28 Set 2018

Focus paese: Libano

Focus Mediterraneo Allargato n.8

Una volta completata la transizione politica post-elettorale, il nuovo governo libanese dovrà affrontare numerose sfide impellenti, la cui mancata soluzione rischia di spingere progressivamente il paese sull’orlo del baratro dal punto di vista economico-sociale. Tuttavia, la stessa formazione del governo e il suo futuro operato non possono prescindere dalle prerogative dei numerosi attori regionali e internazionali coinvolti nella politica libanese, e ciò rischia di trasformare il quadro politico nazionale in un tanto pericoloso quanto inefficace equilibrismo tra aspettative e interessi altrui.

Quadro interno

Il Libano attraversa una fase di transizione politica: in seguito alle elezioni tenutesi a maggio 2018, Saad Hariri, rinominato primo ministro per la terza volta, sta cercando di formare un nuovo governo. Nelle intenzioni di Hariri, questo processo dovrebbe condurre alla creazione di un governo di accordo nazionale che, composto dai rappresentanti delle maggiori forze politiche, possa accompagnare il paese sulla strada delle riforme economico-strutturali che tanto necessita1. Tuttavia, le negoziazioni stanno incontrando numerosi ostacoli: ogni partito desidera guadagnare un certo peso nel nuovo esecutivo – sia sulla base dei risultati delle elezioni sia dello storico peso politico del proprio movimento, indipendentemente dal calo di consensi delle ultime consultazioni – e nessuno pare disposto a fare concessioni.

La situazione politica nel paese dei cedri si trova in stallo da anni: le precedenti elezioni parlamentari si erano tenute ben nove anni fa, nel 2009. Nonostante la costituzionale scadenza del mandato parlamentare nel 2013, le consultazioni sono state inizialmente posticipate al 2014, e in seconda battuta al 2017, con la giustificazione delle precarie condizioni di sicurezza dovute alla guerra nella confinante Siria. Nel giugno 2017, l’approvazione della tanto discussa nuova legge elettorale ha poi prolungato la legislazione di un ulteriore anno, sino a maggio 2018.

Il paese non è di certo nuovo ai vuoti di potere: nel 2013, dopo la caduta del governo del sunnita Najib Mikati causato dal ritiro di Hezbollah dalla maggioranza, sono trascorsi ben undici mesi sino alla nomina di un nuovo governo, con a capo il sunnita Tammam Salam. Inoltre, alla regolare scadenza del mandato del presidente maronita Michel Suleiman nel 2014 sono seguiti ben due anni di paralisi istituzionale, durante i quali il parlamento, il cui mandato era peraltro a sua volta scaduto, ha tentato invano di eleggere un nuovo presidente. La situazione si è infine sbloccata nel 2016 con l’elezione di Michel Aoun, gradito sia alle forze sunnite vicine a Hariri sia alle forze sciite alleate con Hezbollah. La sua nomina è stata parte di un accordo che ha visto un rimpasto anche ai vertici del governo, dove il precedente primo ministro Salam è stato rimpiazzato da Hariri, leader del partito al-Mustaqbal (Futuro).

Nel 2017, la nuova legge ha trasformato il sistema elettorale libanese da maggioritario a proporzionale, seppur con un’elevata soglia di sbarramento (il 10%), e la permanenza della divisione dei seggi in base all’appartenenza confessionale dei candidati. In Libano convivono ben diciotto comunità religiose riconosciute: per garantire la convivenza e la governabilità, dall’indipendenza del 1943, l’assetto istituzionale libanese è stato fondato sul confessionalismo, scelta poi confermata con l’accordo di Taif del 1989, all’indomani della guerra civile. Ciò significa che ogni comunità religiosa ha una propria quota di seggi riservata in parlamento, e che le maggiori cariche dello stato sono altresì ripartite tra le tre confessioni più numerose: il presidente della Repubblica deve essere cristiano maronita, il primo ministro – la carica con il maggiore potere esecutivo – musulmano sunnita, e il presidente del parlamento musulmano sciita.

