma di confessione sunnita, né l’Eritrea, regime laico guidato da un partito cristiano, possiedono caratteristiche tali da renderli alleati naturali della Repubblica Islamica.
Anzi, Asmara si è sempre opposta a governi e movimenti intenti a esportare o imporre un’agenda islamista nella regione. Allo stesso tempo, però, il regime eritreo non si sarebbe mai opposto a un’alleanza che, seppur insolita e provvisoria, avrebbe contribuito al conseguimento del proprio interesse nazionale. Anche l’Iran, d’altro canto, già dalla fine degli anni Ottanta aveva dimostrato un certo pragmatismo politico nella propria politica estera, astenendosi – se necessario – dall’imporre ai paesi con cui si interfacciava un’intransigente adesione alla propria ideologia rivoluzionaria. Alla luce di queste premesse, la pragmatica e insolita alleanza tra Iran ed Eritrea si è sviluppata negli anni Duemila in reazione all’isolamento diplomatico imposto ad Asmara e a controproducenti scelte politiche americane nel quadro della lotta globale al terrorismo. Questo allineamento con l’Iran ha rappresentato un cambiamento radicale della politica estera eritrea. Dopo aver ottenuto l’indipendenza nel 1993, infatti, Asmara si allineò con gli USA, instaurò un rapporto collaborativo con Israele e contrastò il Sudan, allora il grande alleato dell’Iran nella regione del Corno. Fino al 2006 i rapporti tra Teheran e Asmara rimasero dunque tesi, in quanto quest’ultima temeva l’esportazione della rivoluzione islamica iraniana in Eritrea. Alla fine di quell’anno, però, la posizione eritrea cambiò radicalmente a causa della decisione di Washington di ridurre la collaborazione militare con Asmara e di continuare a seguire una politica filo-etiopica. Fu dunque soprattutto responsabilità degli Stati Uniti se l’Eritrea finì per rinnegare Washington e stringere una solida alleanza con Teheran[23]. L’embargo sulla vendita di armi imposto ad Asmara, per non aver cooperato pienamente negli sforzi di antiterrorismo, fu il colpo decisivo che spinse l’Eritrea nel gruppo dei cosiddetti “stati canaglia” (rogue states) in cui figuravano Iran, Cuba, Siria, Venezuela e Corea del Nord. Tra il 2007 e il 2008 Iran ed Eritrea allacciarono per la prima volta relazioni diplomatiche – Teheran nominò un ambasciatore non residente basato in Sudan e Asmara uno basato in Qatar – e firmarono accordi a favore dell’espansione di commercio e investimenti iraniani nel settore minerario, agricolo, industriale ed energetico dell’Eritrea.
L’Iran è dunque riuscito a sfruttare l’isolamento politico dell’Eritrea per stabilire un avamposto strategico nella regione del Corno. Washington voleva limitare il sostegno eritreo agli al-Shabaab e la crescente cooperazione con l’Iran ma finì per ottenere l’effetto contrario. L’Eritrea, infatti, ha offerto alla marina iraniana un punto di approdo da cui sostenere le missioni di lunga durata nel Golfo di Aden e nel Mar Rosso e un importante snodo marittimo per i traffici iraniani diretti verso il Mediterraneo. Il porto eritreo di Assab è stato inoltre uno scalo utile per le operazioni di anti-pirateria condotte da Teheran dal 2008 al largo della costa somala. Per quanto questi dispiegamenti navali iraniani effettuati per preservare la libertà di navigazione siano consentiti dal diritto internazionale del mare, alcuni paesi – in particolare USA, Arabia Saudita, Israele – hanno espresso preoccupazione per le attività iraniane nella regione, sostenendo che da Assab, lungo quelle rotte marittime o via terra passando per Sudan ed Egitto, l’Iran trafficasse illegalmente armi destinate a gruppi filo-iraniani nel levante arabo.
Da qualche anno, però, l’interazione iraniana con il Corno si è ridotta. Siccome la cooperazione con l’Eritrea aveva effettivamente permesso a Teheran di aumentare la propria influenza politica e militare nel Corno, aggirando le resistenze dei rivali sauditi e israeliani, Arabia Saudita ed Emirati si sono attivate per rafforzare ulteriormente l’azione di contenimento iraniano temendo che il disimpegno americano avrebbe facilitato una maggiore espansione dell’influenza iraniana nel Corno. Lo sforzo di contenimento lanciato nel 2015 ha avuto un discreto successo. Oggi, infatti, l’Iran schiera nel Golfo di Aden la 56a flotta navale della Marina della Repubblica Islamica e nelle acque somale sono presenti pescherecci iraniani, tuttavia non vi sono prove di una significativa presenza di forze iraniane nel Corno d’Africa. Eritrea e Sudan hanno deciso infatti di schierarsi con Arabia Saudita ed Emirati quando nel 2015 venne lanciata l’offensiva saudita in Yemen contro gli insorgenti Houthi, accusati di essere sostenuti dall’Iran. Asmara ha espulso la missione degli Houthi che aveva ospitato fino ad allora e ha offerto truppe e basi per la guerra in Yemen. Gli Emirati hanno aperto in quell’anno una base proprio ad Assab e anche il Sudan ha impegnato truppe per la guerra (7.000 paramilitari). Per Afewerki e al-Bashir questa era un’opportunità per uscire dall’isolamento internazionale, che l’alleanza con l’Iran non poteva offrire.
Per ottenere capitale e investimenti dall’Arabia Saudita, infatti, il Sudan ha deciso di accantonare una relazione di lungo corso con Teheran. Benché territorio di islamisti sunniti, le relazioni tra i due paesi sono state solide fin dalla fine degli anni Ottanta, con la salita al potere di al-Bashir. In seguito alla visita di stato dell’allora presidente Rafsanjani, nel corso degli anni Novanta l’Iran aveva forgiato un’alleanza duratura inclusiva di trasferimenti di armi e campi di addestramento iraniani[24]. Dal Sudan armamenti di fabbricazione iraniana sono poi stati smistati in Africa ad altre milizie. La presenza locale di forze rivoluzionarie iraniane è stata registrata fino ai primi anni Duemila. Già però nel 2012 Khartoum rifiutò la richiesta iraniana di installare sistemi di difesa aerea sulla costa del Mar Rosso in ottica anti-israeliana, visti i diversi attacchi aerei attribuiti a Israele contro siti strategici sudanesi, tra i quali quello del 2012 a Yarmouk contro un deposito di munizioni iraniane destinate ad Hamas[25]. Infine, tra il 2014 e 2016, con la chiusura di un centro culturale e l’interruzione dei rapporti diplomatici, il Sudan ha posto fine alle relazioni con Teheran.
Il raggio d’azione dell’Iran nel Corno è dunque oggi più limitato rispetto al passato e alle altre potenze mediorientali. Ciò è evidente anche dal punto di vista commerciale, considerato che in confronto alle monarchie del Golfo l’interscambio iraniano con i paesi del Corno è esiguo, rimanendo inferiore ai 200 milioni di dollari, rispettivamente il 4% e 7% del valore di quelli emiratini e sauditi.

 

