11 Ott 2018

Italia e migrazioni: alla ricerca di un equilibrio

A poche settimane dalle elezioni dello scorso marzo, ISPI aveva provato a tratteggiare possibili linee d’azione per la politica estera italiana sul fronte migratorio. Oggi, dopo il cambio di governo e la stagione estiva (periodo nel quale i flussi via mare tendono a intensificarsi), appare il momento giusto per rimettere in fila i fatti degli […]

A poche settimane dalle elezioni dello scorso marzo, ISPI aveva provato a tratteggiare possibili linee d’azione per la politica estera italiana sul fronte migratorio. Oggi, dopo il cambio di governo e la stagione estiva (periodo nel quale i flussi via mare tendono a intensificarsi), appare il momento giusto per rimettere in fila i fatti degli ultimi quattro mesi – anche per riflettere sugli interessi di lungo periodo dell’Italia e su come il Paese possa perseguirli nei prossimi anni.

Per cominciare, va probabilmente dato per acquisito il cambio di strategia di questo Governo per tentare di limitare i flussi migratori irregolari via mare. Laddove a marzo scrivevamo che sarebbe stato necessario “evitare un arretramento sul diritto internazionale”, l’attuale Governo sembra intenzionato a sfruttare tutta la zona grigia disponibile nelle regole internazionali. Senza dubbio non ci si è ancora spinti fino ai respingimenti diretti di potenziali richiedenti asilo prima di aver esaminato la loro richiesta – i cosiddetti refoulement, messi in atto nel 2009 dall’allora Ministro dell’Interno Roberto Maroni. Ma lo scarto rispetto alla strategia perseguita nei mesi precedenti è evidente.

L’anno scorso, il governo italiano aveva orientato i suoi sforzi verso la collaborazione con le milizie libiche coinvolte nei traffici irregolari, in particolare con quelle delle città lungo la costa occidentale del paese. L’obiettivo, centrato, era quello di convincere gli attori coinvolti nei traffici a limitare, anziché favorire, le partenze. E se è vero che anche nel 2017 era stata intrapresa una campagna di dissuasione nei confronti dei salvataggi in mare operati dalle Ong, proprio queste ultime avevano continuato a operare, tanto che tra agosto 2017 e maggio 2018 avevano tratto in salvo quasi 4 migranti su 10 lungo la rotta del Mediterraneo centrale.

Nel corso degli ultimi quattro mesi, nonostante sia proseguita l’attenzione ai rapporti con gli attori dei traffici sulla terraferma, l’atteggiamento nei confronti del salvataggio in mare è invece profondamente mutato. La strategia di “chiusura dei porti” del Ministro dell’Interno Matteo Salvini implica in effetti la dissuasione di qualsiasi attore che operi salvataggi, che si tratti di Ong, mercantili, o persino degli stessi assetti navali italiani. Emblematico il caso Diciotti di fine agosto, con una nave della Guardia costiera italiana cui è stato impedito per oltre dieci giorni di sbarcare in Italia la maggior parte dei migranti salvati.

Il cambio di passo della strategia italiana ha coinciso in questi primi quattro mesi con diversi sviluppi significativi. Sul fronte degli sbarchi, il calo del 78% fatto registrare tra luglio 2017 e maggio 2018  (da 200 mila a meno di 45 mila arrivi) è proseguito, e si è anzi rafforzato. Sulla base dei numeri di questi primi quattro mesi è possibile stimare che in un anno in Italia giungerebbero via mare meno di 20 mila persone. Numeri sempre più simili a quelli del 2012, l’anno che ha preceduto l’apertura in grande stile della rotta libica.

A fronte dell’ulteriore calo degli sbarchi – un indubbio successo per il governo in carica – ci sono tuttavia alcuni numeri che aprono interrogativi sulla sostenibilità di questa strategia. La stretta sui salvataggi ha infatti coinciso non soltanto con il significativo aumento del rischio di morte nel corso della traversata (passato dal 2,3% di chi partiva dalle coste libiche nel periodo 2014-2017 al 6,8% degli ultimi quattro mesi), ma anche con un aumento in numero assoluto di morti e dispersi in mare (dai circa 3 al giorno tra luglio 2017 e maggio 2018, ai circa 8 al giorno degli ultimi quattro mesi). Con sbarchi già molto contenuti, occorrerebbe una riflessione su come bilanciare la riduzione degli arrivi con il rischio che chi parte dalle coste libiche trovi la morte nel Mediterraneo.