Nelle elezioni di maggio 2018, svoltesi dunque per la prima volta con la nuova legge elettorale, la maggioranza è stata conquistata dal blocco di forze alleate con Hezbollah, tra cui i cristiani del Free Patriotic Movement (Fpm) – il partito fondato dal presidente Aoun – e il partito sciita Amal, il cui leader Nabih Berri è stato confermato per la sesta volta presidente del parlamento. Sebbene questo blocco non abbia ottenuto la maggioranza assoluta di due terzi indispensabile per avanzare senza ostacoli le riforme più importanti, i seggi conquistati da Hezbollah e i suoi più stretti alleati costituiscono quel terzo necessario per influenzare le decisioni del parlamento, anche senza il sostegno dei cristiani del Fpm.

D’altro canto, mentre il partito del premier Hariri, al-Mustaqbal, ha perso circa un terzo dei seggi, i cristiani delle Lebanese Forces (LF) hanno quasi raddoppiato i loro consensi. Questo risultato riflette un cambiamento nel quadro politico libanese: per lungo tempo, infatti, la politica nazionale è stata analizzata attraverso le lenti dei due schieramenti formatisi durante la Rivoluzione dei cedri, il movimento di protesta che ha spinto le forze siriane ad abbandonare il Libano nel 2005, in seguito all’omicidio dell’allora premier Rafik Hariri. In quell’occasione, l’alleanza anti-siriana del 14 marzo – formata, tra gli altri, da al-Mustaqbal e dalle LF – si è opposta alle forze pro-siriane – tra cui Hezbollah e Amal. A oggi però, questi due schieramenti non sono più totalmente esplicativi della politica libanese, che si presenta ben più fluida: tra i motivi del calo del consenso per al-Mustaqbal, in favore invece delle LF, troviamo proprio un certo ammorbidimento di Hariri nei confronti di Hezbollah e del Fpm, come dimostrato dal patto stretto nel 2016 con Aoun, in seguito al quale Saad Hariri ha guadagnato la premiership.

Tra le sfide più importanti che il nuovo governo, una volta nominato, dovrà affrontare spicca lo stato dell’economia libanese, che richiede urgenti riforme. Anche la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale hanno recentemente evidenziato questa urgenza.

Il Libano è estremamente indebitato, a livello sia pubblico sia privato, come indicato dal fatto che il debito pubblico corrisponde a circa 150% del prodotto interno lordo – il terzo più alto al mondo – mentre il deficit di bilancio ha recentemente superato il 20% del Pil2. Una delle ragioni strutturali dell’ingente debito risale alla ricostruzione seguita alla guerra civile libanese del 1975-1990, che è stata finanziata tramite grossi prestiti, contratti in particolare con banche libanesi, e ha dunque portato il governo a indebitarsi progressivamente. Dal 2011, anche la guerra in Siria sta avendo importanti conseguenze sull’economia del confinante Libano: innanzitutto, le dinamiche belliche hanno parzialmente isolato Beirut dalle rotte commerciali orientali. Ciò che ha più peso a livello socioeconomico è però senza dubbio l’ingente numero di rifugiati ospitati su territorio libanese: quasi un milione sono i siriani registratisi con l’Unhcr3, ma Beirut sostiene che altre centinaia di migliaia abbiano varcato il confine per sfuggire alla guerra civile. Inoltre, considerando che circa 175.000 rifugiati palestinesi sono stati censiti a fine 20174 e che vivrebbero in Libano anche alcune migliaia di iracheni5, la Repubblica dei cedri si configura come il paese con più rifugiati in proporzione alla popolazione. L’arrivo in massa dei profughi siriani ha aumentato notevolmente la competizione sul mercato del lavoro libanese, soprattutto per quanto riguarda la manodopera non specializzata: in Libano, infatti, i siriani percepiscono uno stipendio medio corrispondente a meno della metà di quello di un libanese, e hanno inoltre occupato una grande fetta dell’economia informale. D’altra parte però, essi tendono ad accettare lavori che i libanesi generalmente rifiutano6.