2.3 Turchia

La Turchia, insieme al Qatar, fu uno dei primi attori stranieri a entrare con decisione nel teatro del Corno d’Africa a inizio millennio, decretando l’avvio della nuova competizione internazionale per l’influenza regionale in Africa nord-orientale. Dalla fine degli anni Novanta le relazioni turche con l’Africa si sono risvegliate, soprattutto nei confronti dei paesi subsahariani, inclusi quelli del Corno. Il punto di svolta fu il 2005, designato dalla Turchia come anno dell’Africa. Da allora il governo di Ankara ha lanciato diverse iniziative con gli stati africani, ottenendo lo status di osservatore per l’Unione Africana (2005), l’istituzionalizzazione dei summit della cooperazione Turchia-Africa (tenuto periodicamente dal 2008), e i titoli di partner strategico dell’Unione Africana (2010), membro dell’Autorità intergovernativa per lo sviluppo nel Corno d’Africa (IGAD) e dell’African Development Bank (AfDB). Nell’estate del 2011 la visita di stato a Mogadiscio dell’allora primo ministro Recep Tayyip Erdoğan rafforzò la presenza turca nel Corno, trasformando la natura dell’impegno turco nell’intero continente africano. La presenza di Ankara in Somalia ha delle caratteristiche peculiari che la differenziano dalle altre potenze esterne. Tra queste, la diversificazione dei propri attori di politica estera, con il progressivo coinvolgimento di attori non statuali quali organizzazioni della società civile (CSO) e mondo imprenditoriale ad affiancare lo stato turco, e l’adozione del cosiddetto “Ankara Consensus”, l’approccio ibrido della politica estera turca che intreccia elementi del liberalismo democratico occidentale (Washington Consensus) e del capitalismo autoritario cinese (Beijing Consensus), aggiungendo un inedito umanitarismo di stampo religioso alla più tradizionale cooperazione sud-sud. Tra le organizzazioni della società civile, tra il 2005 e il 2014 il movimento di Fethullah Gülen, predicatore turco in esilio negli USA, ha ricoperto un ruolo particolare nella formulazione e implementazione dell’apertura turca all’Africa, soprattutto nel settore dell’istruzione attraverso la diffusione di scuole. Dopo il fallito colpo di stato del 2016 in Turchia, di cui Gülen è stato ritenuto responsabile, su pressione del governo di Ankara, le scuole sono state gradualmente trasferite sotto il controllo della fondazione statale Turkish Maarif Foundation.
Il coinvolgimento iniziale della Turchia nel Corno aveva dunque l’obiettivo di espandere il soft power per far valere il proprio status di potenza emergente. Inizialmente Ankara ha dunque avviato progetti utili alle comunità locali e chiaramente in vista come ospedali, impianti igienico-sanitari e scuole. Lavorando senza interferire nella politica locale e portando a termine in breve tempo tutti i progetti, la Turchia si è vista riconoscere come partner più affidabile rispetto alle potenze occidentali. Nell’agenda estera turca, la dimensione religiosa viene tenuta sottotraccia dalle autorità, tuttavia è innegabile che la comune religione islamica abbia rappresentato uno strumento di facilitazione e legittimazione dell’azione turca in quei paesi africani (come alcuni del Corno) in cui la maggioranza della popolazione è musulmana. Adottando un discorso umanitario di ispirazione islamica, Ankara è inoltre riuscita a coinvolgere la borghesia turca religiosa e fondazioni caritatevoli non statali nella politica africana.
Gli interessi di lungo termine della Turchia in Africa non sono limitati all’assistenza umanitaria, ma anzi mirano a sviluppare una piena collaborazione diplomatica ed economica tra pari con i paesi africani, in modo da favorire mutua crescita e sviluppo economico. Dal punto di vista del commercio e degli investimenti, infatti, tra il 2003 e il 2017 le relazioni Turchia-Africa hanno registrato un notevole progresso[26]. Gli investimenti turchi in Africa sono cresciuti da 100 milioni a 6,5 miliardi di dollari, le ambasciate si sono moltiplicate da 12 a 41, le destinazioni africane offerte da Turkish Airlines sono state potenziate da 9 a 52, raggiungendo 33 paesi del continente. Tra il 2000 e il 2017 il commercio è cresciuto di oltre il 400%, ma oggi rappresenta ancora solo il 4,9% dell’intero commercio estero turco. Nel Corno i partner commerciali principali sono il Sudan e l’Etiopia.
Oltre a interessi umanitari ed economici, la Turchia persegue anche quelli militari, nel quadro di una particolare combinazione di soft e hard power turco. Nel Corno quest’approccio ibrido è visibile soprattutto in Somalia e Sudan. La Somalia, primo e principale paese beneficiario dell’assistenza umanitaria turca in Africa, è anche beneficiaria di significativi investimenti infrastrutturali turchi. C’è infatti la Turchia dietro la modernizzazione del porto di Mogadiscio, oggi gestito dal gruppo turco Al-Bayrak, il rinnovamento dell’aeroporto internazionale di Aden Adde, la ristrutturazione dell’ospedale cittadino, ribattezzato Erdoğan Research and Training Hospital, e il rifacimento della rete stradale. Sempre nella capitale, inoltre, nel 2017 la Turchia ha inaugurato la sua più grande base militare all’estero, e prima in Africa, a rimarcare la crescente presenza militare turca nel Corno. In Somalia, nel quadro della lotta ai jihadisti di al-Shabaab, la Turchia offre infatti anche programmi di addestramento ai soldati somali. Nella provincia autonoma del Somaliland, dove è più consistente la presenza degli Emirati, la Turchia è comunque attiva con diversi progetti di cooperazione dell’Agenzia per lo sviluppo e la cooperazione turca (TIKA) e della Maarif Foundation. Vista la decisione di Mogadiscio di annullare il contratto tra Berbera e l’emiratina DP World nel 2018, nel mirino di Ankara vi sono inoltre investimenti veri e propri nel porto e aeroporto locale. Anche in Sudan Ankara è un importante investitore e, a dicembre 2017, si è assicurata i diritti per lo sviluppo di una base militare presso Suakin, ex avamposto ottomano.

 

2.4 Israele

La regione riveste anche per Israele un’importanza capitale non solo per via delle affinità culturali che legano le realtà africane con quelle israeliane – il legame in questione è rappresentato dai Falascià o Beta Israel, ossia i popoli etiopici di origine ebraica –, ma anche per gli innumerevoli intrecci politici, economici, strategici e di sicurezza che uniscono Tel Aviv alla macro-area dell’Africa orientale nel suo complesso. Da alcuni anni, infatti, e per la precisione dall’accordo sul nucleare iraniano del 2015, Israele ha provato a definire a grandi linee delle strategie da adottare nei diversi contesti di impegno a livello mondiale. Tra questi anche la regione del Corno d’Africa e più in generale l’Africa orientale rivestono una centralità raramente conosciuta in passato. A riprova di ciò, nel luglio 2016 il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha concluso un importante tour diplomatico nell’area – è la prima visita di così alto livello dal 1987 di un leader israeliano in Africa orientale[27].
Nel periplo africano Netanyahu ha visitato Etiopia, Kenya, Uganda e Ruanda, realtà politiche ed economiche tra le più dinamiche dell’intero continente. Questa visita così come i colloqui che si sono sviluppati negli anni a venire hanno portato a discussioni sempre più strette e profonde su temi trasversali, dalla lotta all’immigrazione clandestina allo sfruttamento delle risorse energetiche, passando per tentativi di cooperazione proficui in diversi settori come l’agro-tech, le risorse idriche, il commercio estero e marittimo, nonché la lotta al terrorismo. Sebbene non si possa definire tale iniziativa come una vera e propria politica africana di Israele, tale iniziativa regionale mira sì a consolidare le relazioni con gli attori più rilevanti della regione, ma allo stesso tempo pone l’accento sull’opportunità israeliana di penetrare un mercato e un’area strategica dal potenziale non del tutto espresso.
Una precisa scelta geo-strategica in ottica israeliana mirata anche a salvaguardare le proprie reti commerciali-marittime e di sicurezza nella regione del Corno d’Africa e nel Mar Rosso, da tempo nuovo vettore geopolitico di competizione e concorrenza con i paesi rivieraschi dell’area e gli altri attori del Golfo interessati alle peculiarità geografiche e territoriali della zona. Infatti, lo sbocco israeliano sul Golfo di Aqaba, garantito dal porto di Eilat, permette allo stato mediorientale una certa penetrazione nelle rotte petrolifere e commerciali da e verso Suez e il Mediterraneo, nonché da e per l’Oceano Indiano attraverso lo stretto di Bab al-Mandeb. La contiguità geografica tra queste due sub-regioni chiarisce ancora una volta il perché della strategicità dell’area del Corno e delle zone limitrofe. Il rinnovato interesse israeliano verso il Corno d’Africa si sostanzia in un’espansione del proprio know-how per sviluppare tecnologie e competenze di crescita economica e per meglio gestire i rischi e le sfide socio-politiche del prossimo futuro per i paesi dell’area. Al contempo, tale agire mostra una costante crescita del ruolo e dell’influenza di Israele, seppur inferiore e molto limitata a determinati settori e aree di cooperazione o iniziativa (geo-)politica rispetto ad altri attori esterni alla regione. In questo senso, l’azione israeliana conta anche una certa vicinanza politica all’attivismo dell’Arabia Saudita e delle altre petro-monarchie del Golfo nell’area, rafforzando di fatto l’arco di iniziative in campo in senso anti-iraniano[28]. Si spiegherebbero pertanto i contatti sempre più frequenti tra i vertici militari israeliani e quelli dei paesi dell’area (in particolar modo eritrei[29], etiopici e di Gibuti) in ambito militare e di sicurezza per combattere il terrorismo, il commercio illegale e la pirateria nel Mar Rosso, nonché per discutere di Yemen, dossier di importanza fondamentale nell’area. Infatti nel caso in cui le tensioni tra Iran e Arabia Saudita dovessero sfociare in improvvise ostilità, l’intento israeliano, dei suoi alleati sunniti del Golfo e degli Stati Uniti sarà quello di impedire che Teheran possa controllare gli stretti di Hormuz e di Bab-al-Mandeb, chiudendo il transito navale nel Golfo Persico e nel Mar Rosso. Non è un caso quindi che questa porzione di mare e l’annesso stretto rappresentino un valore assoluto in senso geo-strategico nella navigazione e nell’economia dei paesi rivieraschi o più prossimi dell’area[30]. Alla luce di ciò il recupero di una crescente dinamica israelo-africana potrebbe rappresentare un fattore di cambiamento estremamente importante nel tentativo israeliano di definire chiaramente un focus preciso nella propria strategia di politica estera.

