27 Mag 2019

Iran: tra isolamento e rischio escalation con gli USA

Focus Mediterraneo Allargato n. 10

Il dibattito politico interno al paese continua a essere monopolizzato dalle difficili sorti dell’accordo sul nucleare (Jcpoa, Joint Comprehensive Plan of Action), siglato da Iran e P5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Germania, Regno Unito) nel luglio 2015 ed entrato in vigore nel gennaio 2016. La decisione dell’amministrazione Trump di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo, a maggio dello scorso anno, ha portato alla reintroduzione delle sanzioni statunitensi su Teheran che rendono difficile la corretta implementazione dell’accordo anche da parte degli altri stati membri. Le sanzioni statunitensi hanno infatti la caratteristica dell’extra-territorialità; colpiscono dunque i soggetti di tutti i paesi del mondo, non solamente quelli statunitensi. Oltre ad avere ovvi effetti sull’economia del paese, la strategia statunitense di “massima pressione” sta determinando un riorientamento della politica estera iraniana. Questo riorientamento, tuttavia, sta avvenendo non nella forma desiderata da Washington della totale rinuncia da parte iraniana alle proprie alleanze regionali, bensì nel tentativo di rafforzamento di queste ultime e di approfondimento dei rapporti con le grandi potenze a est del paese, in particolar modo Cina e India.

 

Quadro interno

A seguito di quella che l’Iran percepisce come una violazione statunitense del Jcpoa, lo scorso 8 maggio il paese ha annunciato di avere intenzione di riprendere parte del proprio programma nucleare. In particolare, Teheran non rispetterà più i limiti quantitativi di stoccaggio di uranio arricchito e acqua pesante previsti dall’accordo. La decisione è legittimata, secondo l’Iran, dagli articoli 26 e 36 dello stesso Jcpoa. Il primo impegnava gli Stati Uniti a non reintrodurre le sanzioni che erano state sospese e a non introdurne di nuove. Nel caso in cui questo fosse accaduto – come di fatto è successo – l’Iran avrebbe considerato tale atto come la motivazione per cessare in tutto o in parte il proprio adempimento dell’accordo. Anche l’articolo 36 apre la strada a uno stop all’implementazione dell’accordo, in tutto o in parte, nel caso di una disputa interna alle parti non risolta adeguatamente dalla Commissione congiunta del Jcpoa. Teheran ha poi lanciato un ultimatum di sessanta giorni all’Unione europea: se entro questo termine Bruxelles e gli E3 (Francia, Germania, Regno Unito) non troveranno il modo di dare corretta attuazione all’accordo garantendo dunque che Teheran possa continuare a vendere petrolio e avere accesso al sistema bancario internazionale, l’Iran riprenderà altre parti del proprio programma nucleare. È dalla risposta europea, dunque, che dipende in questo momento la sorte del Jcpoa. Le motivazioni della decisione iraniana sono da ricercare internamente al paese: l’amministrazione Rouhani, con il ministro degli Esteri Javad Zarif – “padre” dell’accordo sul nucleare – è sempre più sotto pressione per dimostrare ai “falchi” e alla stessa popolazione iraniana di essere in grado di rispondere a quella che viene percepita come una politica vessatoria di Washington, oltre che un’aperta violazione del Jcpoa da parte degli Usa. La reintroduzione delle sanzioni ha infatti fatto peggiorare drasticamente il quadro macroeconomico del paese: il 2018 si è chiuso in recessione, con un Pil in calo del 4%; le stime del Fondo monetario internazionale per il 2019 confermano la recessione e prevedono una caduta del Pil del 6%. La valuta iraniana, il rial, si è svalutata del 60% nel corso del 2018, mentre l’inflazione ha raggiunto la cifra record del 51,4% nell’aprile di quest’anno. Il giro di vite imposto da Washington sulle esportazioni di petrolio iraniano, con il mancato rinnovo delle esenzioni comunicato lo scorso aprile, sembra destinato a peggiorare ulteriormente il quadro: dal novembre 2018, quando le sanzioni Usa hanno rimosso circa 1,5 milioni di barili al giorno di greggio iraniano dal mercato, l’Iran avrebbe perso circa 10 miliardi di dollari di rendite petrolifere. Ora che, da questo maggio, gli Stati Uniti puntano a rimuovere anche i rimanenti 1-1,2 milioni di barili di greggio iraniano al giorno, il danno economico per Teheran sotto forma di mancata rendita si prospetta ancora maggiore. Le ripetute minacce statunitensi, e il timore di un regime change orchestrato da Washington, stanno poi portando a un compattamento della classe politica iraniana su posizioni fortemente nazionaliste. La difesa della sovranità nazionale rappresenta in questo momento la priorità del paese. È anche per questo motivo che la retorica della stessa amministrazione “moderata” di Hassan Rouhani sembra assumere in misura crescente un tono sempre più netto di difesa della sovranità nazionale. Ciò accade da una parte in risposta alla percepita minaccia statunitense, dall’altra parte per via della pressione sull’amministrazione Rouhani da parte degli elementi più radicali del regime, che vorrebbero una risposta più dura a quella che viene percepita come una vera e propria aggressione da parte di Washington. Sintomatico di queste difficoltà interne all’amministrazione Rouhani è stato l’episodio delle dimissioni, successivamente ritirate, del ministro degli Esteri Javad Zarif, lo scorso febbraio. La motivazione delle dimissioni sembra essere riconducibile all’esclusione di Zarif da un incontro con il presidente siriano Bashar al-Assad a Teheran. A ricevere Assad era invece presente, oltre alla guida suprema Ali Khamenei e al presidente Hassan Rouhani, il capo delle brigate al-Qods dei pasdaran, Qassem Suleimani. Il parterre dei presenti è sembrato dunque ribadire che la gestione del dossier siriano è affidata al corpo dei guardiani della rivoluzione, ala militare del regime, anziché al ministero degli Esteri. Con il gesto delle dimissioni, Zarif sembra dunque aver voluto rivendicare il ruolo del corpo diplomatico nella gestione dei dossier di politica estera del paese, anche quelli più delicati come quello siriano.