È questo un tema molto caldo in seno alla classe politica libanese: in particolare, i politici sciiti e cristiani citano l’impatto economico negativo dei rifugiati sulla già disastrata economia libanese e sul già traballante sistema infrastrutturale come una delle ragioni per incoraggiare i primi rimpatri dei siriani su base volontaria. Quest’approccio ha causato frizioni sia con i rappresentanti dell’Unhcr, molto più scrupolosi delle autorità libanesi nel valutare la fattibilità del ritorno dei profughi verso la Siria, sia in seno allo stesso governo, dove le forze di Hariri, tra le altre, hanno condannato l’irruenza e l’autonomia decisionale del ministro degli esteri Gebran Bassil (Fpm). Tuttavia, Bassil è fermo nei propri intenti, e Beirut si sta coordinando con Damasco per organizzare il ritorno in Siria degli sfollati7.

In generale, la questione dei rifugiati ha ricadute anche a livello della sicurezza – per il timore di infiltrazioni jihadiste nei campi profughi siriani e palestinesi – e sul mantenimento del delicato equilibrio confessionale su cui si basa il paese.

Tra le altre sfide che il nuovo governo si troverà ad affrontare, figura la corruzione: secondo la Banca mondiale, essa causerebbe una perdita di circa 10 miliardi di dollari l’anno8. A conferma di questa cifra esorbitante, la Repubblica libanese si è classificata 143° su 180 paesi per indice di corruzione9.

Per risanare i conti pubblici e riportare l’economia libanese sotto controllo, di modo da poter poi risolvere anche i vari problemi infrastrutturali e gestionali di cui soffre il paese, un primo importante passo è stato l’approvazione di una legge di bilancio nel 2017, per la prima volta dopo ben dodici anni.

Nell’aprile 2018 è stata inoltre imboccata la strada della raccolta internazionale di fondi, come già tentato – senza successo – negli anni 2000. La conferenza di donatori ‘Cedre’, tenutasi a Parigi, ha permesso a Beirut di raccogliere una prima somma di 11 miliardi dollari tra donazioni e prestiti, che verranno utilizzati per migliorare le infrastrutture e stimolare la crescita del Pil, che a oggi non supera il 2% annuo10. Tuttavia, prestiti e donazioni sono vincolati a riforme strutturali che i donatori si aspettano di vedere realizzate nel paese dei cedri. La presenza di un governo stabile ed efficace, dunque, si rivela quanto mai necessaria.

Relazioni esterne

Anche in virtù della sua natura multiconfessionale e della sua posizione geografica nel cuore del Medio Oriente, il Libano è da sempre oggetto delle mire delle potenze regionali, che ne rendono la politica interna estremamente permeabile e dipendente dalle influenze esterne. Ciò implica che composizione e condotta del nuovo governo saranno estremamente sensibili alla volontà e ai veti implicitamente imposti dai vari attori regionali ed internazionali coinvolti nella politica interna libanese, e ciò nonostante l’insistenza di Beirut sulla propria indipendenza e sovranità.

È innanzitutto la dicotomia Iran-Arabia Saudita che si può toccare con mano a Beirut, dove Riyadh ha storicamente sostenuto il clan Hariri, mentre l’Iran non ha mai fatto mistero di considerare il Partito di Dio la punta di diamante della propria strategia di proiezione di potere regionale. In Siria, Hezbollah si è rivelato fondamentale nel fornire forze armate a supporto del campo governativo sponsorizzato da Teheran; d’altra parte, per il movimento sciita è fondamentale non perdere Damasco, poiché ciò significherebbe rimanere isolati, perdendo il vitale collegamento con l’Iran. In virtù di questi rapporti, i buoni – ma non ottimi – risultati ottenuti nelle ultime elezioni hanno generato grande entusiasmo a Teheran, dove il generale Qassim Soleimani, leader delle brigate Quds, ha parlato di una ‘vittoria di Hezbollah’.

