17 Apr 2019

Indonesia al voto: sviluppo e tolleranza le grandi sfide del futuro

Rieletto Widodo

Norme contro le fake news diffuse sul web e leader tribali, seggi controllati dai militari e carte d’identità elettroniche, ulema fondamentalisti a caccia di influenza contro ultras libertari, e soprattutto 193 milioni di elettori sparsi su 17mila isole chiamati a esprimere il loro voto in un unico giorno: oggi.

Le presidenziali del 2019 in Indonesia sono le più importanti elezioni delle quali non avete mai sentito parlare, e se da un lato gli indonesiani le definiscono pesta demokrasi – la “festa della democrazia” –, dall’altro le ripercussioni di quanto si deciderà nelle urne dell’arcipelago possono essere immense, e non solo per il Sudest asiatico e l’area Asia-Pacifico. 

Il presidente uscente in corsa per un secondo mandato di altri cinque anni è Joko Widodo, “Jokowi” per i suoi supporter,  57enne esponente di punta del partito di centrosinistra PDI-P e – secondo diverse proiezioni – il leader eletto più popolare del mondo, capace di mantenere il 71% del gradimento nonostante la luna di miele post-elezioni sia finita da tempo. Joko Widodo è un personaggio capace di citare a memoria versetti del Corano e raccontare nelle interviste la sua passione per la musica metal; a sfidarlo per conto di uno schieramento composto da vari partiti di centrodestra c’è Prabowo Subianto, 67 anni, un uomo d’affari all’attacco contro “le malvagie élite di Giacarta” che “mentono al popolo”, ma anche un personaggio capace di suscitare memorie infelici, perché è il genero dell’ex dittatore Suharto e ha ricoperto il ruolo di capo delle forze speciali dell’esercito, rimanendo implicato in uno scandalo a base di sequestri di oppositori politici che gli ha garantito per anni l’inserimento nella black list degli Stati Uniti.

Prabowo è già stato sconfitto da Widodo alle scorse elezioni e, a dirla tutta, ha anche perso le quattro consultazioni precedenti; tutte le proiezioni danno per scontata la vittoria di Jokowi e, descritte così, le elezioni indonesiane si avvierebbero a diventare un grande esercizio di democrazia in una zona del mondo che sta assistendo all’ascesa o al consolidamento di diversi regimi autocratici. Tuttavia, gli elementi in gioco sono molti di più. 

La costituzione indonesiana si basa sulla dottrina detta Pancasila, che garantisce il rispetto delle cinque religioni professate nell’arcipelago – Islam, Buddhismo, Induismo, Cristianesimo e Confucianesimo – ma allo stesso tempo, con 180 milioni di fedeli dichiarati su 250 milioni di abitanti, l’Indonesia è il paese musulmano più popoloso del pianeta. L’Islam professato in Indonesia è stato a lungo considerato aperto e tollerante, ma negli ultimi decenni si è assistito alla progressiva ascesa di predicatori fondamentalisti, che ha condotto all’applicazione della sharia nella provincia di Aceh, alla proliferazione di gruppi terroristici e al fenomeno di foreign fighters indonesiani partiti per unirsi all’ISIS e rientrati in patria per commettere attentati, o confluiti nelle feroci guerriglie che hanno incendiato le Filippine. Dalla cella nella quale è rinchiuso da anni, l’imam fondamentalista Aman Abdurrahman continua a predicare l’istituzione di un califfato capace di abbracciare varie isole a cavallo tra Indonesia, Malaysia e Filippine, e a ispirare atti terroristici sempre più sanguinosi come quelli commessi a Surabaya, la seconda città indonesiana, dove nel maggio 2018 intere famiglie composte da madre, padre e bambini (dei quali il più piccolo aveva nove anni) hanno scatenato un’ondata di attacchi kamikaze contro alcune chiese cristiane.

