27 Mar 2019

Israele-Hamas: la nuova escalation ha un peso politico

Le tensioni a Gaza

Israele tornerà alle urne il prossimo martedì 9 aprile, appositamente indetta giornata festiva per permettere a tutti i cittadini di votare. Tuttavia, a pochi giorni dall’atteso test elettorale che potrebbe marcare la fine dell’epoca Netanyahu, si profila una nuova escalation militare con Hamasnella Striscia di Gaza.

Il conflitto si è riacceso improvvisamente lunedì 25 marzo con la caduta di un razzo alla periferia di Tel Aviv, arteria centrale del Paese e “linea rossa” della sicurezza israeliana, non intercettato dall’Iron Dome (la sofisticata cupola di protezione antimissilistica), che risultava al momento non coprire la regione centrale del Paese in quanto non considerata a rischio. L’attacco missilistico è avvenuto dopo anni di relativa tranquillità e appeasement tra Hamas e Israele: gli attentati terroristici in Israele hanno infatti registrato un calo progressivo negli ultimi anni, passando dai 169 del 2016 agli 87 del 2018 (dati IDF), quasi dimezzandosi. Molti di questi attentati, definiti dalla stampa israeliana “all’arma bianca” (ovvero con coltello e senza armi da fuoco), sono stati eseguiti da individui singoli con nessuna appartenenza politica e non possono dunque essere ricondotti ad Hamas o alla Jihad islamica, le due formazioni politiche islamiste prevalenti nella Striscia di Gaza.

Il calo progressivo degli attentati in Israele è dovuto a numerosi fattori, in parte attinenti alla sfera interna e in parte geopolitici. In primis, l’ala politica di Hamas – sotto la strategica conduzione di Yahya Sinwar e consapevole della distruzione in termini di infrastrutture e vite umane arrecata alla Striscia dagli ultimi tre conflitti militari ingaggiati con Israele (Piombo fuso, 2008-2009; Pilastro di difesa, 2012, e Margine protettivo, 2014) – ha scelto di modificare profondamente la propria tattica di resistenza all’occupazione, rinunciando ai lanci di missili per mantenere alta la tensione e sostituendoli con mobilitazioni civili di massa lungo i confini della Striscia. Tale modalità di resistenza civile ha preso avvio come proseguimento della lotta con altri mezzi, richiamandosi alla “giornata della terra” celebrata dal 1976 come rivendicazione nazionale contro l’espropriazione delle terre palestinesi, poi ribattezzata “marcia del ritorno”: una campagna che ha coinvolto migliaia di Palestinesi della Striscia, pacificamente intenzionati manifestare contro l’occupazione  scavalcando la barriera difensiva israeliana che simbolicamente impedisce loro il ritorno alle loro originarie terre.

Il cambio di strategia operato dalla leadership politica di Hamas ha registrato un grande successo diplomatico, promuovendo l’immagine politica del movimento come forza di resistenza salda ma pacifica e non più riconducibile ai soli attacchi kamikaze, riannodando il collegamento ideale con una diaspora palestinese sempre più emarginata dal dibattito politico tra fazioni e riacquistando  alla causa palestinese quel capitale di simpatia e sostegno dell’opinione pubblica internazionale che essa sembrava aver inevitabilmente dissipato a seguito dello sconsiderato appoggio di Hamas alla sanguinosa dittatura di Bashar al-Assad allo scoppio della guerra in Siria (2011).

La nuova strategia perseguita dalla leadership di Hamas, tuttavia, si è scontrata contro l’assoluta inflessibilità israeliana ad alleggerire la pressione sulla Striscia senza sostanziali contropartite politiche: in particolare, il governo israeliano ha chiesto a Hamas una demilitarizzazione completa e il riconoscimento di Israele come condizione di una normalizzazione delle relazioni, comprensiva del rilancio dell’economica nella Striscia, di fondi internazionali e israeliani per la ricostruzione, dell’apertura dei valichi di frontiera con Israele ed Egitto e della costruzione di un nuovo porto e infrastrutture a Gaza. Richieste che per Hamas equivarrebbero alla cessione delle ostilità, allo smantellamento del proprio arsenale militare e, di fondo, alla dismissione completa della possibilità di una resistenza armata, al momento impossibili da accettare anche per la più pragmatica ala politica.