D’altro canto, i rapporti Hariri-Arabia Saudita si sono dimostrati meno lineari, e hanno rischiato di deteriorarsi nel corso degli ultimi due anni, in concomitanza con il parziale ammorbidimento di Hariri verso il blocco politico opposto, evidenziato dal patto con Aoun, a sua volta alleato di Hezbollah, movimento che l’Arabia Saudita annovera tra le organizzazioni terroristiche. Nel 2016, Riyadh ha interrotto l’erogazione di aiuti militari al Libano, e ha fortemente sconsigliato i propri cittadini di viaggiare verso Beirut – una decisione replicata anche dagli alleati, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, che hanno imposto un divieto di viaggiare in Libano. Nella logica saudita, queste misure sono state giustificate dall’impegno di Hezbollah in Siria accanto all’Iran in favore del Presidente Assad, dal sostegno del Partito di Dio agli Houthi in Yemen, e dalla mancata condanna libanese in seguito all’attacco dell’ambasciata saudita in Iran. I rapporti tra Beirut e Riyadh sono arrivati a un climax di tensione quando, nel novembre 2017, il premier Saad Hariri ha annunciato in diretta dalla capitale saudita le proprie dimissioni, dichiarando di temere per la propria vita e denunciando un’eccessiva ingerenza iraniana nelle dinamiche libanesi. La situazione si è risolta in un nulla di fatto, con il ritorno di Hariri in Libano e la ripresa del suo incarico, anche grazie alla mediazione del presidente francese Macron e alla fermezza del presidente Aoun. Tuttavia, il fondato sospetto che dietro questo episodio ci fosse la mano di Riyadh ha indicato quanto l’Arabia Saudita sia disposta ad esporsi per arginare l’influenza di Hezbollah in Libano – veicolo diretto, nella concezione saudita, della stretta di Teheran su Beirut. Proprio per questo, il ruolo che Hezbollah e i suoi alleati assumeranno nel nuovo governo sarà fondamentale per comprendere la configurazione dei rapporti sauditi-libanesi dei prossimi anni. Intanto, nonostante Muhammad Bin Salman non abbia finanziato la campagna elettorale di Hariri come succedeva in passato, negli ultimi mesi Riyadh ha tentato di riavvicinarsi a Beirut. Ciò è stato evidenziato dai vari incontri tenutisi tra gli alti vertici sauditi e libanesi, che hanno espresso la volontà di migliorare i rapporti anche in ambito economico. Inoltre, alla conferenza Cedre, il regno saudita avrebbe fatto un’offerta di un miliardo di dollari in prestiti.

Anche per Israele, come e più dell’Arabia Saudita, Hezbollah rimane un acerrimo nemico, sia per il suo strenuo supporto alla resistenza palestinese sia per la sua estrema vicinanza all’Iran; da una prospettiva israeliana, Hezbollah è inoltre ancor più pericoloso perché vicino al territorio israeliano. Commentando a caldo i risultati delle elezioni di maggio 2018, le autorità israeliane hanno dichiarato di considerare il Libano ed Hezbollah come una cosa sola, esprimendo dunque chiara preoccupazione per il futuro quadro politico del proprio vicino. Nei primi mesi del 2018, i rapporti tra Beirut e Tel Aviv, da sempre ipertesi, si erano già ulteriormente deteriorati a causa del muro che le autorità israeliane hanno iniziato a costruire sul confine nord orientale con il Libano11 e delle dispute sulla sovranità delle acque scatenate dalle esplorazioni energetiche libanesi nel Mediterraneo orientale.