 

2.5 Egitto

Parimenti alla prospettiva israeliana, anche per l’Egitto la vicinanza geografica e la prossimità strategica rappresentata dalla regione del Corno rivestono un ruolo centrale nella nuova proiezione di politica estera del Cairo. Un processo che lentamente, ma in maniera costante, sta conoscendo una profonda fase di interesse verso l’area del Corno, iniziata sin dal post-Rivoluzione 2013 in Egitto, ma consolidatosi in maniera definitiva con l’elezione alla presidenza della Repubblica di Abdel Fattah al-Sisi nel maggio 2014. Le motivazioni che muovono l’interesse strategico verso la regione sono varie e di mutevole natura. L’Egitto ha infatti stretti legami storici con i paesi del Corno (in particolare Somalia, Gibuti ed Eritrea), con alcuni dei quali condivide legami culturali e religiosi comuni, nonché l’evoluzione di determinati fenomeni demografici causati dalle migrazioni storiche da e verso la regione. In tal senso il paese nordafricano ha stretto importanti contatti con queste realtà, fornendo assistenza e investimenti in molti campi, come istruzione, sanità, agricoltura, diplomazia, sistema giudiziario e sviluppo delle infrastrutture.
Se le considerazioni a carattere energetico-securitario la fanno da padrona (in primis la questione irrisolta delle acque del Nilo e della diga del Millennio in costruzione da parte dell’Etiopia, nonché il crescente trend di immigrati clandestini che dall’area risalgono il paese nordafricano finendo parte del proprio percorso attraversando il Sinai), le opportunità in termini geo-strategici stanno cominciando a guadagnare sempre più spazio nell’agenda politica del Cairo: commercio marittimo e internazionale nel Mar Rosso, attrazione di investimenti esteri nel Sinai, definizione di nuove fasi nella cooperazione bilaterale con i principali attori della regione rappresentano di fatto i cosiddetti cardini nella strategia egiziana verso il Corno d’Africa. Una concezione e una prospettiva rafforzatesi negli ultimi 18-24 mesi attraverso un ruolo attivo nell’accordo di pace firmato tra Etiopia ed Eritrea dopo vent’anni di conflitto e definendo una cooperazione sempre più stretta soprattutto con Asmara in un’ottica di puro contenimento delle iniziative degli attori locali (Addis Abeba in particolar modo per i motivi sopracitati) e di quelli extra-regionali, come Qatar e Turchia attivissimi in Sudan, ma anche nei confronti della stessa Arabia Saudita, alleato e partner egiziano ma anche importante competitor del Cairo nell’area.
Una ricerca di presenza e influenza nella regione del Corno da parte dell’Egitto è giustificata anche in un’ottica strategica di sicurezza nazionale. In tale prospettiva, l’Eritrea gioca un ruolo centrale nella strategia egiziana poiché Asmara gode di una lunga linea costiera sul Mar Rosso che funge da importante porta d’ingresso per le navi commerciali e le oil-cointainer che attraversano Suez. Non è un caso che da diversi mesi il presidente al-Sisi stia corteggiando il collega eritreo Afewerki, sottolineando l’interesse egiziano nel voler elevare la cooperazione bilaterale a un livello di partenariato strategico con l’Eritrea, favorendo inoltre lo sviluppo di tutta una serie di progetti di cooperazione in vari settori, tra cui agricoltura, elettricità, salute e commercio, nonché nel bestiame e settori della pesca. L’iniziativa egiziana si definisce infatti come una mossa tesa a contrastare e contenere le ambizioni di Turchia e Qatar, impegnate da tempo in iniziative di soft-power nella regione, come quelle in Sudan ed Etiopia[31]. Nel primo caso, nel dicembre 2017, Khartoum ha concesso alla Turchia il diritto di gestire la città-isola di Suakin. Sempre la Turchia e il suo alleato qatarino hanno mostrato molto interesse nei confronti dell’Etiopia e dei suoi progetti infrastrutturali, come quelli relativi alla Diga del Millennio che potrebbe avere ripercussioni molto pesanti nella distribuzione delle quote per nazione delle acque del Nilo. Due importanti contraccolpi in termini geopolitici che hanno allarmato Il Cairo costringendola a intervenire massicciamente e a impegnarsi come raramente avvenuto in passato nel Corno[32]. L’Egitto sta quindi cercando di imporre la propria agenda a Sudan ed Etiopia, con i quali i rapporti rimangono tesi, controbilanciando l’attivismo di Turchia e Qatar, puntando contemporaneamente a coltivare legami più serrati con Eritrea (schierando lì un contingente nella base di Sawa, vicino al confine occidentale con il Sudan) e Sud Sudan (Il Cairo negli ultimi mesi è stato particolarmente attento e attivo in qualità di mediatore di pace nei conflitti politico-tribali all’interno del governo di Juba).
Sempre in termini di contrappeso risulta importante anche il tentativo dell’Egitto di replicare la stessa operazione diplomatica intrapresa con l’Eritrea anche con il piccolo ma strategico stato del Gibuti. Anche in questo caso, un miglioramento delle relazioni con Gibuti avrebbe un impatto diretto in termini di politica interna ed estera egiziana poiché sarebbero garantite la sicurezza marittima e commerciale del Mar Rosso attraverso un maggiore impegno egiziano nella cooperazione internazionale in termini di sicurezza nel Corno d’Africa e di lotta alla pirateria[33]. La politica estera egiziana è stata, infine, molto attiva anche nei confronti della Somalia. Il Cairo ha promosso e sponsorizzato più volte tutti i tentativi che favorissero una via politica per la pacificazione dell’intera Somalia, fornendo le proprie competenze nella formazione delle istituzioni e dei propri quadri.
Il rinnovato interesse egiziano per l’Africa nel suo complesso, ma con un’attenzione specifica alle regioni orientali, ha portato in dote, infine, un ruolo attivo del Cairo nell’accordo per la creazione di una nuova area di libero scambio africana, l’AfCFTA (African Continental Free Trade Agreement), comprendente ben 44 paesi dei 55 che compongono il continente africano. L’Egitto, collocandosi nel continente africano, ha un interesse naturale affinché il suo potenziale venga sviluppato al massimo e in tutte le sue forme: raggiungere l’integrazione dell’economia africana significherebbe, infatti, portare l’Africa a essere una forza realmente attiva nell’arena internazionale economica generando in tal modo ricadute particolarmente positive sul benessere e sulla prosperità del popolo africano, preservando l’interesse nazionale egiziano[34]

 