 

Quadro regionale

A seguito dell’accresciuta percezione della minaccia nei propri confronti, l’Iran sta cercando di rafforzare i rapporti con gli alleati nella regione. Questi non sono molti, e proprio per questo diventano prioritari per Teheran.

In particolar modo, l’Iran punta a mantenere solidi rapporti con l’Iraq, nonostante le ripetute pressioni di Washington su Baghdad perché si allontani da Teheran. Le relazioni tra Iran e Iraq, per molti anni conflittuali, hanno registrato un netto miglioramento a partire dal 2003, proprio a seguito dell’intervento militare statunitense che ha rovesciato il regime di Saddam Hussein. Da allora, i due paesi hanno rafforzato la loro cooperazione in campo politico, economico e culturale, tanto da poter parlare oggi di una vera e propria interdipendenza. Teheran è poi intervenuta boots on the ground – e in coordinamento con i soldati statunitensi della coalizione internazionale anti-IS – per sostenere le forze armate irachene nella guerra contro lo Stato Islamico. La stabilizzazione dell’Iraq rappresenta infatti una delle priorità di politica estera iraniana, anche e soprattutto a causa della condivisione di un lungo e poroso confine (1500 km), dal quale le minacce originanti in terra irachena potrebbero penetrare sul suolo iraniano e mettere a repentaglio la sicurezza del paese. È in questo contesto di interdipendenza che si colloca la visita ufficiale in Iraq del presidente iraniano Hassan Rouhani lo scorso marzo. Durante la visita i due paesi hanno firmato accordi in diversi settori – energia, ferrovie, sanità, liberalizzazione del regime dei visti – per favorire un aumento dell’interscambio da 12 a 20 miliardi di dollari. Un dato esplicativo dell’interdipendenza tra i due paesi è quello relativo all’elettricità: l’Iraq importa circa 1,5 miliardi di metri cubi di gas dall’Iran, necessari per alimentare circa il 45% del proprio fabbisogno interno di energia elettrica. Attualmente Baghdad beneficia di un’esenzione concessa dagli Stati Uniti per continuare ad acquistare energia da Teheran, nonostante il settore sia sotto sanzioni. L’esenzione è stata rinnovata lo scorso marzo per un periodo di 90 giorni.

Permane poi il sostegno iraniano al regime siriano di Bashar al-Assad. Gli scorsi 25-26 aprile ad Astana (la capitale del Kazakistan ora ribattezzata Nursultan) si è tenuto un ulteriore round negoziale – il dodicesimo – tra Iran, Russia e Turchia. Oggetto dell’incontro è stata la definizione di dettagli tecnici circa la creazione del comitato costituzionale, oltre che la riduzione delle tensioni attorno a Idlib, il ritorno dei rifugiati e la ricostruzione post-bellica. Tuttavia, nulla di concreto sembra essere emerso dall’incontro, a cui per la prima volta hanno partecipato in qualità di osservatori anche ufficiali giordani, l’alto commissario Onu per i rifugiati e rappresentanti della Croce rossa internazionale.