Proprio la riduzione marcata dei flussi non deve inoltre distogliere l’attenzione da quello che dovrebbe restare un importante obiettivo dell’Italia: la revisione delle regole di Dublino, che impongono che siano i paesi di primo ingresso in Europa a valutare le richieste d’asilo. Sia chiaro: è pressoché certo che nel 2018 non avremmo visto alcuna riforma della normativa europea, a prescindere dal colore del governo in carica in Italia. L’assenza di progressi è dovuta infatti alla continua ostilità a riforme in senso solidale da parte di molti paesi, in particolare (ma non soltanto) quelli del gruppo di Visegrád. Tuttavia, la scelta di assecondare oggi le ansie nazionaliste di questi paesi rischia di non fare l’interesse dell’Italia nel medio-lungo periodo. Considerati i trend demografici e socioeconomici del continente africano, bisogna infatti essere consapevoli che nel medio-lungo periodo le pressioni migratorie dall’Africa resteranno elevate. Rimane dunque attuale la raccomandazione Ispi dello scorso marzo di chiedere più Europa – non meno – pur senza cedere a inutili illusioni.

Sul fronte esterno, poi, la Libia è e deve restare la nostra priorità. Dal calo degli sbarchi di luglio 2017 in avanti si è parlato molto dell’apertura di “rotte alternative” da Tunisia, Algeria o Grecia, fino addirittura a paventare un forte aumento degli arrivi direttamente dalla Turchia. La realtà è che, anche nei casi in cui sono in aumento rispetto agli anni scorsi, gli sbarchi in Italia dalle altre rotte ci appaiono significativi solo perché è stata quasi del tutto sigillata la rotta libica. Per esempio, gli arrivi dalla Tunisia sono più che quadruplicati rispetto all’anno scorso, passando da 993 a 4.446 nei primi otto mesi dell’anno. Ma si tratta davvero di poca cosa se li paragoniamo agli sbarchi dalla Libia che, nel 2016, avevano superato le 160 mila unità.

In conclusione, è naturale che i continui fallimenti dei negoziati a livello europeo possano avere scoraggiato i governi italiani. Ma i risultati raggiunti da un lato “esternalizzando” la gestione dei flussi migratori irregolari ad attori e paesi terzi, e dall’altro chiudendo le frontiere (non solo esterne) dei paesi europei, mettono l’Italia in una condizione di equilibrio precario.

Se i flussi irregolari tornassero ad aumentare, la strategia di chiusura dei porti entrerebbe rapidamente sotto pressione, in particolare nel caso il governo si trovasse costretto a gestire l’arrivo di più imbarcazioni in una volta sola. E una eventuale ripresa degli sbarchi metterebbe l’Italia di fronte alla cruda realtà: quella cioè di essere ancora più sola di fronte all’emergenza, in un clima europeo nettamente peggiorato rispetto a quello dell’estate del 2015.

Non sarà facile trovare una soluzione condivisa a livello europeo per gestire i flussi migratori da paesi extraeuropei nei prossimi anni. Ma mentre altri governi possono permettersi di adottare soluzioni di chiusura senza correre eccessivi pericoli, per l’Italia percorrere questa via espone il paese a rischi molto maggiori. Il compito sarà proprio quello di trovare la giusta via, per quanto impervia, per ricondurre il dibattito europeo sui flussi migratori irregolari su binari più diplomatici e meno dettati dalle emozioni. Con l’obiettivo di individuare soluzioni non soltanto politicamente realistiche, ma anche sostenibili nel lungo periodo.

 

Questo articolo è stato realizzato nell’ambito dell’Osservatorio ISPI-IAI sulla politica estera italiana

 

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