Quest’ultima non può però esimersi ancora a lungo dall’affrontare le pessime condizioni economiche della Striscia. I dati sull’economia di Gaza mostrano infatti che oltre dodici anni di governo del Movimento islamico hanno ridotto la popolazione civile all’isolamento e alla povertà, con oltre il 52% di disoccupazione, la recente sospensione del pagamento degli stipendi di oltre 5000 funzionari pubblici e prigionieri politici da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese e la parallela interruzione del trasferimento dei circa 15 milioni di dollari di fondi qatarini mensilmente versati nelle casse di Hamas per l’assistenza alle famiglie bisognose e per il sostentamento dei funzionari pubblici non più stipendiati dall’ANP.

Gli unici successi relativi ad oggi sono stati l’estensione della fornitura di energia elettrica da 4 ad ore 8 giornaliere e 4 anni di “relativa” tranquillità con Israele sul fronte militare. Troppo poco per riavvicinare il consenso popolare palestinese alla leadership del movimento islamico, la cui popolarità è in costante declino secondo i sondaggi del Palestinian Policy and Survey Research Centre, che infatti dichiara l’impopolare Mahmud Abbas addirittura superare di dieci punti il rivale Ismail Haniyeh nei sondaggi su possibili elezioni pan-palestinesi (sondaggio marzo 2019).

La leadership politica di Hamas ha recentemente puntato tutto su negoziati diplomatici con Israele mediati dall’Egitto: ad incontrare Haniyeh, che si è trattenuto in Egitto per più di tre settimane, non è però più stata la dirigenza politica israeliana, ma quella dei servizi segreti. Il direttore dello Shin Bet, Nadav Argaman, è infatti ancora in questi giorni di tensione con Gaza in contatto diretto con Moussa Abu Marzuq, dell’ufficio politico di Hamas, per scongiurare una nuova escalation. Il contatto al vertice non è stato reciso nemmeno quando il Premier Benjamin Netanyahu, tra le misure di ritorsione adottate per il lancio di missili di lunedì che ha colpito la capitale economica e nevralgica del Paese, ha annunciato il proseguimento di bombardamenti aerei sulla Striscia e l’invio di due brigate di fanteria e due corrazzate, ventilando la possibilità di una nuova incursione di terra.

La leadership di Hamas non ha alcun interesse a incoraggiare un nuovo conflitto con un governo israeliano uscente, che comunque non potrà sottoscrivere alcun accordo duraturo sul futuro di Gaza: ma il rinnovato lancio di missili dalla Striscia di lunedì scorso sembra piuttosto rivelare il riacutizzarsi di tensioni interne alla leadership di Hamas, soprattutto tra l’ala politica e quella militare, o tra Hamas e le fazioni da essa indipendenti, come la Jihad islamica, non soddisfatte dello status quo, che potrebbero voler sfruttare la scadenza elettorale israeliana per riaccendere i riflettori sullo stallo politico e diplomatico in cui versa la Striscia.

Dal lato israeliano, dopo l’attacco su Tel Aviv, il Primo ministro Netanyahu ha fatto immediatamente ritorno in patria dagli Stati Uniti, dove si trovava in visita di Stato per presiedere al convegno annuale AIPAC (la lobby ebraico-americana), dopo aver incassato il sostegno diplomatico del Presidente USA Trump alla formale annessione della alture del Golan. Il lancio di missili di per sé, che non ha provocato morti ma solo varcato una linea rossa della strategia di sicurezza israeliana, non avrebbe giustificato il repentino rientro in patria, se non fosse che ogni tensione con Gaza alla vigilia di una scadenza elettorale è facilmente strumentalizzabile nel dibattito politico interno dalle varie formazioni politiche, e questo soprattutto quando il 54% dei cittadini israeliani appare in un sondaggio ritenere la risposta del governo agli attacchi fin “troppo timida” (IDF Army Radio Poll).

I Bianco-Celesti (in ebraico, il contrario: Blu&Bianco), principali avversari di Netanyahu da “sinistra” – per quanto poco possa significare tale collocamento per decifrare lo spettro politico israeliano – si sono subito affrettati a dichiarare che il Governo ha fatto troppo poco per riportare la sicurezza nelle città del Sud, principali obiettivi degli attacchi. Benny Gantz, il candidato premier della nuova coalizione alternativa al Governo, ha dichiarato alla stampa che l’esercito israeliano deve ridurre “Hamas al completo silenzio” com’è stato con l’operazione Margine protettivo, perché ha l’obbligo morale di proteggere le comunità del Sud che contano quanto Tel Aviv. Ha proposto di impartire una punizione esemplare alla leadership di Hamas attraverso assassini mirati, così com’era stato per l’omicidio-simbolo di Ahmad Jabari, il suo “capo di stato maggiore”, nel 2012. Ha anche attaccato Netanyahu per la sua decisione di lasciar filtrare fondi qatarini nella Striscia, annuendo alla corruzione morale dell’attuale Primo ministro, sempre pronto a scendere a compromessi politici per interessi di breve periodo che nel lungo termine possono compromettere la sicurezza nazionale.