Anche quando non commette attentati, il fondamentalismo islamico si sta dimostrando sempre più capace di condizionare il discorso pubblico indonesiano: durante la sua campagna elettorale Prabowo ha cercato sistematicamente di ottenere il consenso dei gruppi più radicali, ma anche il moderato Joko Widodo non ha potuto evitare ampie strizzate d’occhio agli ulema. Il peso dei fondamentalisti si riassume nel caso Ahok: 53 anni, ex governatore di Giacarta, questo carismatico cristiano di etnia cinese era considerato il successore naturale di Joko Widodo, che avrebbe voluto candidarlo come suo vice. Nel 2016, però, il cosiddetto Movimento 212 – una sigla che riunisce varie organizzazioni islamiche radicali – è riuscito a distorcere le norme sul rispetto delle cinque religioni ufficiali e alcune dichiarazioni pubbliche di Ahok fino a farlo condannare con l’accusa di blasfemia a due anni di prigione, dalla quale il leader è uscito solo nel gennaio di quest’anno, in tempo per sostenere la campagna del PDI-P ma non per partecipare al ticket con Joko. Jokowi, da parte sua, ha dovuto cercare una sponda islamica candidando come suo vice l’imam Ma’ruf Amin. 

Il campo da gioco sul quale si disputano le presidenziali indonesiane del 2019 non è solo religioso, ma riguarda più in generale il concetto di modernità in una zona che continua a essere l’area economica più dinamica del mondo e nella quale l’Indonesia, a fronte di uno sviluppo economico ancora non paragonabile a quello di altre nazioni, gioca un ruolo fondamentale sulla base del suo peso demografico: oltre un terzo dell’elettorato ha un’età compresa tra i 17 e i 35 anni e Giacarta – una megalopoli che con le sue conurbazioni sempre più estese arriva a contare circa 30 milioni di abitanti – è la citta nella quale si twitta di più al mondo, un polo culturale che diventa ogni anno più vivace e interessante, e anche un’area urbana continuamente a rischio allagamenti, con una parte rilevante della sua superficie già sotto il livello del mare.

Se in alcune isole le schede elettorali sono state spedite con settimane di anticipo via cargo e a volte i capi-villaggio esprimono da soli le decisioni dell’intera comunità, allo stesso tempo in città si vota con carte d’identità digitali e il web svolge un ruolo fondamentale nella vita di una fetta sempre più ampia della popolazione, dalle metropoli fino alle isole, tanto che la campagna elettorale si è svolta principalmente in rete e l’immensa diffusione di notizie allarmistiche e non verificate ha spinto il governo a varare una gigantesca iniziativa contro le fake news, dagli esiti ancora incerti vista la diffusione del fenomeno. Ma come racconta Elizabeth Pisani nel fondamentale libro Indonesia Ecc, la politica indonesiana è anche una giungla di clientelismo e corruzione, nella quale la campagna di un candidato al parlamento nazionale è costellata di buste piene di denaro e promesse di posti di lavoro pubblici da distribuire all’elettorato, e può arrivare a costare fino a 10 miliardi di rupie, circa 700mila dollari. 

Nei suoi anni al governo Joko Widodo è riuscito a ottenere diversi risultati effettivi, come una crescita economica complessiva del 5%, una forte accelerazione nei progetti infrastrutturali e il recupero del controllo sulle riserve energetiche, sulle risorse minerarie e sulla pesca, che in precedenza erano soggette a società straniere. Rimane popolare anche nelle aree rurali, nonostante un calo del reddito netto tra i contadini, che sono circa 40 milioni e costituiscono un terzo della forza lavoro nazionale. La conferma di Jokowi alla presidenza per altri cinque anni appare scontata, a meno di sorprese dell’ultimo momento. Ma la vera sfida per l’Indonesia rimane quella contro i radicalismi e per lo sviluppo: se la nazione islamica più popolosa del pianeta dovesse cadere preda di spinte fondamentaliste, gli effetti si sentirebbero ovunque.

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