Nello scenario libanese si sta affacciando anche la Russia: dopo aver conquistato un ruolo di rilievo nella guerra in Siria a sostegno di Assad, il Cremlino vorrebbe estendere la propria influenza anche in Libano12. Attraverso il cosiddetto soft power – iniziative culturali, economiche, esplorazioni energetiche, piani di assistenza per il rimpatrio dei rifugiati – Mosca sta cercando di spingere sempre più il Libano nella propria sfera di influenza, sebbene la piccola Repubblica sia storicamente legata agli Stati Uniti d’America, che hanno un fedele alleato nel premier Hariri. Proprio per questo, nonostante le buone relazioni intrattenute, Beirut ha recentemente rifiutato di sottoscrivere un accordo militare con la Russia, sapendo che una tale decisione costituisce la linea rossa che, se varcata, porterebbe a una rottura con Washington. Oltretutto, un avvicinamento alla Russia favorirebbe il campo pro-siriano in seno alla politica libanese, in primis Hezbollah, che Washington come Riyadh ha inserito nella black list dei terroristi.

Tra le tematiche legate agli attori esterni che potrebbero creare conflitti nell’arena politica libanese, la recente reintroduzione delle sanzioni economiche americane sull’Iran promette di mettere a dura prova l’equilibrio del futuro governo. Il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah si è recentemente pronunciato contro le sanzioni, dichiarando che in ogni caso esse non riusciranno a causare né la caduta del regime iraniano, né la fine dei finanziamenti iraniani ai propri proxies in Medio Oriente, tra i quali spicca appunto lo stesso Partito di Dio. Tuttavia, i legami economici tra Libano e Iran non escludono la possibilità che le sanzioni possano avere ripercussioni negative sull’economia libanese.

Un’altra ragione di divisione nel futuro governo potrebbe essere rappresentata dalla questione siriana. Sebbene la posizione nei confronti nella Siria non costituisca più un totale ostacolo alla cooperazione tra le forze politiche libanesi, permangono tra queste stesse forze differenze e resistenze in merito a un’apertura verso Damasco. Il nuovo governo libanese potrebbe trovarsi a dover riconsiderare i propri rapporti con la Siria: se nel contesto bellico essi sono stati gestiti soprattutto da Hezbollah, le altre forze pro-siriane, in particolare i cristiani del Fpm, vorrebbero ora spingere il riluttante Hariri a prendere contatti diretti con Assad. Tuttavia, in considerazione del fondamentale ruolo russo nel contesto siriano, a fine agosto Hariri ha dichiarato di volersi relazionare preferibilmente con il presidente russo Putin piuttosto che con Assad sulla Siria13.

 

1 Sui progetti di Hariri per il nuovo governo, si veda: C. Coletti, “Saad Hariri sets plans for international investment as he seeks to unite Lebanon”, Forbes Middle East, 26 agosto 2018, https://www.forbesmiddleeast.com/en/saad-hariri-looks-ahead-to-reform-and-growth-for-lebanon/

2 E. Dacrema, “Lebanon’s economy: how magic?”, Ispi Commentary, 4 maggio 2018,

3 UNHCR- Operation Portal Refugee Situations, “Situation Syria Regional Refugee Response”.

4 N. Houssari, “ First census reveals 174,000 Palestinian refugees in Lebanon”, ArabNews, 21 dicembre 2017.

5 “Iraqi envoy urges refugees to return home”, The Daily Star, 5 marzo 2018.

6 “Syrian refugees’ impact on Lebanese labor market”, The Daily Star, 29 giugno 2018.

7 Hanan Hamdan, “Lebanon-UNHCR feuding over Syrian refugees”, Al Monitor, 6 luglio 2018.

8 Sulla situazione economica attuale, si veda: Z. Khodr, “Lebanon economy: Subsidised housing loans suspended”, Al Jazeera, 17 luglio 2018.

9 Transparency international, “Corruption Perceptions Index 2017- Lebanon”, https://www.transparency.org/country/LBN

10 Economist Intelligence Unit, Country Report – Lebanon, Agosto 2018.

11 S. Rose, “Israel builds new wall at Lebanon’s southern border”, Al-Monitor, 26 febbraio 2018.

12 “In Lebanon, Russia uses softer touch to win influence”, Agence France Presse, 29 agosto 2018.

13 “Intervista esclusiva al premier Hariri”, Euronews, 31 agosto 2018.

 

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