La difficoltà nelle relazioni iraniane con l’Occidente, e in particolar modo il raffreddamento delle relazioni con l’Europa dovuto all’adeguamento europeo alle sanzioni statunitensi, sembra aver innescato un ritorno alla “look East policy”. Questa politica, già adottata negli anni Duemila, è tesa a un rafforzamento della proiezione dell’Iran verso est, soprattutto verso Cina e India. Questi paesi, oltre a essere cruciali per il settore petrolifero iraniano, rappresentano un possibile motore di sviluppo infrastrutturale per il paese. Pechino, con il progetto di “nuova via della seta”, è sicuramente un partner di interesse per Teheran, così come Teheran lo è per Pechino per via della sua posizione strategica di crocevia tra Oriente e Eurasia. Lo scorso febbraio l’Iran ha dichiarato di essere pronto a collaborare con la Cina nella Belt and Road Initiative (Bri), mentre nel mese di maggio Teheran ha espresso il proprio interesse alla partecipazione al corridoio economico sino-pakistano (ChinaPakistan Economic Corridor, Cpec), parte della stessa Bri.

Anche l’India è un partner imprescindibile per i progetti di sviluppo infrastrutturale: Nuova Delhi è attualmente impegnata nello sviluppo del porto iraniano di Chabahar, nel Golfo persico, a pochi chilometri dal confine pakistano. La piena messa in funzione del porto, che dovrebbe essere completata entro i prossimi due anni, dovrebbe permettere all’India di raggiungere con le proprie merci l’Afghanistan – via mare e poi via terra attraverso l’Iran bypassando dunque il territorio pakistano, con il quale notoriamente non corrono buoni rapporti. Recentemente l’amministrazione Trump ha rinnovato la licenza – necessaria per non incorrere nelle snazioni del Tesoro americano – concessa a Nuova Delhi per lo sviluppo di Chabahar.

L’atteggiamento degli Stati Uniti, del resto, costituisce una variabile chiave per il successo o meno della nuova “Look East Policy” iraniana. Tanto la Cina quanto l’India, così come la Russia e altri paesi asiatici, sembrano per il momento orientate a schierarsi dalla parte di Teheran solo a patto che ciò non diventi lesivo dei propri interessi. Per quanto importanti, le relazioni dell’Iran con il suo est sono infatti profondamente asimmetriche, e ciò si somma al potere coercitivo di cui Washington ancora dispone nel sistema economico e finanziario mondiale, tale da poter infliggere severe ripercussioni su aziende cinesi, russe, europee, in caso di mancato adeguamento alle proprie richieste.

Ecco perché, per quanto possa approfondire le proprie relazioni con i paesi asiatici, l’unica via di uscita dall’isolamento per Teheran passa dalla ripresa del dialogo con gli Usa. L’innalzamento della tensione tra Washington e Teheran nelle scorse settimane, tale da far temere l’escalation militare tra i due, è da imputare proprio alla politica di “massima pressione” che Washington sta esercitando per portare Teheran al tavolo  negoziale. Come accaduto con la Corea del Nord prima dell’incontro tra Trump e Kim Jong Un, l’approccio “muscolare” di Washington fatto di sanzioni, minacce e intimidazioni sembra essere volto proprio a questo, a convincere Teheran a fare maggiori concessioni in sede di negoziato, proprio perché costretta in una posizione di debolezza. Esistono però delle profonde differenze tra l’Iran e la Corea del Nord, e per quanto non abbia rigettato del tutto l’idea di aprire un dialogo con Washington, Teheran insiste circa il fatto che la precondizione perché questo dialogo abbia luogo è “essere trattati con rispetto”. Senza un allentamento delle sanzioni, difficilmente Teheran acconsentirà a un nuovo negoziato. Trump vede invece le sanzioni come uno strumento per portare l’Iran al tavolo negoziale. Da questo braccio di ferro dipende il futuro dell’accordo sul nucleare, dell’Iran e delle sue relazioni con Europa e Asia, oltre che della stabilità dell’intera regione mediorientale.

 

 

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