3. La corsa al corno d’Africa: interessi globali a confronto

3.1 Stati Uniti

A differenza di attori nuovi o emergenti, la regione del Corno vede una presenza storica da parte degli Stati Uniti, i quali sin dall’immediato post-Seconda Guerra Mondiale hanno visto crescere la loro attività nell’area creando cooperazioni bi- e multi-laterali con i diversi paesi rivieraschi di ambo le sponde del Mar Rosso. La dimensione internazionale ha certamente avuto un peso specifico negli eventi contemporanei del Corno d’Africa, ma gli Stati Uniti, in particolare dopo l’11 settembre 2001, hanno ripreso in considerazione la grande valenza strategica e geo-economica della regione in una prospettiva primariamente di difesa dei propri interessi nazionali dalle ambizioni geopolitiche esterne: oltre a Gibuti, Washington mantiene una folta presenza militare nel Golfo Persico, dove dispone di basi e installazioni in Bahrain – sede della V Flotta –, in Oman, in Arabia Saudita, in Kuwait, in Qatar, negli Emirati Arabi Uniti, nonché nell’Oceano Indiano centrale dove gestisce in coabitazione con l’alleato britannico la base di Diego Garcia, la quale fornisce supporto logistico e funge da retroguardia strategica USA nell’intero quadrante afro-asiatico-indiano. Ciononostante, nell’ultimo decennio, la regione ha perso la sua centralità all’interno della sfera politico-diplomatica della Grand Strategy americana, conservando tuttavia una sua preminenza dal punto di vista securitario, come territorio di contrasto ai fenomeni pirateschi e terroristici. Sebbene con l’attuale amministrazione Trump non siano stati ancora chiariti quali siano i propositi USA verso l’area e se in particolar modo cambierà la postura securitaria finora adottata, magari in favore di una più equilibrata strategia propriamente politica, la Casa Bianca oggi conserva un forte impegno geopolitico nel Corno in un tentativo, primariamente, di contenimento dell’intervento cinese nell’area e in secondo luogo proponendosi come regolatore e pivot strategico della sicurezza terrestre e marittima della regione.
Un episodio che rende l’idea della crescente importanza geo-strategica della regione del Corno e del Mar Rosso sono le esercitazioni aeronavali che gli Stati Uniti hanno tenuto insieme all’aviazione israeliana a largo delle coste di Gibuti, lo scorso mese di agosto. Queste esercitazioni sono considerate un evidente messaggio indiretto nei confronti dell’Iran, dal momento che da tempo Stati Uniti e i suoi alleati mediorientali, Israele e Arabia Saudita, ritengono possibile il blocco navale dello Stretto di Bab al-Mandeb da parte di Teheran o del suo alleato sui generis Houthi in Yemen per colpire il traffico commerciale ed energetico marittimo euro-asiatico diretto verso il Mediterraneo. Proprio a Gibuti, lo stato-caserma per eccellenza gli Stati Uniti hanno aperto nel 2001 la base di Camp Lemonnier, dove si trovano forze ordinarie e reparti speciali USA impegnati nelle principali operazioni internazionali nella regione per combattere il terrorismo degli al-Shabaab somali, di al-Qaeda in Yemen e delle cellule dello Stato Islamico tra Somalia e Kenya – da qui partono i droni predator e reaper utilizzati nelle missioni segrete contro gli obiettivi islamisti –, ma anche i loro numerosi emuli o semplici gruppi criminali attivi in Africa e in Medio Oriente. Qui infatti è tutt’ora operativa la Combined Joint Task Force-Horn of Africa (CJTF-HoA) nel contesto dell’Operazione Enduring Freedom-Horn of Africa e nel 2009 Gibuti ha visto il trasferimento del comando di AFRICOM. Un avamposto militare e strategico che ha conosciuto quindi una notevole importanza negli anni, anche in seguito al ritiro del contingente statunitense dall’Iraq (dicembre 2011) e alla riduzione del numero di truppe americane schierate in Afghanistan. La presenza di militari e contractor USA a Gibuti è arrivato a sfiorare le 6.000 unità contando anche il personale civile, di cui 2.000 operative nei reparti speciali anti-terrorismo e 150 nell’unità di intervento rapido per la protezione delle ambasciate, creata dopo l’attacco alla sede diplomatica americana di Bengasi, in Libia, del settembre 2012, che provocò la morte dell’ambasciatore Christopher Stevens. Se è evidente la centralità di Gibuti nella strategia americana nel Corno, essa lo è anche per altri attori extra-regionali. A Gibuti sono presenti oltre 10.000 soldati stranieri appartenenti in primis alle forze Usa, ma anche a quelle cinesi – da mesi accusate da Washington di testare armi laser che mettono in pericolo i piloti dell’aeronautica statunitense – giapponesi ed europee (tra cui una presenza militare italiana è garantita dal 2013 nell’avamposto di Loyada, pochi chilometri a sud della capitale Gibuti). Inoltre, poco al di là del confine, in Eritrea potrebbe aprirsi presto una base russa[35].
Allo stesso livello di Gibuti si colloca l’interesse statunitense per l’Etiopia, da sempre solido alleato ma oggi più che mai centrale nella strategia statunitense nella regione, soprattutto alla luce dello storico accordo di pace – mediato da Arabia Saudita ed Egitto, fondamentali partner statunitensi in Medio Oriente – firmato da Addis Abeba con la controparte eritrea dopo vent’anni di conflitto. Un grande traguardo politico che nasconde numerose opzioni strategiche utili anche agli stessi Stati Uniti, i quali potrebbero avere grande interesse nel capitalizzare il successo diplomatico tra Etiopia ed Eritrea.
Innanzitutto, quest’evento, se dovesse mostrarsi duraturo e stabile anche a influenze esterne, potrebbe permettere una netta diminuzione di rifugiati verso l’intero Corno ma anche verso l’Occidente, spesso meta finale della diaspora di questi popoli. In secondo luogo, una pace duratura garantirebbe più stabilità nella regione del Corno d’Africa fornendo al contempo un potenziale nuovo alleato – alternativo anche allo stesso Gibuti – per gli Stati Uniti nelle intricate dinamiche geostrategiche trans-regionali, a patto tuttavia che Asmara dimostri un netto cambio di registro nella tutela dei diritti civili e umani, al pari di altri attori come appunto la stessa Etiopia[36]. La tenuta della pace definirà anche il grado di incidenza dell’influenza regionale degli Stati Uniti, alle prese con l’ascesa di più attori concorrenti (Cina e alleati del Golfo, in particolar modo) nello scacchiere del Corno d’Africa. In questo senso molto dipenderà anche dalla capacità stessa degli Stati Uniti di invertire il trend e l’approccio politico finora adottato nei confronti della regione dando maggiore peso alle iniziative diplomatiche finora latenti. Per favorire questa sarà necessario anche che l’amministrazione Trump colmi alcuni gap politici importanti: ad esempio, il presidente non ha nominato un segretario aggiunto per l’Ufficio degli Affari africani all’interno del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti. Da settembre 2017, Donald Yukio Yamamoto, il vice segretario aggiunto per gli Affari africani al Dipartimento di Stato, ha recitato un ruolo politico unico in assenza di referenti di più alto livello, guidando le missioni diplomatiche statunitensi in Eritrea, Gibuti ed Etiopia. A ciò si sommano inoltre le difficoltà politiche del presidente stesso che durante il suo primo anno di mandato non ha condotto alcuna visita, tra le sedici effettuate all’estero, in un paese africano o della regione del Corno. A ogni modo sarebbe scorretto addossare le sole responsabilità dell’attuale stallo diplomatico americano nella regione alla sola amministrazione Trump. Anche durante i mandati di Barack Obama (2009-2017), gli Stati Uniti non hanno avuto una prospettiva strategica chiara che guardasse all’Africa e nello specifico al Corno come un pilastro imprescindibile nella politica estera globale americana, il tutto a vantaggio della sempre più competitiva Cina[37].

 