Benny Gantz, principale concorrente al Premier uscente alle prossime elezioni, vanta una credibilità come Capo di stato maggiore e come militare affidabile nel principale terreno di disputa di tutte le elezioni israeliane: le questioni di sicurezza. Tuttavia, egli è anche portatore di una credibilità morale personale costruita su un’esperienza professionale esente da corruzione e fondata sul rispetto delle regole e dello “stato di diritto”, in aperta opposizione alla leadership disinvolta di Benjamin Netanyahu, su cui pesano tre capi di imputazione per frode e corruzione.

Secondo le proiezioni elettorali degli ultimi giorni, Gantz e Lapid, i principali sfidanti dell’attuale Premier, potrebbero farcela a batterlo e diventare il primo partito politico del Paese, totalizzando tra i 30 e i 31 seggi contro i 28 del Likud. Tuttavia, essi non riuscirebbero facilmente a costruire una coalizione di governo, di cui tutti i partiti hanno bisogno per arrivare a costruire una vera alternativa elettorale nel frammentato panorama politico israeliano. Avendo escluso ogni alleanza con i partiti politici arabi e non potendo contare sull’appoggio di quelli ultraortodossi, il cammino dei Bianco-celesti verso il governo si profila difficile anche qualora venisse sottoscritto un accordo con i moribondi laburisti e i socialisti di Meretz, che insieme potrebbero portare nella coalizione di centro un pacchetto di voti compreso tra i 13 e i 16 seggi.

La Destra, invece, assicurerebbe facilmente una coalizione di governo assommando anche solo tre quarti delle forze politiche di destra attualmente esistenti: il Likud, partito capolista proiettato a 28 seggi, la Nuova Destra di Naftali Bennet e Ayelet Shaked con 5-7 seggi, il Nostro Israele di Lieberman con 4, l’Unione dei Partiti di destra con 5-6 seggi e i partiti ultraortodossi ashkenazita (United Torah Judaism, 7 seggi) e sefardita (Shas, 6-5). Complessivamente, le due coalizioni arriverebbero l’una, quella centrista, a 49 seggi massimo, e l’altra, quella di destra nazionalista, a 62: uno scarto sostanziale che potrebbe portare molti elettori a compiere una scelta pragmatica e di responsabilità in vista della governabilità del Paese, favorendo alle urne ancora una volta Netanyahu, investito di un quinto mandato.

Per quanto Gantz e Lapid siano dunque per la prima volta in 20 anni vicini a realizzare un risultato storico sconfiggendo l’eterno leader della Destra, la sfida elettorale si profila incerta e non bisogna farsi comunque facili illusioni sul rilancio di un processo di pace improntato alla logica dei due Stati. Innanzitutto, perché i Bianco-Celesti non pensano di invertire sostanzialmente le linee guida prevalse fino ad oggi: ovvero, né di evacuare i maggiori insediamenti, né di alleggerire l’assedio a Gaza senza contropartite politiche o militari sostanziali, né di allentare le tensioni con Hezbollah e la Siria (dichiarando, anzi, un entusiastico appoggio all’annessione delle alture del Golan), né di prospettare una cauta spartizione di Gerusalemme. Il programma dei Bianco-Celesti è infatti improntato al buonsenso, che significa principalmente tradurre il consenso oggi prevalente nell’opinione pubblica israeliana: affrontando la principale questione di sicurezza che pesa sul Paese, ovvero la crescente presenza iraniana ai confini di Israele, sviluppando economicamente la Cisgiordania retta da una moribonda ma collaborativa ANP, riannodando le relazioni con la diaspora americana e investendo su quei beni pubblici di base (scuole, infrastrutture) che rappresentano il cuore delle rivendicazioni sociali care ai cittadini.

I Palestinesi, dimenticati in primis dal mondo arabo e scaricati da Stati Uniti e Unione Europea, non figurano come una priorità politica nell’agenda né dell’uno né dell’altro partito in competizione, ma le recenti tensioni a Gaza servono soltanto a polarizzare lo scontro politico elettorale tra due forze che si assomigliano molto negli obiettivi di fondo, ma che intendono distinguersi nel modo di condurre le relazioni estere e rispondere alle aspettative sociali del Paese.

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