3.2 Cina

L’interesse della Cina nel Corno d’Africa ruota attorno alla sua posizione geostrategica. Situato all’intersezione di rotte commerciali tra l’Asia e l’Europa, il Corno d’Africa è uno snodo vitale per il paese asiatico da più di un decennio, sia dal punto di vista economico sia securitario, ma lo è diventato ancor di più quando fa parte, dal 2013, della Via della Seta marittima cinese. Il Corno è inoltre la porta d’accesso all’Africa, di cui la Cina è diventata primo partner commerciale nel 2009 superando gli Stati Uniti importando dall’Africa subsahariana combustibili, metalli, e prodotti minerali ed esportando verso l’Africa prodotti finiti e macchinari per un valore totale del commercio che nel 2017 si attestava a 170 miliardi di dollari. La regione è anche geograficamente prossima alla Penisola Arabica, da cui la Cina importa circa la metà del suo fabbisogno totale di petrolio greggio. Il valore dello scambio commerciale tra Cina e Corno d’Africa era di 2 miliardi di dollari nel 2010, ha raggiunto un picco di 17 miliardi di dollari nel 2015 ed è poi sceso drasticamente nel 2017 a 8,7 miliardi di dollari. Per quanto riguarda gli investimenti, lo stock di investimenti diretti esteri (IDE) cinesi nel Corno d’Africa ammontava a 3 miliardi di dollari nel 2015, circa il 9% del totale di stock IDE cinese in Africa, mentre i prestiti ammontano a 21 miliardi di dollari di cui quasi la metà nel settore delle costruzioni, seguito dai settori energetico, delle comunicazioni e manifatturiero.
L’interesse iniziale della Cina nel Corno era quasi esclusivamente rivolto all’esportazione di materie prime dal Sudan. Più recentemente, dopo che la regione dell’Ogaden è stata identificata come potenziale fonte di petrolio e gas, Pechino ha iniziato esplorazioni di prova anche in Etiopia e siglato accordi con Addis Abeba  per la produzione petrolifera e per la costruzione di un oleodotto diretto a Gibuti e una raffineria di GNL a Damerjog. Al di là delle materie prime, da anni la Cina punta sullo sviluppo delle infrastrutture nel Corno – principalmente utilizzate come supporto al commercio: infrastrutture per i trasporti, hub logistici per il commercio e industrie manifatturiere. La linea ferroviaria elettrica tra Etiopia e Gibuti, completata nel 2017 e costata 4 miliardi di dollari[38] (prestiti), è la prima del genere in Africa. Il progetto è stato finanziato dalla Exim Bank cinese e realizzato da due compagnie cinesi statali, la China Rail Engineering Corporation e la China Civil Engineering Construction Corporation. Un collegamento cruciale per passeggeri e merci che sostituisce una ferrovia costruita dai francesi circa un secolo prima. Fondamentale anche perché oltre il 90% delle merci etiopiche (paese senza sbocchi sul mare) passa da Gibuti, contribuendo al 70% dell’attività del suo porto. Nel 2017 Gibuti ha aperto il porto multifunzionale di Doraleh, cofinanziato dall’Autorità portuale e delle zone di libero scambio gibutina e dalla China’s Merchants Holdings Company con lo scopo di rafforzare la capacità del porto di Gibuti e connettere ancor più Africa, Europa e Asia. Nel 2018 Gibuti ha anche aperto la Djibouti International Free Trade Zone, una zona economica speciale di libero scambio, strategica in Africa orientale. È stata costruita dai cinesi e sarà gestita congiuntamente dall’Autorità portuale e delle zone di libero scambio gibutina, e dalla China’s Merchants Holdings Company.
Anche il settore manifatturiero è di particolare interesse per la Cina e l’Etiopia gioca ormai un ruolo fondamentale, non solo grazie alle sue potenzialità, ma anche come paese che può assorbire l’eccesso di settori saturi in Cina come le infrastrutture e la manifattura. La creazione di zone economiche speciali in Etiopia e Gibuti sembra proprio servire lo scopo di migrare la produzione manifatturiera verso zone in cui la manodopera costa meno[39].
Tra tutti i paesi del Corno, Gibuti resta il più strategico[40]. L’economia cinese dipende fortemente dalla sicurezza della navigazione tanto che mettere in sicurezza il commercio, gli investimenti e l’area geografica in cui si trovano o da cui transitano è diventato, nel 2015, una questione di sicurezza nazionale, come delinea il China Military Strategy white paper. È la prima volta che gli interessi cinesi in mari lontani diventano una questione di sicurezza nazionale.
Non solo la Cina ma varie potenze regionali e internazionali sono interessate alla zona a causa delle minacce alla sicurezza locale, regionale e globale che da lì emergono: terrorismo, ma anche migrazioni dovute a conflitti, carestie, siccità, governi dittatoriali ecc. Simile agli altri, anche per la Cina l’interesse nel Corno non riguarda quindi solo il commercio e gli investimenti ma anche la loro sicurezza, nonché quella dei cittadini cinesi.
Le minacce principali nel Corno per la Cina derivano dalla pirateria al largo delle coste somale che nel corso degli anni ha provocato forti disagi al traffico marittimo, causando danni economici e minando la reputazione della Cina in seguito al sequestro di navi cinesi e richieste di riscatto. Seppur la minaccia si sia ridotta negli ultimi anni, attacchi avvenuti nel 2017 ricordano quanto la zona sia vulnerabile.
Nel 2017 la Cina ha aperto la sua prima base militare all’estero, a Gibuti, dove già esistevano altre postazioni di attori extra-regionali. La base a Gibuti è strategica per supportare missioni via mare e via terra, così come per monitorare uno dei chokepoint più importanti al mondo: il Golfo di Aden, e più in particolare lo Stretto di Bab al-Mandeb. La base è servita alla Cina anche per guadagnare prestigio e autorevolezza a livello internazionale. Se fino ai primi anni Duemila la Cina aveva adottato una politica di non interferenza in affari interni altrui, la pressione internazionale affinché rispondesse alla crisi in Darfur nel 2004 – dove gli investimenti cinesi nel petrolio e infrastrutture fungevano da base di supporto per il governo sudanese – spinse la Cina a cambiare strategia. Divenne mediatrice cruciale nel processo di dialogo tra Sudan e Sud Sudan, iniziando allora a parlare di selective intervention, interventi mirati, non invasivi che non andassero quindi contro il suo principio di non interferenza, e soprattutto interventi condotti sotto gli auspici delle Nazioni Unite. L’intenzione non era, e non è, infatti invadere altri stati, ma controllare i rischi securitari sulle rotte commerciali e nelle aree di investimento. Iniziando a partecipare a missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite e di altre forze multilaterali, la Cina ha dimostrato di contribuire alla sicurezza globale, agendo ben all’interno dei limiti imposti dalle organizzazioni internazionali con lo scopo di guadagnare legittimità. Nel 2008 la Cina ha inviato una forza navale nel Golfo di Aden, contribuendo agli sforzi internazionali nella lotta alla pirateria. Da allora le navi militari cinesi hanno continuato a scortare navi commerciali cinesi e di altre nazioni. Attualmente la Cina fornisce 2700 peacekeepers alle Nazioni Unite ed è attivamente impegnata nella formazione di eserciti africani, oltre che essere uno tra i più importanti fornitori di armi all’Africa (il primo tra i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite).
Seppur il Corno d’Africa sia una regione cruciale, non è l’unica area strategica dal punto di vista commerciale e securitario per la Cina. L’Action Plan dell’ultimo Forum on China Africa Cooperation, tenutosi a Pechino a inizio settembre 2018, esplicita che varie aree sono diventate punti focali nella cooperazione in ambito securitario: non solo il Corno e il Golfo di Aden, ma anche il Golfo di Guinea, le zone intorno al Lago Ciad e il Sahel. La formula che intreccia commercio e sicurezza testata a Gibuti, con la creazione di infrastrutture commerciali e militari, sembra essere già in via di sviluppo in altre zone d’Africa: in Botswana, dove la Cina ha creato un deposito logistico (così veniva chiamata anche la base militare a Gibuti) in supporto alla standby force della Southern African Development Community (SADC), e un porto in Tanzania, che potenzialmente avrà la stessa duplice funzione (commerciale e militare) di quello a Gibuti. Indicazioni, queste, necessarie a intuire le prossime mosse della Cina nel continente.

 

3.3 Russia 

Sebbene l’Africa nel suo complesso non sia al centro della politica estera russa, anche Mosca ha mostrato negli ultimi decenni un sempre maggiore interesse per il Corno d’Africa come teatro operativo strategico in cui far valere la propria centralità e dinamicità. Del resto il rinnovato interesse russo per la regione e l’Africa orientale nel suo complesso non rappresenta un fattore di novità assoluto poiché, sin dalla Guerra fredda, l’allora Unione Sovietica aveva cercato di competere con gli Stati Uniti nell’area per aumentare la propria influenza, facendo dello stesso Corno uno dei teatri di competizione principali all’interno del sistema bipolare dell’epoca. Come in passato un mix di soft e hard power ha guidato l’ascesa russa nella regione, tanto da fare di Mosca e in particolare delle sue forze armate, un importante fattore di stabilità e di mantenimento della pace (come ad esempio in Repubblica centrafricana). Infatti gli sforzi economici e diplomatici di Mosca sono finora concentrati su quei paesi africani che durante la Guerra fredda hanno maggiormente subito l’influenza ideologica dell’Unione Sovietica nelle loro lotte di liberazione dai colonizzatori europei (Angola, Mozambico, Namibia e Zimbabwe, così come con il Sud Africa post-apartheid)[41].
Per quel che riguarda nello specifico l’Africa orientale, la Russia ha cercato di indirizzare la propria azione puntando soprattutto su due driver: energia e armi sono i principali motori della diplomazia russa nel contesto globale e quindi anche nel Corno. Non è rara la presenza di compagnie energetiche russe, come Rosatom e Lukoil, impegnate a supportare le ambizioni nel nucleare civile di Kenya e Uganda, così come non è inverosimile trovare una forte presenza della Russia nel mercato africano delle armi – benché è giusto precisare che il solo Kenya rappresenta una quota molto piccola rispetto ai più ricchi patti di cooperazione militare e di difesa firmati da Mosca con Nigeria e Angola. Non potendo reggere la competizione in loco con due players come Stati Uniti e Cina, la Russia sta lavorando per sviluppare una propria presenza imprescindibile in mercati di nicchia come quello degli armamenti e dell’energia appunto. Un prossimo passo, in linea con le sue ambizioni globali e di concorrente dei più affermati competitors statunitense e cinese, è l’apertura di una base militare nella regione. Il tentativo di condividere la nuova base cinese a Gibuti è stata respinta dallo stesso governo di Pechino, indirizzando così la nuova iniziativa russa verso il Sudan e soprattutto l’Eritrea, con la quale i colloqui sarebbero molto avanzati per l’apertura di un hub logistico nel paese africano. Non ha trovato conferme, invece, l’ipotesi russa di aprire una propria base militare nel Somaliland[42].
Nelle intenzioni russe, un rinnovato attivismo in Africa e nel Corno in particolare risponde a due esigenze precise: una di tipo economico-commerciale, la seconda di carattere geopolitico. Il Cremlino considera i mercati africani un’alternativa strategica a quelli europei e nordamericani dai quali è stato gradualmente estromesso a causa delle sanzioni internazionali comminategli dopo gli eventi ucraini del 2014. Allo stesso tempo, possedere una base in questa parte di Africa permetterebbe a Mosca di esercitare un controllo indiretto sugli traffici commerciali nell’area, garantendo al contempo una certa protezione ai propri interessi nel Mediterraneo orientale, come dimostrato dagli investimenti russi nella zona economica esclusiva (ZEE) nei dintorni del canale di Suez, quelli energetici nell’offshore israeliano e cipriota, così come una protezione per i flussi di materiale militare diretto verso le postazioni russe in Siria (la base aerea di Hmeimim e la base navale di Tartus). In tal senso, il governo russo considera la regione e l’Africa, con le sue economie emergenti, non solo una fonte di vantaggi commerciali ma anche di un terreno geopolitico in cui Mosca può far valere il proprio potenziale diplomatico sia come mediatore credibile nelle crisi locali sia come player marittimo alternativo agli Stati Uniti. Infatti, molti analisti del calibro di Alex Vines di Chatham House e di Andrew Foxall del Russia and Eurasia Studies Centre hanno intravisto nell’iniziativa russa uno sforzo di potenziamento e modernizzazione della marina militare di Mosca come previsto anche dalla dottrina navale del 2017, in base alla quale il Cremlino mira a costruire uno strumento navale secondo al mondo, dopo gli Stati Uniti, in termini di volume di mezzi e di qualità degli stessi. Manovre molteplici mirate ad aggirare l’isolamento diplomatico internazionale, creando al contempo azioni di disturbo diretto nei confronti dei più immediati competitor globali (Stati Uniti in primis) in un’area geopolitica e strategica dal potenziale ancora non del tutto espresso. Un’ulteriore dimostrazione dell’importanza africana per la Russia è la visita nel mese di marzo di quest’anno intrapresa dal ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov in Angola, Namibia, Mozambico, Etiopia e Zimbabwe. Durante gli incontri sono stati firmati accordi per stabilire zone economiche, esplorare le opportunità di accesso ai minerali tra cui diamanti e platino e migliorare la cooperazione militare e tecnica. Pertanto, la politica russa nel Corno funge da chiavistello e apripista per una penetrazione a tutto campo di Mosca nell’intero continente africano, cercando di fatto di replicare anche in Africa la medesima mossa strategica di replacement americano attuata in Medio Oriente. In sostanza la Russia sarebbe ancora lontana dall’essere una potenza fondamentale – e forse non è neanche nelle intenzioni dei vertici russi – ciononostante essa mira a divenire un attore ineludibilmente importante con il quale confrontarsi anche nel Corno d’Africa[43].

 

3.4 India

Il Corno d’Africa è di cruciale importanza per l’India in quanto estremità nord-occidentale della regione dell’Oceano Indiano che, per New Delhi, è lo scacchiere prioritario per la propria sicurezza. Storicamente, il porto di Adulis vicino a Massawa era un importante snodo del commercio marittimo tra Europa e Asia su cui si riversavano i mercanti indiani che commerciavano spezie e seta in cambio di oro e avorio. Ancora oggi le navi indiane fanno regolarmente scalo nei porti del Corno, avendo come principale punto di approdo Gibuti, dove inoltre partecipano a esercitazioni militari congiunte con le marine americane e francesi.
La stabilità del Corno, la protezione delle linee marittime di comunicazione e degli stretti lì presenti erano già tra le principali priorità della madrepatria britannica per garantire la sicurezza e la prosperità economica della sua colonia indiana. Ottenuta l’indipendenza nel 1947, l’India adottò un isolazionismo militare che limitò la diffusione della propria influenza regionale. Ciò cambiò di nuovo tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila quando, in concomitanza con il boom economico indiano (il Pil crebbe al 9% per diversi anni), aumentò la domanda interna di materie prime necessarie a sostenere la crescita. Spinti da questo ambiente dinamico e dalla necessità di diversificare le proprie forniture energetiche e di risorse oltre i tradizionali mercati asiatici, gli investitori indiani hanno iniziato a guardare sempre più alle opportunità offerte dal continente africano.
Le crescenti necessità commerciali dell’India hanno portato a un suo riorientamento verso l’Africa in quanto partner economico sempre più rilevante e a un rinvigorimento della propria presenza navale nell’Oceano indiano occidentale per garantire la sicurezza degli scambi. Al volgere del millennio Delhi dichiarò infatti che i propri interessi nazionali non erano più limitati al subcontinente ma si estendevano a tutto l’Oceano Indiano, da Aden a Malacca.
La crescente presenza cinese in una regione considerata dall’India come parte naturale della propria sfera di influenza ha allertato New Delhi, forzandola ad aumentare la sorveglianza delle proprie rotte marittime. L’aumento di importanza del Corno per l’India è dunque in parte anche conseguenza dell’avanzata cinese in quella regione, precedente il lancio dell’iniziativa One Belt One Road nel 2013, ma rafforzatasi ancor di più a partire da quegli anni. Non a caso, solo nel 2017 per la prima volta un presidente indiano ha effettuato una visita di stato ufficiale a Gibuti, dopo che lì quello stesso anno Pechino aveva aperto la sua prima base militare all’estero. In ritardo rispetto ad altre potenze, l’India ha deciso così di re-impegnarsi nel Corno d’Africa, regione con cui il subcontinente ha legami storici millenari, prendendo parte alla nuova lotta per l’influenza regionale.
La principale dottrina che guida la politica africana dell’India è basata su mutuo rispetto e non interferenza nel quadro di una cooperazione sud-sud. Nel Corno l’India sostiene i paesi più bisognosi con aiuti allo sviluppo mirati e destinati soprattutto al settore agricolo, sanitario e dell’istruzione. Tutti i paesi della regione sono partner del progetto indiano Pan African e-Network, un’iniziativa lanciata nel 2009 dal governo di New Delhi e che punta a condividere con i paesi africani l’expertise indiana nei campi della sanità e dell’istruzione. Inoltre, grazie all’offerta di borse di studio e di formazione professionale previste dall’Indian Technical and Economic Cooperation (ITEC), programma di assistenza bilaterale basato su progetti di cooperazione tecnico-economica, l’India risulta essere un’ambita destinazione per i giovani africani desiderosi di approfondire il proprio percorso formativo.
New Delhi è però anche andata oltre al solo approccio umanitario, perseguendo un’agenda che mira a soddisfare i propri bisogni di sicurezza energetica e alimentare, fondamentali per sostenere la crescita economica e demografica del paese, oltre che a sfruttare le opportunità imprenditoriali e di investimento emergenti. Il governo infatti non è l’unico attore della politica africana dell’India, è accompagnato dal mondo dell’imprenditoria e giganti del settore privato. Tra il 2000 e il 2014 il commercio bilaterale è cresciuto di 7 volte (da 10,5 a 78 miliardi di dollari) con un tasso di crescita simile a quello cinese benché più contenuto in termini assoluti – fino alla fine degli anni Novanta il commercio indo-africano superava quello sino-africano – ma è poi sceso a 49 miliardi di dollari nel 2016. Verso il Corno l’India esporta principalmente attrezzature elettriche e altri macchinari, prodotti farmaceutici, alimentari, manifattura. La maggior parte degli scambi indiani con Gibuti in realtà è destinata a servire il crescente mercato etiopico – il 90% circa del commercio estero di Addis Abeba passa infatti per Gibuti. L’India non è presente nella regione con grandi investimenti infrastrutturali come i porti, ma ha concesso diverse linee di credito per il completamento di progetti di sviluppo.
Dall’India l’Etiopia ha ricevuto crediti di concessione per 1 miliardo di dollari, più di ogni altro paese al di fuori del vicinato indiano. I settori interessati sono stati l’elettrificazione rurale, l’industria dello zucchero e le ferrovie. Poco più della metà degli investimenti indiani in Etiopia sono diretti al settore manifatturiero (55%), mentre all’agricoltura ne è destinato il 18%. In Eritrea, invece, l’India è presente più come attore umanitario, avendo offerto assistenza in diversi campi, dalla redazione legislativa, alle borse di studio tecniche (nei settori dell’agricoltura, dell’istruzione e della sanità) e anche al settore alimentare (grano e zucchero tra i beni maggiormente inviati). In Sudan, con cui condivide un comune retaggio coloniale britannico, l’India è sia un importante attore umanitario, avendo fornito assistenza in periodi di emergenza o conflitto, sia uno dei principali esportatori (dopo Cina ed Emirati). Ha inoltre interessi nel settore oil&gas, come dimostrano gli investimenti di OVL, la seconda più grande compagnia petrolifera indiana, nel settore petrolifero sudanese.
Nel Corno è inoltre presente una significativa forza lavoro indiana – sia in qualità di personale tecnico sia di esperti – adoperata nei progetti infrastrutturali di compagnie private indiane o compagnie emiratine del settore logistico e finanziario che ricorrono a personale indiano. A dimostrazione del crescente interesse multisettoriale verso il Corno e tutta l’Africa, è significativo che l’India abbia recentemente approvato l’apertura di 21 nuove missioni diplomatiche in Africa per il 2018-2021.
Infine, in occasione dell’ultimo summit India-Africa tenutosi nel 2015, entrambe le parti hanno espresso la volontà di espandere la cooperazione in materia di sicurezza e difesa. L’India sostiene iniziative di sicurezza multilaterale e progetti di cooperazione militare bilaterale, visti come prerequisiti per la presenza economico-commerciale. Alla luce dell’importanza per l’India della salvaguardia e protezione delle rotte marittime, nel Corno il paese è molto attivo in missioni multilaterali di sicurezza e peacekeeping. La marina indiana è coinvolta dal 2008 nella task force onusiana creata per il pattugliamento delle coste somale e del Golfo di Aden contro la pirateria. Truppe indiane sono state attive negli anni Novanta in missioni ONU in Somalia e fino al 2007 in Eritrea ed Etiopia (UNMEE), mentre oggi il paese contribuisce al finanziamento della missione dell’Unione Africana in Somalia (AMISOM).

 

4. Sfide e prospettive di un territorio geo-strategico

Sul futuro del Corno d’Africa pesano dunque numerose incognite suscettibili di modificare in pieno o anche solo parzialmente gli equilibri (geo-)politici – in alcuni casi precari – esistenti nei territori oggetto della diffusa analisi.
Stabilizzazione promozione della democrazia, ricostruzione (o rafforzamento) delle istituzioni, contrasto ai fenomeni eversivi di tipo terroristico e piratesco saranno fattori cruciali di sviluppo politico e sociale, in grado di influenzare anche l’aspetto economico, il quale risente di un potenziale non pienamente sviluppato. Proprio una stabilizzazione della regione potrebbe avere effetti positivi sia per i flussi commerciali e mercantili occidentali e asiatici, sia per lo sviluppo economico e sociale dell’intero continente africano. Infatti, in virtù della posizione e proiezione geografica, che permette di regolare i traffici di merci tra Europa, Africa e Asia, e grazie agli investimenti infrastrutturali stranieri, che favoriranno la costruzione di grandi porti, reti ferroviarie e più in generale reti infrastrutturali moderne, la regione del Corno potrebbe divenire un connettore strategico, da nord a sud, tra le varie realtà dell’intera Africa orientale, della quale beneficerebbe anche il folto numero di attori esterni in loco. A favorire tale scenario potrebbe influire anche la presenza di fattori esogeni favorevoli, come la costante crescita economica asiatica, gli investimenti esteri nel settore africano dell’energia o una ripresa globale del prezzo internazionale del greggio. Un giusto mix di situazioni benevole che avrebbe ricadute positive sull’intera penisola del Corno d’Africa, facendola divenire un punto nevralgico cruciale per le rotte marittime globali da e verso lo Stretto di Bab al-Mandeb.
Pertanto, alla luce del quadro sinora delineato e della complessità degli scenari geografici, politico-economici e di sicurezza sin qui descritti è possibile avanzare alcune considerazioni: 

  1. Il Corno d’Africa, così come le vicine sub-regioni del Canale di Suez, Mar Rosso, Bab al-Mandeb, Golfo di Aden, Mar Arabico, Golfo dell’Oman, Stretto di Hormuz e Golfo Persico/Arabico, realtà estremamente differenti ma accumunate da alcuni quid, convergono tutte dal punto di vista geo-strategico nel bacino dell’Oceano Indiano occidentale, il quale rappresenta il principale campo di battaglia in cui le potenze straniere si affrontano per estendere la propria sfera di influenza.
  2. Il riposizionamento da parte dei principali attori internazionali all’interno dell’area così delimitata si mostra soprattutto attraverso una dottrina militare di tipo navale
  3. Di fatto la presenza di truppe straniere soddisfa molteplici esigenze: 
    a) preserva, o per quanto possibile, mira a favorire una stabilità dell’intera regione
    b) garantisce una regolarità del flusso marittimo attraverso gli Stretti di Bab al-Mandeb e Hormuz;
    c) funge da retrovia strategica per le missioni internazionali contro la pirateria e il terrorismo islamista in Africa e in Medio Oriente.

Alla luce di ciò emerge chiaramente una volontà generale da parte degli attori locali e di quelli esterni di garantire una stabilità complessiva dell’area al fine di soddisfare i propri interessi e appetiti, spesso convergenti e basati su un mutuo contenimento. La Cina desidera avere approdi sicuri lungo la via marittima della Belt, and Road Initiative, mentre gli indiani hanno risposto al “filo di perle” cinese con una propria iniziativa in Africa orientale tesa a contro-bilanciare lo strapotere di Pechino; gli Stati Uniti mirano a preservare per quanto più possibile lo status quo, puntando al contempo a frenare l’ingresso di nuovi attori nella regione; gli stati del Golfo, benché perseguano un medesimo obiettivo comune basato sul contrasto all’ascesa iraniana nell’area, muovono, ognuno in ordine sparso, intenti soprattutto a impedire altri successi del soft-power qatarino, alimentando di fatto una competizione per l’egemonia arabo-sunnita nella sub-regione africana. Ad esempio, l’Arabia Saudita percepisce la costa africana del Mar Rosso come un proprio retroterra strategico da salvaguardare e per questo sta investendo massicciamente in infrastrutture marittime e commerciali; gli Emirati Arabi Uniti perseguono una politica marittima interventista e pro-attiva mirata a creare situazioni di “gioco” alternative all’influenza saudita nel Golfo e nel commercio internazionale; il Qatar è attivo in tutto il quadrante dell’Oceano Indiano occidentale nel tentativo di ovviare al blocco arabo impostogli da Riyadh e Abu Dhabi. Anche l’Oman rimane un libero battitore, seppur sempre attento a non entrare in rotta di collisione aperta con le più potenti monarchie del Golfo, concentrato a intessere le proprie iniziative attraverso cooperazioni strategiche con India, Cina e Iran. Quest’ultimo, infine, punta a far valere la propria influenza nella regione sia attraverso un appoggio indiretto agli Houthi in Yemen sia modernizzando la propria potenza navale, inserendosi nella competizione marittima e creando nuovi equilibri tra attori asiatici e africani.
In questa partita, però, vi partecipano anche altri attori come Israele, Egitto, Turchia e Russia, impegnati per motivi diversi a dare nuovo impulso alle proprie agende di politica estera. Se tale visione può accomunare in un certo senso Egitto e Russia con Il Cairo dedito a riscoprire la sua natura africana per ovviare alle dipendenze di alleanze e strategie tradizionali tipiche della Guerra fredda, mentre Mosca sfrutta la presenza in Africa in maniera strumentale a consolidare la propria agenda globale –, Turchia e Israele agiscono con intenzioni e prospettive differenti. Ankara vede nel Corno d’Africa una naturale componente della sua agenda di politica estera che l’ha portata nel corso degli ultimi vent’anni a costruire una rete di interessi trasversali nell’intera Africa sahelo-sahariana con l’intento di conquistare nuovi mercati per il proprio export. Diversamente Israele, ha investito solo di recente nel Corno nel tentativo di internazionalizzare la questione della sicurezza marittima nel bacino dell’Oceano Indiano occidentale, con l’obiettivo ultimo di raccogliere il maggior sostegno possibile (politico e militare) da tale iniziativa da parte degli Stati Uniti e dei paesi del Golfo in chiave puramente anti-iraniana.
In questo senso, l’attivismo mediorientale e internazionale nel Corno d’Africa rischia di divenire un riflesso di macro-dinamiche relative alla competizione geopolitica propriamente mediorientale e a quella geo-strategica di tipo marittima tra le diverse medie e grandi potenze impegnate nel bacino dell’Oceano Indiano occidentale. La competizione nell’area potrebbe quindi dare avvio a nuove dinamiche interne al Corno con il rischio che questo nuovo contesto subisca un effetto spill-over o una semplice propagazione delle tensioni mediorientali, destabilizzandolo nuovamente e vanificando anche i tentativi recenti di stabilizzazione. Dovesse presentarsi dunque un tale scenario, gli attori coinvolti nella regione potrebbero intervenire soprattutto per tutelare i propri interessi strategici nell’area, creando tuttavia esiti imprevedibili in grado di stravolgere gli equilibri geopolitici nel Corno d’Africa e in Medio Oriente.

 


1. “Middle East Power Struggle Plays Out on New Stage”, World Street Journal, 1 giugno 2018; “Red Sea — artery of global trade”, Arab News, 12 febbraio 2016. 

2. La percezione di una comune appartenenza regionale si è manifestata nella creazione dell’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (IGAD), istituzione del Corno d’Africa in cui fanno parte oltre ai 5 paesi già menzionati anche Kenya e Uganda che però identificano nella Comunità dell’Africa orientale la prima regione di appartenenza

3. Tra i principali, la guerra civile in Somalia (1991), la guerra civile a Gibuti (1991-1994), un nuovo conflitto nell’Ogaden (2007), la guerra tra Etiopia ed Eritrea (1998-2000), il conflitto frontaliero tra Gibuti e l’Eritrea (2008). 

4. “Middle East Power Struggle Plays Out on New Stage”…, cit. 

5. B. Bruton, “Ethiopia and Eritrea Have a Common Enemy”,Foreign Policy, 12 luglio 2018.

6. Nome di un gruppo etnico africano diffuso in Etiopia e Kenya.

7.  “Ethiopia will end its state of emergency early, as part of widening political reforms”, Quartz Africa, 4 giugno 2018.

8. “The Arms Trade in the Horn of Africa”, EXX Africa, 17 agosto 2018.

9. Si escludono dalla classifica paesi come Libia e Siria, considerati teatri di guerra, la cui crescita negli anni passati era negativa. 

 10.  “Egypt to establish military base in Eritrea”, Sudan Tribune, 18 aprile 2017.

11. East Africa and the Horn In 2022: An Outlook for Strategic Positioning in the Region, Institut de Relations Internationales at Strategiques, marzo 2017.

12. Horn of Africa, European Civil Protection and Humanitarian Aid Operations, 13 giugno 2018.

13. Riyal Politik. The political economy of Gulf investments in the Horn of Africa, Clingendael, aprile 2018.

14.  “Sudan expels Iranian diplomats and closes cultural centres”, The Guardian, 2 settembre 2014.
15. Riyal Politik. The political economy of Gulf investments in the Horn of Africa…, cit.

16.  “Djibouti welcomes Saudi Arabia plan to build a military base”, Middle East Monitor, 28 novembre 2017.

17.  “Middle East Power Struggle Plays Out on New Stage”…, cit.

18. Riyal Politik. The political economy of Gulf investments in the Horn of Africa…, cit.

19. M. Kemrava, “Mediation and Qatari Foreign Policy”, Middle East Journal, vol. 65, n. 4, 2011, pp. 539-556. 

20. “Sudan, Qatar to sign $4 billion deal to manage Red Sea port –ministry”, Reuters, 26 marzo 2018.

21. “U.N. monitors see arms reaching Somalia from Yemen, Iran”, Reuters, 11 febbraio 2013.

22. The Distribution of Iranian Ammunition in Africa, Conflict Armament Research, settembre 2009.

23. J.A. Lefebvre, “Iran in the Horn of Africa. Outflanking US Allies”, Middle East Policy, vol. XIX, n. 2, estate 2012.

24. Ibidem.

25. “‘Israeli attack’ on Sudanese arms factory offers glimpse of secret war”, The Guardian, 25 ottobre 2012.

26. “Turkey reaping rewards of ‘Opening to Africa’”, Anadolu Agency, 27 febbraio 2018.

27. R. Ahren, “Netanyahu to visit Africa, first Israeli PM to do so in 50 years”, The Times of Israel, 29 febbraio 2016. Nel 2017, il premier Netanyahu andrà in Africa occidentale per partecipare come ospite a una sessione straordinaria della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas).

28.  F. Yasiin, Israeli Penetration into East Africa Objectives and Risks, Al-Jazeera Centre for Studies (AJCS), 24 ottobre 2016.

29. Secondo analisti dell’intelligence statunitense, Israele avrebbe installato alcuni punti d’ascolto e sorveglianza tra Massawa e Amba Soira, in Eritrea, e il governo locale avrebbe concesso alle forze di sicurezza israeliane un attracco nell’arcipelago delle isole Dahlak, nel Mar Rosso. Tuttavia non esistono conferme ufficiali da parte di entrambi i governi. Le basi in questione servirebbero per sorvegliare lo Stretto di Bab al-Mandeb e per vigilare possibili iniziative iraniane nell’area.

30. E. Ardemagni, Gulf Powers: Maritime Rivalry in the Western Indian Ocean, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, ISPI Analysis 321, 13 aprile 2018.

31. “Egypt Seeks Greater Influence in the Horn of Africa through Broad Cooperation with Eritrea”, Al-Asharq al-Awsat, 10 gennaio 2018.

32. Per maggiori approfondimenti sul contesto egiziano-etiopico si veda G. Dentice, Egitto, in Valeria Talbot (a cura di), Focus Mediterraneo Allargato n.7, redatto da ISPI per l’Osservatorio di Politica Internazionale del Parlamento Italiano e del MAECI, 17 aprile 2018, pp. 38-39.

33. A. Korybko, The Egyptian-Eritrean Military Axis Might Make the Horn of Africa Crisis Explode, Global Research, 19 gennaio 2018.

34. M. Samir, “African Continental Free Trade Area is major step towards African unity: Kabil”, The Daily News Egypt, 21 marzo 2018.

35. Per maggiori approfondimenti si vedano: G Porzio, “Quel Risiko tra Cina e Usa nel porto di Gibuti”, Il Venerdì di Repubblica, 13 giugno 2017; S. Allison, “Djibouti’s greatest threat may come from within”, Mail & Guardian, 2 marzo 2018; Camp Lemonnier, US Africa Command.

36. D. Runde, “Trump Needs to Close the Deal in the Horn of Africa”, Foreign Policy, 12 luglio 2018.

37. A.E. Ursu e W. Van den Berg, How the US lost: China’s growing foothold in Africa, Clingendael, 12 giugno 2018.

38. C. Golubski, Africa in the news: Ethiopia-Djibouti railway complete, Brookings, Africa in Focus, 27 gennaio 2017.

39. D. Dollar China’s engagement with Africa: from natural resources to human resources, Brookings, luglio 2016. 

 40. E. Economy, China’s strategy in Djibouti: Mixing commercial and military interests, Council on Foreign Relations, 13 aprile 2018.

41. Per maggiori approfondimenti si consiglia la seguente lettura: M. Cem Oğultürk, “Russia’s Renewed Interests in the Horn of Africa As a Traditional and Rising Power”, Russia’s Dual Roles in Global Politics as a Traditional Great Power and a Rising Power, vol. 2, n. 1, febbraio 2017, pp. 121-143.

42. A. Latif Dahir, “Russia is the latest world power eyeing the Horn of Africa”, Quartz Africa, 3 settembre 2018.

43. K.J. Kelley, “Russia scrambles to be the next major economic player in Africa”, Daily Nation, 18 aprile 2018. Si veda anche G. Olimpio, “Nuova base russa in Eritrea?”, Rivista Italiana Difesa, 11 aprile 2018.  

Nella foto di copertina: Addis Abeba, Etiopia

 

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